sabato 28 luglio 2012

El tiempo de los asesinos



El 12 de octubre (1936), aniversario del descubrimiento de América, “Día de la raza”, tuvo lugar un acto ceremonial en el Paraninfo de la Universidad de Salamanca. La audiencia estaba integrada por notables del Movimiento, incluido un fuerte contingente de la falange local. En el estrado tomaron asiento Carmen Polo, esposa de Franco, Pla y Deniel, obispo de Salamanca, el General Millán Astray, fundador del Tercio de Extranjeros (que llegó acompañado de sus legionarios), y Miguel de Unamuno, rector de la Universidad. Unamuno, irritado contra los gobernantes de la República, había apoyado al principio el “alzamiento” que debía “salvar la civilización occidental, la civilización cristiana que se ve amenazada”, pero no podía pasar por alto la matanza que se había llevado a cabo el la ciudad bajo los órdenes del comandante Doval, aquel que se había hecho famoso como represor en Asturias, ni los asesinatos de sus amigos Casto Prieto, alcalde de Salamanca, Salvador Vila, catedrático de árabe y hebreo de la Universidad de Granada, o García Lorca.



Los discursos iniciales corrieron a cargo de Vicente Beltrán de Heredia y de José María Permán. Acto seguido el profesor Francisco Maldonado lanzó una tremenda diatriba contra los nacionalismos catalán y vasco, “canceres de la nación” que había de curar el implacable bisturí de fascismo. Al fondo de la sala alguien lanzó el grito legionario “¡Viva la muerte!” y el general Millán Astray, que parecía el auténtico espectro de la guerra, manco, tuerto y cubierto de cicatrices, dio los “¡vivas!” de rigor, mientras los falangistas saludaban a la romana hacia el retrato de Franco, que colgaba sobre el sitial de su esposa. El alboroto se desvaneció cuando Unamuno tomó la palabra: 


  Estáis esperando mis palabras. Me conocéis bien y sabéis que soy incapaz de permanecer en silencio. A veces, quedarse callado equivale a mentir. Porque el silencio puede ser interpretado como aquiescencia. Quiero hacer algunos comentarios al discurso, por llamarlo de algún modo, del profesor Maldonado. Dejaré de lado la ofensa personal que supone su repentina explosión contra vascos y catalanes. Yo mismo, como sabéis, nací en Bilbao. El obispo, lo quiera o no lo quiera, es catalán nacido en Barcelona.


Pla y Deniel se removió a disgusto por la alusión de Unamuno a su lugar de origen, que era casi en sí mismo una implicación de deslealtad a la cruzada nacional. Entre el silencio general, Unamuno prosiguió:


  Pero ahora acabo de oír el necrófilo e insensato grito: “¡Viva la muerte!”, Y yo, que he pasado mi vida componiendo paradojas que excitaban la ira de algunos que no las comprendían, he de deciros, como experto en la materia, que esta ridícula paradoja me parece repelente. El general Millán Astray es un inválido. No es preciso que digamos esto con un tono más bajo. Es un inválido de guerra. También lo fue Cervantes. Pero, desgraciadamente, en España hay actualmente demasiados mutilados. Y, si Dios no nos ayuda, pronto habrá muchisímos más. Me atormenta pensar que el general Millán Astray pudiera dictar las normas de la psicología de masa. Un mutilado que carezca de la grandeza espiritual de Cervantes, es de esperar que encuentre un terrible alivio viendo como se multiplican los mutilados a su alrededor.



Legado Unamuno a este punto, Millán Astray ya no pudo contener su ira por más tiempo. “¡Muera la inteligencia! ¡Viva la muerte!”, gritó a pleno pulmón. Falangistas y militares echaron mano a sus pistolas y hasta el escolta del general apuntó su subfusil a la cabeza de Unamuno, lo que no impidió que éste terminara su intervención en tono desafiante: 


  Este es el templo de la inteligencia. Y yo soy su sumo sacerdote. Estáis profanando su sagrado recinto. Venceréis, porque tenéis sobrada fuerza bruta. Pero no convenceréis. Para convencer hay que persuadir. Y para persuadir necesitaríais algo que os falta: razón y derecho en la lucha. Me parece inútil el pediros que penséis en España.




Hizo una pausa y dejando caer, sin fuerza, los brazos, concluyó en tono resignado: “He dicho”. Se dice que la presencia de Carmen Polo le libró de ser asesinado allí mismo, y que cuando Franco se enteró de lo que había occurrido lamentó que no hubiese sido así. Seguramente los nacionales no asesinaron a Unamuno por la fama internacional del filósofo y por la reacción que había causado ya en el exterior el asesinato de García Lorca. Pero Unamuno, destituido como rector y confinado en su domicilio, murió el día de fin de año consternado y tachado de “rojo” y traidor – aunque su funeral fuera manipulado por los falangistas – por aquellos a quienes él había creído amigos. 

 











Il tempo degli assassini




Il 12 ottobre (1936), anniversario della scoperta dell'America, "Giorno della razza", si tenne una cerimonia nell'Auditorium dell'Università di Salamanca. Il pubblico era composto da notabili del Movimento, tra cui un forte contingente locale della falange. In platea presero posto Carmen Polo, moglie di Franco, Pla y Deniel, vescovo di Salamanca, il generale Millán Astray, che arrivò accompagnato dai suoi legionari (Millán Astray fu il fondatore della Legione straniera; la Legión, creata su imitazione della legione straniera francese), e Miguel de Unamuno, rettore dell'Università. Unamuno, irato contro i governanti della Repubblica, aveva sostenuto al principio il “sollevamento” che avrebbe dovuto "salvare la civiltà occidentale, … la civiltà cristiana che si vede minacciata", ma non poteva sorvolare sulla carneficina che ebbe luogo nella città sotto gli ordini del comandante Doval, già tristemente noto come repressore nelle Asturie; né poteva sorvolare sugli omicidii dei suoi amici Casto Prieto, sindaco di Salamanca, Salvador Vila, professore di arabo ed ebraico all'Università di Granada, o García Lorca.



I discorsi d'apertura toccarono a Vicente Beltrán de Heredia e José María Permán. In seguito, il professor Francisco Maldonado lanciò una tremenda tirata contro i nazionalismi catalano e basco, “tumori della nazione” che dovranno estirparsi con l'implacabile bisturi del fascismo. Dal fondo della sala qualcuno urlò il grido legionario “Viva la morte!” e il generale Millán Astray, che appariva come un autentico spettro della guerra, monco, guercio e ricoperto di cicatrici, diede il La coi “viva!” di rigore, mentre i falangisti tesero il braccio nel saluto romano verso il ritratto di Franco, che incombeva al di sopra del sedile della sua sposa. Il tumulto svanì quando Unamuno prese la parola:


  State aspettando le mie parole. Mi conoscete bene e sapete che sono incapace di stare in silenzio. A volte, stare zitti, equivale a mentire. Perché il silenzio può essere interpretato come acquiescenza. Voglio fare un commento al discorso, per definirlo in qualche modo, del professor Maldonado. Lascerò da parte l'offesa personale sottintesa nella sua velleitaria esplosione contro baschi e catalani. Io stesso, come sapete, sono nato a Bilbao. Il vescovo, che gli piaccia o no, è catalano nato a Barcellona. 

