sabato 28 luglio 2012

El tiempo de los asesinos



El 12 de octubre (1936), aniversario del descubrimiento de América, “Día de la raza”, tuvo lugar un acto ceremonial en el Paraninfo de la Universidad de Salamanca. La audiencia estaba integrada por notables del Movimiento, incluido un fuerte contingente de la falange local. En el estrado tomaron asiento Carmen Polo, esposa de Franco, Pla y Deniel, obispo de Salamanca, el General Millán Astray, fundador del Tercio de Extranjeros (que llegó acompañado de sus legionarios), y Miguel de Unamuno, rector de la Universidad. Unamuno, irritado contra los gobernantes de la República, había apoyado al principio el “alzamiento” que debía “salvar la civilización occidental, la civilización cristiana que se ve amenazada”, pero no podía pasar por alto la matanza que se había llevado a cabo el la ciudad bajo los órdenes del comandante Doval, aquel que se había hecho famoso como represor en Asturias, ni los asesinatos de sus amigos Casto Prieto, alcalde de Salamanca, Salvador Vila, catedrático de árabe y hebreo de la Universidad de Granada, o García Lorca.



Los discursos iniciales corrieron a cargo de Vicente Beltrán de Heredia y de José María Permán. Acto seguido el profesor Francisco Maldonado lanzó una tremenda diatriba contra los nacionalismos catalán y vasco, “canceres de la nación” que había de curar el implacable bisturí de fascismo. Al fondo de la sala alguien lanzó el grito legionario “¡Viva la muerte!” y el general Millán Astray, que parecía el auténtico espectro de la guerra, manco, tuerto y cubierto de cicatrices, dio los “¡vivas!” de rigor, mientras los falangistas saludaban a la romana hacia el retrato de Franco, que colgaba sobre el sitial de su esposa. El alboroto se desvaneció cuando Unamuno tomó la palabra: 


  Estáis esperando mis palabras. Me conocéis bien y sabéis que soy incapaz de permanecer en silencio. A veces, quedarse callado equivale a mentir. Porque el silencio puede ser interpretado como aquiescencia. Quiero hacer algunos comentarios al discurso, por llamarlo de algún modo, del profesor Maldonado. Dejaré de lado la ofensa personal que supone su repentina explosión contra vascos y catalanes. Yo mismo, como sabéis, nací en Bilbao. El obispo, lo quiera o no lo quiera, es catalán nacido en Barcelona.


Pla y Deniel se removió a disgusto por la alusión de Unamuno a su lugar de origen, que era casi en sí mismo una implicación de deslealtad a la cruzada nacional. Entre el silencio general, Unamuno prosiguió:


  Pero ahora acabo de oír el necrófilo e insensato grito: “¡Viva la muerte!”, Y yo, que he pasado mi vida componiendo paradojas que excitaban la ira de algunos que no las comprendían, he de deciros, como experto en la materia, que esta ridícula paradoja me parece repelente. El general Millán Astray es un inválido. No es preciso que digamos esto con un tono más bajo. Es un inválido de guerra. También lo fue Cervantes. Pero, desgraciadamente, en España hay actualmente demasiados mutilados. Y, si Dios no nos ayuda, pronto habrá muchisímos más. Me atormenta pensar que el general Millán Astray pudiera dictar las normas de la psicología de masa. Un mutilado que carezca de la grandeza espiritual de Cervantes, es de esperar que encuentre un terrible alivio viendo como se multiplican los mutilados a su alrededor.



Legado Unamuno a este punto, Millán Astray ya no pudo contener su ira por más tiempo. “¡Muera la inteligencia! ¡Viva la muerte!”, gritó a pleno pulmón. Falangistas y militares echaron mano a sus pistolas y hasta el escolta del general apuntó su subfusil a la cabeza de Unamuno, lo que no impidió que éste terminara su intervención en tono desafiante: 


  Este es el templo de la inteligencia. Y yo soy su sumo sacerdote. Estáis profanando su sagrado recinto. Venceréis, porque tenéis sobrada fuerza bruta. Pero no convenceréis. Para convencer hay que persuadir. Y para persuadir necesitaríais algo que os falta: razón y derecho en la lucha. Me parece inútil el pediros que penséis en España.