Pla y Deniel si mosse a disgusto all'allusione di Unamuno al suo luogo d'origine, che era quasi, di per sé, un'implicazione di slealtà verso la crociata nazionale. Nel silenzio generale, Unamuno proseguì:  

  Ma sento adesso il grido necrofilo ed insensato: “Viva la morte!”. Ed io, che ho passato la mia vita forgiando paradossi che suscitavano l'ira di coloro che non li capivano, debbo dirvi, da esperto autorevole, che questo ridicolo paradosso mi è repellente. Il generale Millán Astray è un menomato. Sia detto senza alcuna intonazione irriverente. È un invalido di guerra. Anche Cervantes lo era. Sfortunatamente oggi in Spagna i mutilati abbondano. E, se Dio non ci viene in aiuto, presto ce ne saranno molti di più. Mi inquieta pensare che il generale Millán Astray possa dettare le norme della psicologia di massa. Un menomato che manchi della grandezza spirituale di Cervantes, c'è da aspettarsi che trovi un orrendo sollievo vedendo come si moltiplicano gli invalidi attorno a lui.

Quando Unamuno giunse a questo punto, Millán Astray non poté più contenere la sua ira. “A morte l'intelligenza! Viva la morte!”, urlò a pieni polmoni. Falangisti e militari misero mano alle loro pistole e perfino la scorta del generale puntò la sua mitraglia alla testa di Unamuno, senza però impedirgli di terminare il suo intervento, in tono di sfida: 

  Questo è il tempio dell'intelligenza! E io sono il suo sommo sacerdote! Voi state profanando il suo sacro recinto! Vincerete, perché avete più forza bruta di quanto sarebbe necessario. Ma non convincerete. Perché per convincere bisogna persuadere. E per persuadere avreste bisogno di tutto quello che vi manca: la ragione e il diritto alla lotta. Mi sembra inutile chiedervi di pensare alla Spagna.




Fece una pausa, e lasciando cadere le braccia ormai senza più forze, concluse, in tono rassegnato: “Ho finito”. Si dice che la presenza di Carmen Polo gli abbia risparmiato di essere assassinato in quello stesso momento, e che quando Franco seppe quello che era accaduto si lamentò che non lo avessero fatto. È certo che i “nazionali” non uccisero Unamuno per la fama internazionale del filosofo e per la reazione causata all'estero dall'omicidio di García Lorca. Tuttavia, Unamuno, destituito come rettore e confinato nel suo domicilio, morì l'ultimo giorno dell'anno, costernato e tacciato da “rosso” e traditore – benché il suo funerale fu strumentalizzato dai falangisti – da coloro che aveva creduto amici.



















sabato 21 luglio 2012

I remoti orizzonti di Milano


di Franco Sarbia

Il codice generatore della città di Milano è riconducibile alle remote basi linguistiche dei nomi attribuiti al suo territorio da chi per primo ne comprese ed animò lo spirito. Ne “le Origini della cultura Europea” il filologo Giovanni Semerano svela i principali caratteri dell’incontro tra quella cultura e quell’ambiente naturale. E vi scopre la testimonianza di antichi popoli che qui giunsero, vagarono e vissero agli albori della civiltà urbana. È tanto più significativo il risultato della sua indagine perché riesce ad esplicitare, solo attraverso la ricerca filologica, le relazioni organiche dei luoghi e dei fiumi con il loro contesto senza averne potuto approfondire le caratteristiche morfologiche originarie. Questo scritto si propone di condividere una riflessione che vuole evidenziare e sviluppare le implicazioni di quelle intuizioni.

Milano emergente

Secondo Giovanni Semerano il nome latino di Milano, «Mediolanum, è riconducibile ad Accadico mešlu (in mezzo, greco μέσος, latinizzato a medius) ed elānum (sopra). Già A. Solmi sostenne che Mediolanum doveva assumersi come forma aggettivale gallica nel senso di Medianum “luogo emergente in mezzo a corsi d’acqua, fiumi, canali, paludi”. Ma fu rifiutata tale intuizione perché non (ancora) “sufficientemente sorretta da prove linguistiche”». Sulla stessa base troviamo l’accadico Mišlānū con il significato di metà o mediana. Dopo la latinizzazione in “medius” la radice mešlu riemerge nei nomi moderni di alcune delle numerose Mediolanum francesi: Meslan, Meslain, Meslin, Moislains, Moëslain, Moslins. Presso i parlanti lingue native, artiche, americane, cinesi, australiane, come presso le popolazioni semitiche, originarie delle terre mesopotamiche, ai luoghi, come alle persone, sono usualmente assegnati nomi composti e aggettivati corrispondenti al carattere e al contesto ad essi attribuiti dalla comunità dei parlanti.
Accade così, come già visto per altri diversi toponimi (Majella), che il carattere di un luogo possa essere associato ad altri nomi assonanti che ne definiscono compiutamente le caratteristiche. Sicché la connotazione delle terre di mezzo (Mešlu, Mišlānū) può essere completata, insieme o singolarmente, con l’occorrenza di un rilievo, Mēlû, protetto dalle alluvioni, in prossimità di corsi d’acqua o sorgenti, Ēnu, o di aree di esondazione, Mīlu, fecondate dal limo. Così appare, dalla lettura del suo accoppiamento strutturale con il territorio, la Milano originaria, situata su una motta alluvionale, nel mezzo di una fascia di risorgive, tra Olona e Lambro a scala locale, tra Ticino e Adda a scala regionale, e all’incrocio di grandi vie di comunicazione continentali.
Nell’uso delle popolazioni locali sembra essere prevalsa, con Milan, la forma verbale incrociata con Mēlû (o Mīlu) ed ēnu (ain). Ritroviamo queste radici, talvolta con la consonante raddoppiata del celtico “Mello”, collina, di diretta derivazione accadica, sia in siti come Mellani e Mellana o Mele, sia nella regressione dall’indifferenziato toponimo, sovrapposto dalla latinizzazione a nomi similmente assonanti per altre Mediolanum, cosiddette gallo-celtiche, quali: Melay, Melin, Melian, Malain, Malaincourt, Millan.
Per proseguire il racconto delle speciali relazioni della Milano emergente con il territorio bisogna tornare alla riflessione di Giovanni Semerano sui due fiumi più vicini tra i quali è situata: Olona e Lambro.
«Olona: ālu-ēnu (come Olio) Accadico agû - eliu (acqua alta) incrociato con ālu che condivide la radice di Alemanni: (insediamento, paese, villaggio, stanziamento elevato, city; estate, manor); al plurale ālū, ālānu ālāni lo ritroviamo in Mediolanum come ēnu (ain, fiume o fonte) nel senso di fiume del paese, acqua del territorio». L’Olona scorre sul piano terrazzato, dei depositi glaciali di Wurm, che degrada dai laghi alpini fino al risorgere delle acque della falda superficiale attorno a Milano. Il “pellegrino d’oriente” proveniente dalla Milano dei monti Martani, lungo la “retta via” del Decumano massimo, che allinea la Sila alle Cassiteridi attraverso il guado di Piacenza sul Po, la può risalire sicuro fino al bosco delle Groane. Riecheggia in quel nome un gorgoglìo d’acque serpeggianti: similmente a Garonne, da Accadico garāru (correre, serpeggiare, errare) incrociato con gerru (strada) e hurranu (sentiero nella foresta). E quel sentiero a Nord Ovest accompagnerà il nomade quasi in cielo: fino agli orizzonti Europei dischiusi dal Sempione.
«Lambro, Accadico Luhmû (pantano) e Ambar (palude). La radice Ambar è comune a Lambrus ed ai fiumi che danno luogo a larghe stagnazioni come, Ambra, Ombrone, Sam-bra, con il significato di Fiume che dilaga in palude». Con un elegante intervento d’ingegneria idraulica i romani deviarono il corso dell’Olona e del Seveso nel fossato della città augustea. Resero così navigabile l’accesso al Po attraverso il tratto terminale del Lambro: convogliando le acque di deflusso nella roggia detta Vettabbia (Vectabilis); separando e adducendo i reflui della cloaca nel Lamber meridionalis, rinominato Lamber merdarius, ancor oggi destinato a concimare le residue marcite. Secondo la tecnica romana di costruzione dei canali il materiale di scavo era posto sull’argine a formare l’alzaia, ovvero una via di comunicazione carrabile sopraelevata e difesa dalle esondazioni, mentre il canale stesso drenava le acque stagnanti bonificando il terreno paludoso. 

Occhio”, testa di fontanile

Così dovette avvenire per la deviazione del Seveso nel tratto terminale d’accesso al fossato, a nord est, in corrispondenza del Cardo Massimo. Ma la funzione del Seveso, di confinamento e drenaggio delle paludi del Lambro, doveva già essere nota ai primi coloni perché zāʾibu è il nome di un fiume accadico (Zāb) che scorre su un terreno intriso d’acqua; zâbu, significa disciogliere defluire, far scorrere, mentre bêšu significa andare via, ritirare, ed ebēru vale per attraversare, andare oltre. Sicché Seveso sulle basi Zāʾibu e bêšu doveva risuonare come fiume che fa defluire (andar via, ritirare) le acque attraverso un terreno intriso d’acqua. Allora, ancorché il Cardo Massimo della Mediolanum preromana fosse esattamente orientato dal Tenda al Brennero, collocandosi a metà tra i due, il dilagare delle acque del Lambro e il difficile guado dell’Adda imponevano di risalire fino ai contrafforti delle prealpi bergamasche per raggiungere a nord est la futura Brixia.
Verso sud – ovest, invece, il terreno disseminato di fontanili doveva aprirsi in ampie radure dalle quali emergevano bassi colli generati da depositi alluvionali. In quella zona ancor oggi antiche cascine, come Montecucco o Monterobbio, assumono il nome dal rilievo sul quale furono edificate. Il nome di questo territorio identifica un odierno quartiere periferico incuneato tra i due Navigli: la “Barona”. La sua origine sembra essere un paradigma dell’assunto secondo il quale toponimi e idronimi frequentemente rappresentino, nell’incrocio delle loro radici, “un insieme di tratti distintivi concomitanti”: quasi un’applicazione estensiva delle proprietà che Ferdinand de Saussure e Roman Jakobson attribuivano ai fonemi. Barona pare costituito, infatti, sulla base dell’accadico Barû, guardare lontano, attentamente, osservare, sovrintendere, annunciare, ed ēnu che riassume il doppio significato di sorgente e di occhio. Chi ha veduto la consueta configurazione ad occhio della testa di un fontanile assottigliata, come palpebra, dalla sua coda di deflusso non troverà singolare questa omonimia. Tale considerazione indurrebbe a risolvere il senso del toponimo quale luogo emergente di osservazione e gestione di una vasta distesa pianeggiante, a pascolo o coltura, disseminata di risorgive.
Le risorgive sono una risorsa strategica della macchina naturale sulla quale è insediata Milano: come lo furono per Eridu e Mileto all’origine della stessa civiltà urbana. Presidiarle significa difendere i margini di sopravvivenza della città. Ancor oggi la Barona, a sud, è parte del fertile parco agricolo di Milano. Con una temperatura che oscilla tra i 14 gradi d’estate e gli 11 gradi d’inverno le acque che sgorgano dai fontanili, costituiscono un sistema naturale di termoregolazione per tutta la città. Impediscono di gelare ai campi allagati a marcita. Oggi esistono solo alcune marcite come testimonianze del passato ma nel medioevo erano diffuse e consentivano fino a dieci abbondanti raccolti di foraggio nell’anno solare. La desinenza femminile del nome moderno della Barona lascia intendere, tuttavia, il riemergere da un lontano passato della forma femminile duale di ēnu: īnā (gli occhi). In questo caso con il significato inequivocabile di occhi che guardano lontano. La collocazione della Barona sul prolungamento a sud ovest del Cardo Massino, a meno di tre miglia romane dal nucleo dell’insediamento originario, combina quindi sia una funzione di presidio delle risorse alimentari sia di controllo dell’accesso alla città. L’osservazione da un rilievo naturale, e da una probabile torre di segnalazione, nei giorni di aria tersa lasciava spaziare lo sguardo dal pizzo Arera all’Argentera, dal Monte Leone fino a rare apparizioni del Monte Cimone, appena rilevato sull’estremo orizzonte di sud est. Analogo significato, di punto di vista privilegiato su ampi orizzonti, dovettero generare i nomi dei due monti “Barone” del Varesino e del Biellese.
Ma la “luce di antiche stelle ormai spente” continua ad illuminare pure il senso che assumono, in quelle antiche lingue morte, i torrenti che convergono a ventaglio su Milano: quali il Pudiga, il Nirone e il Molia. Già confluivano nel fossato prima che vi fosse deviato l’Olona come via d’acqua per trasportare i massi di fondazione delle mura Augustee di documentata provenienza dalla sua valle. Vi giungevano per via d’acqua su tronchi legati a zattera, poi utilizzati come materiali da costruzione, assieme all’abbondante argilla del sito. Il torrente Nirone ha continuato a svolgere negli ultimi seicento anni la sua funzione difensiva confluendo successivamente nel fossato del castello sforzesco, a dispetto del suo nome: da Accadico Nārum, fiume, incrociato con Niqrum, abbattere le rive, devastare.
L’etimo del Pudiga sembra riconducibile alla stessa radice del nome ligure del Po, Bodincus, βόδεγχος corrispondente ad Accadico Butiqtu (inondazione, fiume) incrociato con Badāqu (rompere gli argini). Dal punto di vista delle ovvie difficoltà, per le popolazioni neolitiche, a dissodare le terre aride e a costruire canali con aratri di legno, osso o pietra, non si deve immaginare l’azione di rompere gli argini come sinonimo d’infausto e incontrollato devastare. Era piuttosto una pratica consolidata d’intervento sugli argini «dove scorrono torrenti a portare per concime il limo» (Virgilio, 31 e 29 a.c. Georgiche). Quelle popolazioni educate da sei millenni di diluvio nelle loro terre d’origine, sapevano volgere a proprio favore la furia distruttiva della natura. Rinforzavano gli argini dove necessario riportandovi con ceste il materiale umido e sabbioso in eccesso, asportato con fatica - secondo il destino che gli Dei avevano assegnato agli uomini - ma senza difficoltà dai tratti in prossimità di radure di facile accesso e coltivazione: rompendo gli argini dove serviva “regolare” ed indirizzare l’esondazione, in modo che il limo vi dilagasse per rinnovare la fertilità dei campi. Similmente a Μολόεις, fiumiciattolo presso Platea, il Molia deve il suo toponimo all’Accadico malā’um (essere pieno) da mēlu, mīlu (piena), da intendere anche in questo caso come opportunità più che come minaccia. Nessun’altra cultura poteva disporre, tra sei e quattromila anni da oggi, delle basi di conoscenza necessarie ad interpretare con una tale varietà di idronimi e di toponimi, e in modo così sistematico, la natura di quel territorio ricco di acque.
Le caratteristiche fertilizzatrici delle acque di superficie e le straordinarie proprietà della falda superficiale risorgente, in corrispondenza di un nodo di comunicazione continentale, furono la ragion d’essere della Milano emergente. La sua collocazione strategica su una Ziggurat naturale, generata dal caos e attorniata da terre naturalmente fertilizzate dall’acqua, doveva apparire ai coloni simile a quella dei villaggi della cultura di Obeid nelle vaste pianure degradanti dalle montagne dell’Anatolia, prima che una progressiva siccità, dal sesto al quarto millennio aC, inducesse a concentrare le terre agricole in prossimità dei corsi dell’Eufrate e del Tigri, dove ormai solo grandi collettività umane asserragliate nelle prime città potevano compiere gli imponenti lavori idraulici necessari ad irrigarle, costrette a difendere stabilmente il frutto del loro lavoro per sopravvivere.
Là per la prima volta nel ciclo di vita dell’umanità un solo chilometro quadrato di terra inondata dal limo aveva potuto nutrire 4000 persone. Un solo uomo lavorando la sua terra per pochi mesi era riuscito a mantenere agiatamente una famiglia di otto persone. Ma dal quarto millennio prima di Cristo, con la siccità, i figli innumerevoli di quella civiltà dovevano cercare lontano le terre fertili per le loro future famiglie.
Dapprima furono i pascoli, fino ad allora in simbiosi con l’agricoltura, a divenire incompatibili con il ridursi della terra fertile. E ad alimentare un nuovo nomadismo fu la necessità di abbandonare l’avara steppa desertica, arsa dal sole e dalla pratica del debbio, e muoversi verso l’ignoto, a Nord e a Occidente, alla ricerca di nuove praterie verdi. Capre e asini costituivano una riserva logistica per chi doveva spingersi, in avanscoperta sempre più lontano, alla ricerca di risorse minerarie affioranti e non presidiate: di vitale importanza per i primi insediamenti urbani, nati dal fango e perciò totalmente privi dei materiali duri necessari per costruire utensili e armi appropriate. E il nomadismo a scala continentale, veicolo di comunicazione e di congiunzione tra diverse culture, avviò il processo di fondazione della koiné linguistica della cultura europea. L’arricchimento culturale e tecnologico, nato dall’incontro delle differenze, assieme al rapido accrescimento delle popolazioni su territori sconfinati, rendevano i reami nomadi capaci di assumere ciclicamente il predominio anche sulle nascenti città stato. Così avvenne per le popolazioni accadiche prima e poi, tra altri, per gli Achei, agli albori della nostra civiltà.
Sulle alte vie d’Europa li guidavano gli astri e i monti. Costellavano il loro percorso di steli dove il piede astrale delle stelle più luminose che indicavano le vie del cielo segnava i sacri crocevia dei percorsi terrestri. 