Hizo una pausa y dejando caer, sin fuerza, los brazos, concluyó en tono resignado: “He dicho”. Se dice que la presencia de Carmen Polo le libró de ser asesinado allí mismo, y que cuando Franco se enteró de lo que había occurrido lamentó que no hubiese sido así. Seguramente los nacionales no asesinaron a Unamuno por la fama internacional del filósofo y por la reacción que había causado ya en el exterior el asesinato de García Lorca. Pero Unamuno, destituido como rector y confinado en su domicilio, murió el día de fin de año consternado y tachado de “rojo” y traidor – aunque su funeral fuera manipulado por los falangistas – por aquellos a quienes él había creído amigos. 

 











Il tempo degli assassini




Il 12 ottobre (1936), anniversario della scoperta dell'America, "Giorno della razza", si tenne una cerimonia nell'Auditorium dell'Università di Salamanca. Il pubblico era composto da notabili del Movimento, tra cui un forte contingente locale della falange. In platea presero posto Carmen Polo, moglie di Franco, Pla y Deniel, vescovo di Salamanca, il generale Millán Astray, che arrivò accompagnato dai suoi legionari (Millán Astray fu il fondatore della Legione straniera; la Legión, creata su imitazione della legione straniera francese), e Miguel de Unamuno, rettore dell'Università. Unamuno, irato contro i governanti della Repubblica, aveva sostenuto al principio il “sollevamento” che avrebbe dovuto "salvare la civiltà occidentale, … la civiltà cristiana che si vede minacciata", ma non poteva sorvolare sulla carneficina che ebbe luogo nella città sotto gli ordini del comandante Doval, già tristemente noto come repressore nelle Asturie; né poteva sorvolare sugli omicidii dei suoi amici Casto Prieto, sindaco di Salamanca, Salvador Vila, professore di arabo ed ebraico all'Università di Granada, o García Lorca.



I discorsi d'apertura toccarono a Vicente Beltrán de Heredia e José María Permán. In seguito, il professor Francisco Maldonado lanciò una tremenda tirata contro i nazionalismi catalano e basco, “tumori della nazione” che dovranno estirparsi con l'implacabile bisturi del fascismo. Dal fondo della sala qualcuno urlò il grido legionario “Viva la morte!” e il generale Millán Astray, che appariva come un autentico spettro della guerra, monco, guercio e ricoperto di cicatrici, diede il La coi “viva!” di rigore, mentre i falangisti tesero il braccio nel saluto romano verso il ritratto di Franco, che incombeva al di sopra del sedile della sua sposa. Il tumulto svanì quando Unamuno prese la parola:


  State aspettando le mie parole. Mi conoscete bene e sapete che sono incapace di stare in silenzio. A volte, stare zitti, equivale a mentire. Perché il silenzio può essere interpretato come acquiescenza. Voglio fare un commento al discorso, per definirlo in qualche modo, del professor Maldonado. Lascerò da parte l'offesa personale sottintesa nella sua velleitaria esplosione contro baschi e catalani. Io stesso, come sapete, sono nato a Bilbao. Il vescovo, che gli piaccia o no, è catalano nato a Barcellona. 

Pla y Deniel si mosse a disgusto all'allusione di Unamuno al suo luogo d'origine, che era quasi, di per sé, un'implicazione di slealtà verso la crociata nazionale. Nel silenzio generale, Unamuno proseguì:  

  Ma sento adesso il grido necrofilo ed insensato: “Viva la morte!”. Ed io, che ho passato la mia vita forgiando paradossi che suscitavano l'ira di coloro che non li capivano, debbo dirvi, da esperto autorevole, che questo ridicolo paradosso mi è repellente. Il generale Millán Astray è un menomato. Sia detto senza alcuna intonazione irriverente. È un invalido di guerra. Anche Cervantes lo era. Sfortunatamente oggi in Spagna i mutilati abbondano. E, se Dio non ci viene in aiuto, presto ce ne saranno molti di più. Mi inquieta pensare che il generale Millán Astray possa dettare le norme della psicologia di massa. Un menomato che manchi della grandezza spirituale di Cervantes, c'è da aspettarsi che trovi un orrendo sollievo vedendo come si moltiplicano gli invalidi attorno a lui.