Mešlu 

Anno 4041 aC., 21 Giugno, ore 01:01:12: il prolungamento della linea che congiunge le due stelle più luminose del cielo estivo, Vega e Arturo, si trova allo zenit di Milano e indica la retta via delle terre di mezzo. Giunta sulla Sila da Crotone una comunità nomade guidata da una sciamana ne seguirà il percorso per una intera stagione. Scenderà ad Aieta e Sapri, poi incontrerà in perfetto allineamento con le più alte vette della dorsale appenninica: Moiano di Benevento, Marruvium e Magliano de’ Marsi, Milano (Mediolana) di Spoleto, Pieve a Maiano di Arezzo, le cave di Maiano di Fiesole, Migliana PO, Miano e Medesano di Parma, Melegnano, Milano lombarda, Murten delle Berner Mitteland, Mesandans, Melin, Melay, Moslins, Amiens Caesar (una delle Mediolanum francesi) in prossimità di Moislains, Mayfields nel regno unito, Midland terrace, Millan, Maidenhead, Middletown presso Oxford, sfiorerà Stradford Upon Avon, poi ancora una Middletown, Menai Bridge, Middletown di Armagh in Irlanda e infine Middleton Co. Donegal e Middletown, presso il Kilclooney dolmen all’estrema propaggine di nord Ovest delle Cassiteridi, in vista dell’oceano. Con la precessione degli equinozi lo zenit di Vega scenderà verso Murten e a metà del quarto millennio si troverà sopra Milano, trasformandola in crocevia celeste. È curioso notare che il logogramma cuneiforme di Mešlu è costituito da una semplice croce, come l’attuale cristiana bandiera di Milano.
Oggi Milano è il piede astrale di Deneb. Invocando i poteri magici di Medea, possiamo ancora immaginare che in una notte di mezza estate la costellazione dei falò delle montagne incatenerà Homan sulle ali di Pegaso, Deneb allo zenit, e Alkaid, ai confini dell'aurora e del tramonto. Solo in quell'attimo la poesia indicherà la retta via del cielo per Stratford. E Prospero, duca di Milano nella Tempesta di Shakespeare, potrà nuovamente ammonire: «Con la mia preveggenza trovo il mio zenit dipendere da una stella, la più propizia. Se la sua influenza non colgo ora, ma tralascio, le mie fortune declineranno per sempre».
Valdengo 20 luglio 2012







lunedì 25 giugno 2012

Homo homini lupus




Di Franco Sarbia


Βάρβαρος: Straniero. Latino Barbarus
Viene solitamente accostato a latino balbus, babulus: balbuziente, come appellativo irridente di popoli selvaggi, incapaci di parlare correttamente una lingua civile. La parola barbaro rivela, invece, una storia di paura del diverso. E di razzismo perché è sempre riferita all'«Altro» per giustificarne lo sterminio preventivo e legittimare la nostra stessa barbarie. Secondo Giovanni Semerano corrisponde a Sumerico Bar-ba-ra, «Straniero», dalla base sumerica Bar: «che si trova accanto, confinante». Riceve successivamente l’attuale accezione minacciosa e demonizzante - assunta da Greci e Romani ed ereditata dalle lingue moderne - incrociandosi con l’Accadico Barbaru (barburu): «Lupo» (Proto-Semitico: *Barbar «Lupo, Sciacallo». Arabico: Babr بَبْر «Tigre»). Da qui l’aggettivo Barbarānu: «Come un lupo, simile al lupo, lupesco». Detto di essere disumano e spietato che attacca in branco, rimanda direttamente all'inglese Barbarian: «Barbaro, persona incolta, crudele e brutale».



I tedeschi dicevano gli Ebrei “lupi travestiti da agnelli” e ne negavano l'umanità per sterminarli con coscienza. Ma non sono stati gli ultimi a considerare “non umani” i popoli da discriminare. Tra la nostra gente si sente spesso dire che arabi, o zingari, o africani, o orientali non sono umani come noi, e non vanno accolti perché non rispettano le nostre regole di civiltà. E fanno paura, come lupi, quando si aggirano di notte nelle nostre città. Quando un popolo nega l'umanità di un altro popolo giustifica ogni propria barbarie contro di esso. E diventa sommamente disumano. Poi c’è sempre chi, facendo leva sui sentimenti di paura, dà dignità di ideale a tanta brutale ignoranza.
Noi, Italiani, che siamo stati governati per oltre mezzo secolo da partiti religiosi integralisti, noi, Occidentali, che in nome dell'integralismo calvinista abbiamo scatenato guerre sante in Iraq e in Afghanistan, ci scandalizziamo se i popoli arabi, per non somigliarci, si fanno rappresentare da partiti religiosi moderati.
Eppure, senza poterlo dimostrare, sono dell'opinione che le genti semitiche dei primi millenni di civiltà urbana in Mesopotamia definissero Barbarānu, come lupi, proprio quelle orde di illetterati con i capelli biondi e gli occhi azzurri che si affollavano alle loro frontiere. Provenivano dalle steppe nebbiose del nord, dove sopravvivevano a stento: aiutati dai lupi stessi nella caccia al veloce cavallo. Della sua carne si nutrivano, giacché non conoscevano né agricoltura né allevamento né, tantomeno, scrittura attraverso la quale diffondere la leggendaria lingua Indo-Ariana. Allora, e oggi alla luce della storia, come dar torto al popolo di Babel che già cinquemila anni fa partecipava alla convivenza civile della propria città con un sistema bicamerale?










Βάρβαρος: Foreign. Latin Barbarus
It is usually approached to the Latin balbus, babulus: stuttering, as mocking nickname of primitive peoples, unable to speak correctly a civil language. The word barbarian reveals, however, a history of fear of difference. And of racism because it is always referred to the «Other» to justify the preventive extermination and legitimize our own barbarity. According to Giovanni Semerano the word corresponds to Sumerian Barba-ra, «Alien», from the Sumerian base Bar, «which is located beside, neighbor». Subsequently receives the current threatening and demonizing meaning, taken by the Greeks and Romans and inherited by the modern languages, crossing with the Akkadian Barbaru (Barburu): «Wolf» (Proto-Semitic: * Barbar «Wolf, Jackal». Arabian: Babr بَبْر. («Tiger»). From here the adjective Barbarānu: «wolf-like, wolflike, like a wolf, wolfish». Said to an inhuman and ruthless living being, attacking in packs, refers directly to English Barbarian «an uncultured or brutish, cruel, person». The Germans called the Jews "wolves in sheep's clothing" and denied their humanity to exterminate them with consciousness. But they were not the last to consider “non-human” peoples to discriminate. Among our people we often hear that Arabs or Gypsies, or Africans, or Orientals are not human like us, and are not acceptable as they do not respect our rules of civility. And they scare, like wolves, when they wander at night in our cities. when a population denies the humanity of another population it justifies all it’s own barbarity against it. And it becomes extremely inhumane. Then there are always those who, relying on feelings of fear, give dignity of ideal to such brutal ignorance. We, Italians, that have been governed for more than half a century by religious fundamentalist parties, we, Westerners, that have unleashed, in the name of fundamentalism Calvinist, holy wars in Iraq and Afghanistan, we cringe when the Arab people, not to look like us, make themselves be represented by moderate religious parties. Yet, without being able to demonstrate, I am of the opinion that the Semitic peoples of the first millennia of urban civilization in Mesopotamia defined Barbarānu, as wolves, those hordes of illiterate people with blond hair and blue eyes who flocked to their borders. Came from the misty steppes of the north, where they survived hardly, helped by the very wolves in the hunting of the fast horse. They used to eat its meat, because they knew neither agriculture nor livestock, nor, even less, writing through which to spread the legendary Indo-Aryan language. Then and now in the light of history, as we blame the people of Babel that five thousand years ago participated in the civil life of their city with a bicameral system?  
Biella, 19 giugno 2012 

domenica 6 maggio 2012

Majella Madre e la pioggia di Maggio


Di Franco Sarbia

Ho riflettuto sull'insistenza di questa pioggia d'inizio maggio e ritengo d'esser venuto a capo, con l’aiuto di Giovanni Semerano, delle radici linguistiche che inducono ancor oggi noi, come gli antichi italici che ne abitarono le pendici, a definire la Majella grande madre.

Avevo dapprima ipotizzato, per la genesi del suo nome, la sua composizione da mah(r)û-ellû: la montagna più grande. La prima grande altura, mēlû, verso gli alti pascoli estivi di Aitalia - Italia, che in Aramaico significa sera, terra della sera o terra del tramonto - seguendo il percorso del sole a ponente. E tuttavia la difficoltà dell'approccio di Giovanni Semerano, che provo a emulare, non consiste nel ricondurre svariati nomi ad una delle poche corrispondenti radici indoeuropee inventate. Al contrario, per nominare uno stesso luogo, anche con le mie scarse informazioni sugli antichi codici del vicino oriente, s'affollano molteplici voci, che il sole radente rileva nell'argilla da cinque millenni. Tra queste "Madgulu" indica: torre d'avvistamento, punto di vista, prospettiva. Se proviamo a pronunciare la doppia consonante "dg" ne scaturisce il suono "j" di Majella.


Allora ho immaginato antichi popoli che, risalendo la montagna con armi e armenti, cantavano le mete del loro percorso e generavano la mappa dei luoghi ritmando l’incedere sull'armonia dei suoni assonanti, come racconta Bruce Chatwin nelle "Vie dei canti". Ed erigevano megaliti come "pietre che cantano" e indicano l'identità dei luoghi consacrati all'incontro tra le vie della terra e le vie del cielo, elevando ad esso inni propiziatori. Così giunti alla vetta, al dispiegarsi dell'ampio orizzonte dal mare ai grandi appennini, il tono mutava trasformando anche il significato, da punto di riferimento geografico, in punto di vista. E variando ancora il tema nominavano finalmente la cima più alta che apriva lo sguardo sui termini estremi di Aitalia: Sempervisa e Terminillo, con la Majella ai vertici di un perfetto triangolo equilatero. Amāru chiamarono quell'osservatorio sommitale. In accadico amāru significa, guardare con insistenza, esaminare, leggere, ammirare. Da lassù le costellazioni di astri disegnano sulla terra costellazioni di luoghi. E gli allineamenti di stelle indicano nuove strade a chi li sappia leggere. E poi i percorsi battuti per millenni diverranno tratturi. La  vetta della Majella per cinquemila anni non ha cambiato nome. Ancor oggi si chiama monte Amaro. Etimo che questo naturale punto di osservazione condivide con ammirazione e amore.
Ma perché Majella madre? Oggi nessuno penserebbe di consacrare una montagna ad una divinità femminile, perché è maschio l'insostenibile dominio sulla terra, della moderna civiltà urbana, ma è femmina una terra libera, dagli ampi sconfinati orizzonti. Le vette più alte, innumerevoli come i seni di Artemide, sono sacre. Lassù ai confini del vento la Grande Madre terra incontra il Dio del cielo e feconda la vita. Specialmente sulla Majella ciò avviene. Māia, divinità greca Μαĩα, “la mamma” di Mercurio, è la più bella delle Pleiadi, le piovose. Evoca le piogge di Maggio, fecondatrici e vitali per le terre meridionali, «Māium: mensem Romani a Maiia, Mercuri matre». Il nome della Dea deriva, infatti, da aramaico Majja, ebraico maiim, accadico mā’ū: acque. Le acque di maggio, fecondatrici della madre terra, sono a buon titolo qualificate dall’aggettivo accadico “ellu”: puro, sacro.