Quando Unamuno giunse a questo punto, Millán Astray non poté più contenere la sua ira. “A morte l'intelligenza! Viva la morte!”, urlò a pieni polmoni. Falangisti e militari misero mano alle loro pistole e perfino la scorta del generale puntò la sua mitraglia alla testa di Unamuno, senza però impedirgli di terminare il suo intervento, in tono di sfida: 

  Questo è il tempio dell'intelligenza! E io sono il suo sommo sacerdote! Voi state profanando il suo sacro recinto! Vincerete, perché avete più forza bruta di quanto sarebbe necessario. Ma non convincerete. Perché per convincere bisogna persuadere. E per persuadere avreste bisogno di tutto quello che vi manca: la ragione e il diritto alla lotta. Mi sembra inutile chiedervi di pensare alla Spagna.




Fece una pausa, e lasciando cadere le braccia ormai senza più forze, concluse, in tono rassegnato: “Ho finito”. Si dice che la presenza di Carmen Polo gli abbia risparmiato di essere assassinato in quello stesso momento, e che quando Franco seppe quello che era accaduto si lamentò che non lo avessero fatto. È certo che i “nazionali” non uccisero Unamuno per la fama internazionale del filosofo e per la reazione causata all'estero dall'omicidio di García Lorca. Tuttavia, Unamuno, destituito come rettore e confinato nel suo domicilio, morì l'ultimo giorno dell'anno, costernato e tacciato da “rosso” e traditore – benché il suo funerale fu strumentalizzato dai falangisti – da coloro che aveva creduto amici.



















sabato 21 luglio 2012

I remoti orizzonti di Milano


di Franco Sarbia

Il codice generatore della città di Milano è riconducibile alle remote basi linguistiche dei nomi attribuiti al suo territorio da chi per primo ne comprese ed animò lo spirito. Ne “le Origini della cultura Europea” il filologo Giovanni Semerano svela i principali caratteri dell’incontro tra quella cultura e quell’ambiente naturale. E vi scopre la testimonianza di antichi popoli che qui giunsero, vagarono e vissero agli albori della civiltà urbana. È tanto più significativo il risultato della sua indagine perché riesce ad esplicitare, solo attraverso la ricerca filologica, le relazioni organiche dei luoghi e dei fiumi con il loro contesto senza averne potuto approfondire le caratteristiche morfologiche originarie. Questo scritto si propone di condividere una riflessione che vuole evidenziare e sviluppare le implicazioni di quelle intuizioni.

Milano emergente

Secondo Giovanni Semerano il nome latino di Milano, «Mediolanum, è riconducibile ad Accadico mešlu (in mezzo, greco μέσος, latinizzato a medius) ed elānum (sopra). Già A. Solmi sostenne che Mediolanum doveva assumersi come forma aggettivale gallica nel senso di Medianum “luogo emergente in mezzo a corsi d’acqua, fiumi, canali, paludi”. Ma fu rifiutata tale intuizione perché non (ancora) “sufficientemente sorretta da prove linguistiche”». Sulla stessa base troviamo l’accadico Mišlānū con il significato di metà o mediana. Dopo la latinizzazione in “medius” la radice mešlu riemerge nei nomi moderni di alcune delle numerose Mediolanum francesi: Meslan, Meslain, Meslin, Moislains, Moëslain, Moslins. Presso i parlanti lingue native, artiche, americane, cinesi, australiane, come presso le popolazioni semitiche, originarie delle terre mesopotamiche, ai luoghi, come alle persone, sono usualmente assegnati nomi composti e aggettivati corrispondenti al carattere e al contesto ad essi attribuiti dalla comunità dei parlanti.
Accade così, come già visto per altri diversi toponimi (Majella), che il carattere di un luogo possa essere associato ad altri nomi assonanti che ne definiscono compiutamente le caratteristiche. Sicché la connotazione delle terre di mezzo (Mešlu, Mišlānū) può essere completata, insieme o singolarmente, con l’occorrenza di un rilievo, Mēlû, protetto dalle alluvioni, in prossimità di corsi d’acqua o sorgenti, Ēnu, o di aree di esondazione, Mīlu, fecondate dal limo. Così appare, dalla lettura del suo accoppiamento strutturale con il territorio, la Milano originaria, situata su una motta alluvionale, nel mezzo di una fascia di risorgive, tra Olona e Lambro a scala locale, tra Ticino e Adda a scala regionale, e all’incrocio di grandi vie di comunicazione continentali.
Nell’uso delle popolazioni locali sembra essere prevalsa, con Milan, la forma verbale incrociata con Mēlû (o Mīlu) ed ēnu (ain). Ritroviamo queste radici, talvolta con la consonante raddoppiata del celtico “Mello”, collina, di diretta derivazione accadica, sia in siti come Mellani e Mellana o Mele, sia nella regressione dall’indifferenziato toponimo, sovrapposto dalla latinizzazione a nomi similmente assonanti per altre Mediolanum, cosiddette gallo-celtiche, quali: Melay, Melin, Melian, Malain, Malaincourt, Millan.
Per proseguire il racconto delle speciali relazioni della Milano emergente con il territorio bisogna tornare alla riflessione di Giovanni Semerano sui due fiumi più vicini tra i quali è situata: Olona e Lambro.
«Olona: ālu-ēnu (come Olio) Accadico agû - eliu (acqua alta) incrociato con ālu che condivide la radice di Alemanni: (insediamento, paese, villaggio, stanziamento elevato, city; estate, manor); al plurale ālū, ālānu ālāni lo ritroviamo in Mediolanum come ēnu (ain, fiume o fonte) nel senso di fiume del paese, acqua del territorio». L’Olona scorre sul piano terrazzato, dei depositi glaciali di Wurm, che degrada dai laghi alpini fino al risorgere delle acque della falda superficiale attorno a Milano. Il “pellegrino d’oriente” proveniente dalla Milano dei monti Martani, lungo la “retta via” del Decumano massimo, che allinea la Sila alle Cassiteridi attraverso il guado di Piacenza sul Po, la può risalire sicuro fino al bosco delle Groane. Riecheggia in quel nome un gorgoglìo d’acque serpeggianti: similmente a Garonne, da Accadico garāru (correre, serpeggiare, errare) incrociato con gerru (strada) e hurranu (sentiero nella foresta). E quel sentiero a Nord Ovest accompagnerà il nomade quasi in cielo: fino agli orizzonti Europei dischiusi dal Sempione.
«Lambro, Accadico Luhmû (pantano) e Ambar (palude). La radice Ambar è comune a Lambrus ed ai fiumi che danno luogo a larghe stagnazioni come, Ambra, Ombrone, Sam-bra, con il significato di Fiume che dilaga in palude». Con un elegante intervento d’ingegneria idraulica i romani deviarono il corso dell’Olona e del Seveso nel fossato della città augustea. Resero così navigabile l’accesso al Po attraverso il tratto terminale del Lambro: convogliando le acque di deflusso nella roggia detta Vettabbia (Vectabilis); separando e adducendo i reflui della cloaca nel Lamber meridionalis, rinominato Lamber merdarius, ancor oggi destinato a concimare le residue marcite. Secondo la tecnica romana di costruzione dei canali il materiale di scavo era posto sull’argine a formare l’alzaia, ovvero una via di comunicazione carrabile sopraelevata e difesa dalle esondazioni, mentre il canale stesso drenava le acque stagnanti bonificando il terreno paludoso. 