Majja ellu, Sacra Madre fecondatrice, così doveva allora risuonare il nome della Majella, capace di condensare l’umidità del vento di mare, sollevata dal calore di maggio fino alla sua vetta, e di generare materna fertilità poco prima che l'arido giugno portasse a maturazione il frumento, il farro e il foraggio nelle sue valli. E allora gli inni propiziatori alla Grande Madre tacevano e mutavano ancora nel canto di ringraziamento quando il fuoco dei falò di mezza estate bruciava i rovi della ripulitura dei pascoli e accendeva sulle vette allineamenti di luoghi che si congiungevano, e si confondevano, con le stelle del cielo.



Giovedì. 3 maggio 2012


Ho impostato il punto di vista di Stellarium sulle coordinate del Monte Amaro nel 2500 AC, circa due secoli prima dell'impero di Sargon. Questo è il risultato: "a metà del terzo millennio a.C il tramonto eliaco delle Pleiadi, avveniva perfettamente ad Ovest e segnava l'inizio della primavera. La loro levata eliaca era ai primi di maggio, esattamente ad Est. Maja, la più luminosa delle Pleiadi, vista dal monte Amaro sulla Majella, sorgeva allora sul lontano orizzonte adriatico verso le 5 del mattino ed era visibile per poco prima di scomparire nel chiarore dell'alba. L'abbondanza delle piogge di maggio, a partire dalla levata eliaca di Maja, che in quei giorni accompagnava il carro del sole nella sua corsa, era sicuro preannuncio di un raccolto abbondante."



sabato 24 marzo 2012

I fascismi d'ogni tempo



Ogni tempo ha il suo fascismo. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola. (Primo Levi)

Stati d'animo



... a quelli che confondono la propria tristezza esistenziale con la "realtà" o la "verità", e - poveracci - non hanno neppure la dignità del "pover'huom che, non se n'era accorto ma, andava combattendo, ed era morto".

La democrazia spiegata al bar



Oggi qualcuno mi ha detto che "questa è la democrazia".... Ma dal momento che mi sono rotto le palle di fare il modesto e di provare a far quadrare il cerchio cercando di abbassarmi al livello di questi scarti biologici e, contemporaneamente, di esporre un concetto complesso riducendolo ad uso e consumo degli idioti; stasera torno ai miei livelli e concedo una lezione di civiltà: esistono 3 forme ideali di governo. 1) la MONARCHIA. Ma non quella moderna del re o delle regine di quadri picche fiori e cuori che non ha nessun senso; ma il concetto originario, ellenico, che è questo Monos-Arché, cioè il governo di uno solo, di una persona illuminata, che ha una consapevolezza superiore su cosa e come deve essere l'organizzazione della Poleis. 2) ARISTOCRAZIA. Semplicemente, il potere in mano ai MIGLIORI. 3) DEMOCRAZIA. Concetto difficile da tradurre; diciamo che si tratta del Popolo, il Demos, che ha una chiara e radicata concezione del proprio bene; sa come esercitarlo e con quali mezzi applicarlo. Queste 3 entità hanno il loro rovescio: 1) TIRANNìA. La monarchia che perde l'illuminazione e diventa puro delirio di onnipotenza, e totale perdita del senso del proprio ruolo. Il tiranno, in genere, è il primo schiavo del suo anti-sistema. 2) OLIGARCHIA. Il potere esercitato, anzi, "mantenuto", da pochi, col solo scopo autoreferenziale di continuare a tenerselo senza alcun vantaggio per una comunità che neppure considerano più. 3) OIKOCRAZIA. Semplicemente una contraddizione in termini; il "potere della casa", del o "nel" focolare domestico; la visione del proprio orticello striminzito come visione del mondo. Il "potere" impotente degli scarti biologici di cui sopra. Nessuna di queste 3x3 forme viaggia mai da sola; non solo perché l'una è l'opposto e il rovescio dell'altra - MONARCHIA>TIRANNìA _ ARISTOCRAZIA>OLIGARCHIA _ DEMOCRAZIA>OIKOCRAZIA - ma perché ognuna, nelle forme positive o negative, regge l'altra; ecco 2 perfetti esempi di entrambe le polarità: ultimi decenni del XVIII secolo; continente americano; un Popolo - i coloni americani - SA perfettamente qual'è il la strada da percorrere per raggiungere il miglior sistema di vita per se stesso, questo Popolo è una DEMOCRAZIA perfetta; perché è consapevole; non riconosce autorità al di sopra di se stessa, e ha piena consapevolezza del modo da attuare per raggiungere la propria piena soddisfazione collettiva. E' mentalmente perfettamente organizzata e senza dubbi. Compie i suoi passi e fa emergere, dal suo stesso seno, una ARISTOCRAZIA capace di guidare la propria libera autorità: gli Washington, i Jefferson... questa DEMOCRAZIA, che ha espresso prima un'ARISTOCRAZIA che altro non è che il MEGLIO di se stessa, esprime infine una MONARCHIA: quella di George Washington. Il resto è storia... Ora l'esempio opposto. L'italietta di oggi: una squallida e fetida OIKOCRAZIA - squallida e fetida per definizione - miserabile e cenciosa, esprime una OLIGARCHIA, che non governa ma depreda gli oikocrati in un modo che farebbe inorridire sciacalli e iene della savana. Questa feccia esprime un TIRANNO che la asseconda ma al quale deve ossequio e braghe calate. Questa è l'Italia di oggi. In ogni suo ganglio più remoto; dal centro alla periferia. Gli oikocrati non sono "disperati", no; questa sarebbe già una promozione: sono solo cani latranti e lagnanti, che si accontentano dell'osso spolpato che l'oligarca locale ogni tanto gli butta per terra; e poi va anche in giro a dire che..... "questa è democrazia............"



                           forma... armonia... spazio... leggerezza...

La cabeza verde



La Cabeza verde de Berlín, esta elaborada en pizarra y está considerada una de las obras mas importantes del arte egipcio, se ha datado en el año 350 a. C. aproximadamente (Periodo tardío), concretamente durante la Dinastía XXX que transcurrió de 378 a 341 a. C., dinastía originaria de Sebennitos, que comenzó expulsando a los persas de Egipto y conquistando Judea, aprovechando la decadencia del Imperio persa. La cabeza representa a un hombre de mediana edad con gran realismo, a diferencia de otras obras egipcias, que según algunos expertos podría corresponder a un sacerdote. La cabeza verde de Berlín está ubicada en el Neues Museum de Berlín, (Alemania).


Prometeo







Il tormento di Julius Robert Oppenheimer è quello di Prometeo che, condannato in eterno a farsi divorare il fegato, non può fare a meno di regalare il fuoco all'Uomo. Il tormento è accettato, e possiamo solo ipotizzare che lo sia unicamente per continuare a ripetere la più grande emozione della sua immortale esistenza: rubare il fuoco agli dèi immortali e regalarlo impunemente agli uomini. Ma Oppenheimer non era Prometeo: solo una delle sue innumeri incarnazioni. Il tormento di Oppenheimer è quello dell'Uomo; che accetta il fuoco, e non sa che farsene...

Il medioevo prossimo venturo




Il Medioevo Prossimo Venturo

La realtà socio-economica del medioevo si può riassumere così: una massa di mendicanti, petitori e postulanti andavano a pregare il signore del loco per avere un po' di denaro, di impiego, di favori miserrimi al fine di sopravvivere.
E' questa la realtà che ci aspetta.
Tutto questo è già iniziato. In Sardegna, per esempio, i folli rincari nelle tariffe dei traghetti hanno lo scopo di affossare l'economia turistica dell'isola; che dunque sarà colonizzata da altri sistemi, come industrie di vario tipo; chimiche, petrolifere ecc. che offrono stipendi da fame, che impediscono l'iniziativa privata, che soffocano qualunque forma di benessere collettivo. Infine arriveranno le centrali, perché alla fine non ci sarà più nessuna opinione pubblica a protestare. Il territorio verrà devastato e gli abitanti pure.
Questo non è catastrofismo "pre-medioevale": questa è mera osservazione della realtà in atto.

martedì 20 marzo 2012

El Fabuloso Occidente




Procesos de transmisión cultural

Aryballos; originariamente, la palabra, designaba una vasija para sacar agua; pero en origen sus dimensiones eran mayores; una común vasija utilizada para contener agua, en su forma más arcaica, con el tiempo, se ha evolucionado hasta a diferenciarse en la forma, como por ejemplo en el Oinochoe, que se utilizaba para echar el vino; o en la forma y en las dimensiones, como el Aryballos.
En su forma definitiva, el Aryballos era utilizado principalmente por los atletas como contenedor de aceite con el cual se untaban y se lavaban. Y era transportado colgado en la espalda con un cordón.






Esta forma cerámica es prevalentemente corintia, y parece empezar en el siglo VIII a.C. Los talleres artesanales de Corinto son los mayores productores de este objeto, y de hecho, cuando se habla de Aryballoi, se habla sobre todo de Corinto.
Hasta al punto que las variaciones decorativas de los Aryballoi corintios han estado utilizadas, por los arqueólogos, para datar las diferentes y varias fases cronológicas del protocorintio y del corintio en cerámica.
El Aryballos que tenemos aquí (1) pertenece a unas de las fases cronológicas más tardías, si no la más tardía; ósea la que convencionalmente se llaman Corintio Tardío I, entre 575 y 550 a.C. o ya en el Corintio Tardío II, dicho también Convencional, después 550 a.C.
Las fases cronológicas y artísticas del arte corintio van desde el siglo VIII, por donde se hace empezar el estilo Proto-Corintio, que acaba entre el 640 y el 625; y, como he dicho, hasta la mitad del siglo VI, cuando se acaba la producción cerámica de la ciudad del istmo.
Entre el 640 y 625 a.C. empieza el estilo más bien dicho Corintio. Este periodo es llamado, en efecto, periodo de Transición. Esta diferenciación en macro-periodos, entre los cuales se encuentran todas las sub-periodizaciones, encuentra su razón de ser en el momento de máxima expansión comercial de la ciudad; y precisamente esa cumbre marca la involución artística de sus productos cerámicos. Hasta que la cerámica corintia fue un producto que podemos definir “local”, su calidad artística se mantenía alta; pero, en el momento de máxima demanda de ese arte así refinada, para hacer frente a un gran número de esas, su producción se vuelve de forma que podemos llamar “industrial”; y su calidad baja.
Al mismo tiempo se modifican algunos elementos básicos de la decoración: empieza el uso de la policromía, al negro se añade el rojo (más raramente el amarillo y el blanco), y las figuras dibujadas llevan una mayor corporeidad, probablemente debida por el influjo de escultura monumental que caracteriza el siglo VI en el arte griego (periodo arcaico).

A la mitad del siglo VI a.C. la producción corintia va acabándose, con el final de la fuerza comercial de la ciudad, y con el fin de la dinastía de los Baquiades, y viene substituida por la producción Ática.

Los productos corintios viajan, a partir de la segunda mitad del siglo VII, por todo el Mediterráneo, y no tardan en ser imitados. Una de las imitaciones más interesantes del estilo decorativo corintio la encontramos en Etruria. Y también nuestra pieza es pasible de ser interpretada como Etrusco-Corintia.
La vía por donde han viajado esta y otras piezas corintias, o etrusco-corintias, parece el así llamado “camino de las islas”, ósea, por medio de los Fenicios, o directamente por los Griegos, los productos griegos y orientales viajaban por el mar a través de las islas del Mediterráneo occidental y han llegado hasta al Sur de la península.

El sitio donde esta pieza se ha encontrado es Villaricos, Cuevas de Almanzora, en un periodo entre el 1889 y los primeros años del ‘900. Y son parte de los hallazgos de la primera, y ya legendaria, investigación arqueológica efectuada en esta parte de España; hablo de la aventura arqueológica y humana de Luis Siret.
Esta pieza, junta a otras 1170, hace parte de la colección de Juan Cuadrado Ruiz, otra figura legendaria, con la de Luis Siret, de la arqueología andaluza y almeriense.

Villaricos, la antigua Baria, ha estado considerada, hasta hace poco tiempo, una fundación púnica, es decir cartaginés, pero en las investigaciones realizadas en el 1987, 1992 y 1997, fue observado que en el asentamiento así como en la necrópolis, los hallazgos alcanzan hasta a las últimas décadas del siglo VII a.C. entonces en una época todavía fenicia. Y antes del monopolio comercial cartaginés del Mediterráneo occidental.
Baria seguirá su vida en las épocas griega, romana, visigoda y hasta a la época árabe.

Volvemos a nuestro Aryballos; hasta a ahora hemos viajado alrededor de el, a partir de ahora querría indagar mirando lo que la pieza lleva en sí misma.
Estilo y decoración dicen, sin sombra de duda, que el Aryballos es de fábrica o, a lo mejor, de cultura corintia.
Tipo de pieza – el Aryballos – decoración y difusión principian por esta ciudad.
Corinto fue uno de los máximos centros recolectores y, al mismo tiempo, creadores y difusores de cultura artística y artesanal de la historia del Mediterráneo.
A Corinto llegaban mercaderes orientales, principalmente fenicios, que llevaban elementos y sugestiones del vecino Oriente.
Uno de estos elementos es el león, que podemos ver dibujado en dos colores en el cuerpo de la vasija. Este león es ya demasiado estilizado, ya lleva con sí toda la involución artístico-artesanal de la producción “industrial” de el arte corintio del siglo VI; es un león que no da miedo. Pero, en su origen, esta representación llevaba sentidos muy fuertes: el león, en el. arte Asiro, de donde llega y principia, es el símbolo de la muerte exicial, (19) de la muerte violenta.






Era un símbolo de fuerza y poder natural, incontrolado.
No solo, al mismo tiempo es el símbolo de la fuerza de quien lo cazaba (20).
Es evidente, en estas imágenes, (21, 22, 23 ecc) como lo trágico llevado por estas representaciones haya podido sugestionar culturas lejanas y todavía no desarrolladas y potentes como la civilización Asira, y en general las civilizaciones mesopotámicas.







Desde estas tierras llegaban hasta Occidente conceptos cargados de prestigio; palabras que se han fijado en el tiempo en significados cambiados en el sentido originario. El mismo concepto de Europa, se vuelve desde verbo a topónimo. Desde el Akadio Ērebos, ósea, bajar, descender, entrar en la oscuridad; dicho, por ejemplo, del sol, que en esa parte del mundo que los mesopotámicos miraban con el Norte a la derecha, bajaba hasta entrar en la oscuridad. El proceso del atardecer, de la puesta del sol.