Occhio”, testa di fontanile

Così dovette avvenire per la deviazione del Seveso nel tratto terminale d’accesso al fossato, a nord est, in corrispondenza del Cardo Massimo. Ma la funzione del Seveso, di confinamento e drenaggio delle paludi del Lambro, doveva già essere nota ai primi coloni perché zāʾibu è il nome di un fiume accadico (Zāb) che scorre su un terreno intriso d’acqua; zâbu, significa disciogliere defluire, far scorrere, mentre bêšu significa andare via, ritirare, ed ebēru vale per attraversare, andare oltre. Sicché Seveso sulle basi Zāʾibu e bêšu doveva risuonare come fiume che fa defluire (andar via, ritirare) le acque attraverso un terreno intriso d’acqua. Allora, ancorché il Cardo Massimo della Mediolanum preromana fosse esattamente orientato dal Tenda al Brennero, collocandosi a metà tra i due, il dilagare delle acque del Lambro e il difficile guado dell’Adda imponevano di risalire fino ai contrafforti delle prealpi bergamasche per raggiungere a nord est la futura Brixia.
Verso sud – ovest, invece, il terreno disseminato di fontanili doveva aprirsi in ampie radure dalle quali emergevano bassi colli generati da depositi alluvionali. In quella zona ancor oggi antiche cascine, come Montecucco o Monterobbio, assumono il nome dal rilievo sul quale furono edificate. Il nome di questo territorio identifica un odierno quartiere periferico incuneato tra i due Navigli: la “Barona”. La sua origine sembra essere un paradigma dell’assunto secondo il quale toponimi e idronimi frequentemente rappresentino, nell’incrocio delle loro radici, “un insieme di tratti distintivi concomitanti”: quasi un’applicazione estensiva delle proprietà che Ferdinand de Saussure e Roman Jakobson attribuivano ai fonemi. Barona pare costituito, infatti, sulla base dell’accadico Barû, guardare lontano, attentamente, osservare, sovrintendere, annunciare, ed ēnu che riassume il doppio significato di sorgente e di occhio. Chi ha veduto la consueta configurazione ad occhio della testa di un fontanile assottigliata, come palpebra, dalla sua coda di deflusso non troverà singolare questa omonimia. Tale considerazione indurrebbe a risolvere il senso del toponimo quale luogo emergente di osservazione e gestione di una vasta distesa pianeggiante, a pascolo o coltura, disseminata di risorgive.
Le risorgive sono una risorsa strategica della macchina naturale sulla quale è insediata Milano: come lo furono per Eridu e Mileto all’origine della stessa civiltà urbana. Presidiarle significa difendere i margini di sopravvivenza della città. Ancor oggi la Barona, a sud, è parte del fertile parco agricolo di Milano. Con una temperatura che oscilla tra i 14 gradi d’estate e gli 11 gradi d’inverno le acque che sgorgano dai fontanili, costituiscono un sistema naturale di termoregolazione per tutta la città. Impediscono di gelare ai campi allagati a marcita. Oggi esistono solo alcune marcite come testimonianze del passato ma nel medioevo erano diffuse e consentivano fino a dieci abbondanti raccolti di foraggio nell’anno solare. La desinenza femminile del nome moderno della Barona lascia intendere, tuttavia, il riemergere da un lontano passato della forma femminile duale di ēnu: īnā (gli occhi). In questo caso con il significato inequivocabile di occhi che guardano lontano. La collocazione della Barona sul prolungamento a sud ovest del Cardo Massino, a meno di tre miglia romane dal nucleo dell’insediamento originario, combina quindi sia una funzione di presidio delle risorse alimentari sia di controllo dell’accesso alla città. L’osservazione da un rilievo naturale, e da una probabile torre di segnalazione, nei giorni di aria tersa lasciava spaziare lo sguardo dal pizzo Arera all’Argentera, dal Monte Leone fino a rare apparizioni del Monte Cimone, appena rilevato sull’estremo orizzonte di sud est. Analogo significato, di punto di vista privilegiato su ampi orizzonti, dovettero generare i nomi dei due monti “Barone” del Varesino e del Biellese.
Ma la “luce di antiche stelle ormai spente” continua ad illuminare pure il senso che assumono, in quelle antiche lingue morte, i torrenti che convergono a ventaglio su Milano: quali il Pudiga, il Nirone e il Molia. Già confluivano nel fossato prima che vi fosse deviato l’Olona come via d’acqua per trasportare i massi di fondazione delle mura Augustee di documentata provenienza dalla sua valle. Vi giungevano per via d’acqua su tronchi legati a zattera, poi utilizzati come materiali da costruzione, assieme all’abbondante argilla del sito. Il torrente Nirone ha continuato a svolgere negli ultimi seicento anni la sua funzione difensiva confluendo successivamente nel fossato del castello sforzesco, a dispetto del suo nome: da Accadico Nārum, fiume, incrociato con Niqrum, abbattere le rive, devastare.
L’etimo del Pudiga sembra riconducibile alla stessa radice del nome ligure del Po, Bodincus, βόδεγχος corrispondente ad Accadico Butiqtu (inondazione, fiume) incrociato con Badāqu (rompere gli argini). Dal punto di vista delle ovvie difficoltà, per le popolazioni neolitiche, a dissodare le terre aride e a costruire canali con aratri di legno, osso o pietra, non si deve immaginare l’azione di rompere gli argini come sinonimo d’infausto e incontrollato devastare. Era piuttosto una pratica consolidata d’intervento sugli argini «dove scorrono torrenti a portare per concime il limo» (Virgilio, 31 e 29 a.c. Georgiche). Quelle popolazioni educate da sei millenni di diluvio nelle loro terre d’origine, sapevano volgere a proprio favore la furia distruttiva della natura. Rinforzavano gli argini dove necessario riportandovi con ceste il materiale umido e sabbioso in eccesso, asportato con fatica - secondo il destino che gli Dei avevano assegnato agli uomini - ma senza difficoltà dai tratti in prossimità di radure di facile accesso e coltivazione: rompendo gli argini dove serviva “regolare” ed indirizzare l’esondazione, in modo che il limo vi dilagasse per rinnovare la fertilità dei campi. Similmente a Μολόεις, fiumiciattolo presso Platea, il Molia deve il suo toponimo all’Accadico malā’um (essere pieno) da mēlu, mīlu (piena), da intendere anche in questo caso come opportunità più che come minaccia. Nessun’altra cultura poteva disporre, tra sei e quattromila anni da oggi, delle basi di conoscenza necessarie ad interpretare con una tale varietà di idronimi e di toponimi, e in modo così sistematico, la natura di quel territorio ricco di acque.
Le caratteristiche fertilizzatrici delle acque di superficie e le straordinarie proprietà della falda superficiale risorgente, in corrispondenza di un nodo di comunicazione continentale, furono la ragion d’essere della Milano emergente. La sua collocazione strategica su una Ziggurat naturale, generata dal caos e attorniata da terre naturalmente fertilizzate dall’acqua, doveva apparire ai coloni simile a quella dei villaggi della cultura di Obeid nelle vaste pianure degradanti dalle montagne dell’Anatolia, prima che una progressiva siccità, dal sesto al quarto millennio aC, inducesse a concentrare le terre agricole in prossimità dei corsi dell’Eufrate e del Tigri, dove ormai solo grandi collettività umane asserragliate nelle prime città potevano compiere gli imponenti lavori idraulici necessari ad irrigarle, costrette a difendere stabilmente il frutto del loro lavoro per sopravvivere.
Là per la prima volta nel ciclo di vita dell’umanità un solo chilometro quadrato di terra inondata dal limo aveva potuto nutrire 4000 persone. Un solo uomo lavorando la sua terra per pochi mesi era riuscito a mantenere agiatamente una famiglia di otto persone. Ma dal quarto millennio prima di Cristo, con la siccità, i figli innumerevoli di quella civiltà dovevano cercare lontano le terre fertili per le loro future famiglie.
Dapprima furono i pascoli, fino ad allora in simbiosi con l’agricoltura, a divenire incompatibili con il ridursi della terra fertile. E ad alimentare un nuovo nomadismo fu la necessità di abbandonare l’avara steppa desertica, arsa dal sole e dalla pratica del debbio, e muoversi verso l’ignoto, a Nord e a Occidente, alla ricerca di nuove praterie verdi. Capre e asini costituivano una riserva logistica per chi doveva spingersi, in avanscoperta sempre più lontano, alla ricerca di risorse minerarie affioranti e non presidiate: di vitale importanza per i primi insediamenti urbani, nati dal fango e perciò totalmente privi dei materiali duri necessari per costruire utensili e armi appropriate. E il nomadismo a scala continentale, veicolo di comunicazione e di congiunzione tra diverse culture, avviò il processo di fondazione della koiné linguistica della cultura europea. L’arricchimento culturale e tecnologico, nato dall’incontro delle differenze, assieme al rapido accrescimento delle popolazioni su territori sconfinati, rendevano i reami nomadi capaci di assumere ciclicamente il predominio anche sulle nascenti città stato. Così avvenne per le popolazioni accadiche prima e poi, tra altri, per gli Achei, agli albori della nostra civiltà.
Sulle alte vie d’Europa li guidavano gli astri e i monti. Costellavano il loro percorso di steli dove il piede astrale delle stelle più luminose che indicavano le vie del cielo segnava i sacri crocevia dei percorsi terrestri. 