Los Griegos han cogido esta sugestión y la han hecha propia, como muchas otras cosas procedentes de Oriente. Y un verbo se transforma en sustantivo y designa una figura legendaria: Εύρώπά (Europa), hija de Agenor, rey de Sidon o de Tiro, raptada por Zeus en forma de toro, y llevada hacia el mar hasta Creta, ósea hacia Occidente.

El mar.






Esta ha sido una de las vías de transmisión de la cultura oriental hacia Occidente. Y por esa vía ha llegado otro concepto concerniente a la oscuridad, y la oscuridad llevada por la puesta del sol, pero en este caso se trata de un sustantivo: Āttālû. Siempre Akadio; es “el lugar, el sitio, la tierra donde el sol se esconde, baja, desciende” En siriaco Āītāĭă, con el mismo significado; este concepto llega a Occidente llevado por viajeros orientales, mercaderes, y acaba por fijarse en topónimo: la región más occidental de la Grecia se llama Etolia. Y la parte meridional de la península italiana, de hecho, Italia. Los Griegos, sin embargo, fuertes de un sentido cultural muy inculcado, trasformaban conceptos alógenos en forma helénica: y por ellos, la tierra que más tarde se iba a llamar Magna Grecia, era Hespérides. La “tierra de la tarde”; la “tierra de la puesta del sol”. Y, por aquí, el concepto se fija simplemente en “tarde”. El español “víspera”, y el italiano “vespro”, con el mismo significado [… entre los antiguos romanos, día que correspondía al crepúsculo… Según el diccionario de la lengua española], llevan una eco de la sugestión griega de Hespérides.










Por esta misma vía, el viaje hacia Occidente, la tierra de la tarde, la tierra de la puesta del sol, y tiene sentido, ahora, exprimir este concepto en un idioma que se ha quedado muy arcaico hasta hoy, el Alemán: Abend land, con el significado de Occidente; su traducción literal es propio “Tierra de la tarde”; … por esta misma vía viajeros y mercaderes fenicios y griegos, han llevado, juntos a sus productos comerciales, no siempre de alto nivel, también algo que no se podía vender, y que, sin embargo, llevaba la ilusión de Oriente, hasta la ultima tierra que se podía encontrar viajando desde el Este al Oeste, en el Mediterráneo. Este viaje, hasta al extremo límite del crepúsculo, se definía con el verbo Šāpănnû: con el significado de “ir a el otro lado, a la parte opuesta”, en este caso, “del mar”. La “parte opuesta”, el “otro lado”, en el mismo idioma oriental, mesopotámico, es Šĭplīš; sustantivo.
Šāpănnû y sus derivados lingüísticos, tendría que ser un concepto muy frecuente en la dialéctica mercadotécnica y viajera en general. Y se unía al objetivo de los viajes por mar: la tierra. Y “tierra”, en lenguas orientales, o semíticas, se exprime con la sola silaba Ī, o , tierra, isla. Hī- Šĭplīš, o Hī- Šāpănnû, es entonces: La tierra que está al otro lado, a la parte opuesta. Y también, Ir a la tierra que está a la parte opuesta.
El concepto añadido referido al mar es consecuente al viaje, por mar, hecho por estos antiguos mercaderes.
Los griegos, han transformado en el sonido este concepto: Σπάνιά, Spanía; Hī- Spanía.







Otra vía ha llevado imaginarios orientales hasta el Occidente; la tierra.

Alrededor de las civilizaciones mesopotámicas, habia algunos otros pueblos que compartían, sea por transmisión directa, sea por asimilación, la misma cultura.
Algunos de estos eran pueblos nómades, como los Escitas.
Vivían al Este de Mesopotamia, y en el 612 a.C. determinaron la caída del imperio Asiro juntos a los Medios. Antes – y también después de esta fecha – los Escitas, aunque nómades, llevaban consigo todo el aparato cultural y político-estructural de las civilizaciones mesopotámicas. Pero a nivel muy superficial.
La actividad primaria de este pueblo era el saqueo. Y por eso eran temidos por todos los otros pueblos orientales.
Eran conocidos en todo el Medio Oriente, al Este y al Oeste de la Mesopotamia propiamente dicha. Y han viajado hasta Europa centro-septentrional y oriental, donde han llevado, entre otras muchas cosas, un concepto que se quedó en los siglos venideros: Kānĭkkû. El Kānĭkkû era el sello que el soberano Mesopotámico, Suméro-Akadio, Babilones o Asiro, ponía en el rollo de la ley; ley que el mismo había escrito. Solo el soberano podía poner el sello, porque solo el podía considerar concluida la ley, escrita por el mismo. Este gesto, era entonces más que un simple acto burocrático, sino un acto sacro, y que era acompañado por una ceremonia.
Este acontecimiento, así lleno de prestigio, fue llevado por los Escitas en Europa centro-septentrional, donde se cristalizó – por un proceso de demudación cultural de que hemos dicho – y significa simplemente el soberano, llegando a través de varios pasajes, al alemán König; Rey, y más tarde, el inglés King.
Los Escitas viajaron también a Rusia, o una parte de ellos por lo menos, donde el mismo concepto a la vez de subir a las alturas de un sentido así “real”, se quedó, con mucha más modestia, en significar el rollo de papel donde la ley fue escrita; Kniga, en ruso moderno, significa: libro.

Este pueblo era conocido, por los otros pueblos que sufrían sus saqueos, más que con su nombre, con un adjetivo; “terribles”, o “los terribles”. En lengua akadia “terrible” es Kaltû. Los Griegos, que también los han conocidos, hablaban de Σκύθο-Κελτοί; Skytho-Kéltoi. Célticos.

Celta, o céltico, es entonces un adjetivo que se transformo en sustantivo, en este caso etnónimo. Nombre de pueblo. Los Escitas-Célticos han influenciado pueblos culturalmente inferiores, o no preparados al impacto con un grupo así fuerte bajo el punto de vista bélico y cultural al mismo tiempo. Y los han influenciados con el legado cultural que ellos conocían y habían experimentado; el de las civilizaciones mesopotámicas.

Esta influencia, de una forma o de la otra, llega al último borde de Occidente conocido. Hablamos, hoy, de Celtiberios. Y en esta palabra, compuesta por dos conceptos, se resume el sentido del viaje milenario desde Oriente hacia Occidente; desde la “tierra de la luz” Āsī, o Āsû, ósea “Surgir a la luz”, “subir de las sombras”, “de la oscuridad a la luz”; el opuesto de Ērebos; Oriente y Occidente en fin. Asia y Europa.
Este pueblo, o estos pueblos, que llegaron a la conclusión de este recorrido, han tenido que bajar, descender y además superar una cadena montañosa, hasta a una tierra meridional comparada con las por donde llegaban; y así la han llamada: “Tierra baja”, “tierra meridional”, en idiomas mesopotámicos el verbo es Ēbērrû , Ābārrû , bajar, descender; concepto que se ha demudado en topónimo: Iberia. Y que ha acabado por cubrir toda la península.
Hispania y Iberia parece entonces que no se hayan hecho guerra, porque los dos se han quedado hasta hoy, aunque significan conceptos diferentes; político uno; España, y geográfico el otro; Iberia. Llevando con sus mismos el reflejo de dos diferentes viajes; por mar el primero y por tierra el segundo.

El último viaje hacia la última tierra occidental, en fin, no podía que partir desde aquí. Y ha sido el último viaje de descubrimiento y de transmisión cultural hacia al Occidente.