Mešlu 

Anno 4041 aC., 21 Giugno, ore 01:01:12: il prolungamento della linea che congiunge le due stelle più luminose del cielo estivo, Vega e Arturo, si trova allo zenit di Milano e indica la retta via delle terre di mezzo. Giunta sulla Sila da Crotone una comunità nomade guidata da una sciamana ne seguirà il percorso per una intera stagione. Scenderà ad Aieta e Sapri, poi incontrerà in perfetto allineamento con le più alte vette della dorsale appenninica: Moiano di Benevento, Marruvium e Magliano de’ Marsi, Milano (Mediolana) di Spoleto, Pieve a Maiano di Arezzo, le cave di Maiano di Fiesole, Migliana PO, Miano e Medesano di Parma, Melegnano, Milano lombarda, Murten delle Berner Mitteland, Mesandans, Melin, Melay, Moslins, Amiens Caesar (una delle Mediolanum francesi) in prossimità di Moislains, Mayfields nel regno unito, Midland terrace, Millan, Maidenhead, Middletown presso Oxford, sfiorerà Stradford Upon Avon, poi ancora una Middletown, Menai Bridge, Middletown di Armagh in Irlanda e infine Middleton Co. Donegal e Middletown, presso il Kilclooney dolmen all’estrema propaggine di nord Ovest delle Cassiteridi, in vista dell’oceano. Con la precessione degli equinozi lo zenit di Vega scenderà verso Murten e a metà del quarto millennio si troverà sopra Milano, trasformandola in crocevia celeste. È curioso notare che il logogramma cuneiforme di Mešlu è costituito da una semplice croce, come l’attuale cristiana bandiera di Milano.
Oggi Milano è il piede astrale di Deneb. Invocando i poteri magici di Medea, possiamo ancora immaginare che in una notte di mezza estate la costellazione dei falò delle montagne incatenerà Homan sulle ali di Pegaso, Deneb allo zenit, e Alkaid, ai confini dell'aurora e del tramonto. Solo in quell'attimo la poesia indicherà la retta via del cielo per Stratford. E Prospero, duca di Milano nella Tempesta di Shakespeare, potrà nuovamente ammonire: «Con la mia preveggenza trovo il mio zenit dipendere da una stella, la più propizia. Se la sua influenza non colgo ora, ma tralascio, le mie fortune declineranno per sempre».
Valdengo 20 luglio 2012