Premessa
Nonostante
l'impossibilità a visionare i dati degli scavi di questo singolare
tipo di monumento (laddove esistano1),
appare utile, se non necessario, tentare un'analisi che provi a
conferire un quadro, culturale e cronologico, razionale e chiaro, nel
quale inserire questa particolare struttura architettonica.
La
singolarità dei templi a megaron
è tanto più evidente in quanto la loro architettura, la loro forma
strutturale2,
si stacca notevolmente da quella nel cui quadro cronologico e
culturale sono inseriti: quello nuragico3.
Questo elemento formale emerge con tanta forza se si considera un
altro aspetto particolarmente notevole: l'importanza di questo
edificio nel panorama insediativo e culturale – e verosimilmente
cultuale e religioso – della cultura che lo espresse. I templi a
megaron
sembrano stare al vertice delle espressioni culturali della società
nuragica alle soglie del I millennio e oltre, ma appaiono non
preceduti, sembra, da un'evoluzione formale che si concluda, lungo un
determinato periodo di tempo, con la forma architettonica
dell'edificio oggetto di questo studio4.
Ogni verosimiglianza suggerisce la comparsa “improvvisa” di
questi edifici, in un dato periodo della storia della civiltà dei
nuraghi; e questa evidenza resta valida anche considerando alcune,
del tutto verosimili, fasi evolutive interne della forma
architettonica, nella cronologia complessiva di questi monumenti.
Parallelamente a questo aspetto di “primo piano” dei templi,
nella collocazione in seno al panorama socio-insediativo che li vide
sorgere, emerge, per contrasto, il loro scarso numero. Ad oggi se ne
contano 14 indagati5.
Se da un lato è lecito pensare alla scomparsa, nel corso del tempo e
per varie ragioni, di molti di questi edifici, d'altro lato è
altrettanto congruente considerare che il loro numero, cioè, o
quello dei templi scomparsi o quello di quelli rimasti, sia
proporzionato al totale originario, e che pertanto questo non dovesse
essere comunque particolarmente elevato. Se consideriamo la pressoché
netta percentuale dei nuraghi scomparsi rispetto a quelli rimasti
(considerando positivamente l'ipotesi dei circa 10.000 nuraghi
originari6),
un approssimativo 30%, potremmo forse avanzare considerazioni su
percentuali analoghe per i templi scomparsi; ma anche considerando
percentuali più alte (tra il 50 e il 70/80%), il loro numero
originario doveva essere pur sempre notevolmente più basso di quei
monumenti che hanno marcato per secoli l'identità culturale della
Sardegna. Probabilmente non è da escludersi, nella considerazione di
un maggior numero di templi scomparsi rispetto a quelli rimasti, la
loro stessa struttura; fragile, rispetto ad esempio alle torri
nuragiche, possenti anche negli esempi più elementari. Una struttura
meno pesante di quella delle torri nuragiche, come quella dei templi,
era maggiormente passibile di distruzioni postume per varie cause,
come la necessità di conci già tagliati o comunque di dimensioni
ridotte, per altri utilizzi, laddove smontare un nuraghe avrebbe
presentato maggiori difficoltà7.
Pochi
dunque, ma molto in vista, i templi a megaron
appaiono come un marcatore singolare di una fase singolare delle
vicende umane dell'isola. Quale sia stata questa fase, che cosa
l'abbia caratterizzata sotto l'aspetto sociale, culturale; quale ne
siano state le dinamiche di acquisizione, è l'ambizioso proponimento
di questo lavoro.
Status
Quaestionis
Bibliografia
I
templi a megaron,
all'interno del panorama archeologico sardo, occupano uno spazio
marginale nell'interesse degli studiosi, i quali evidentemente
percepiscono la “secondarietà” di queste strutture rispetto alla
vasta ed affascinante problematica rappresentata dall'originalità e
complessità delle altre, e ben più imponenti, reliquie materiali
della protostoria dell'isola. Nondimeno, questi templi, pochi,
marginali anche dal punto di vista cronologico alla cultura che li
vide sorgere, meritano e richiedono una soluzione agli interrogativi
suscitati dalla loro presenza. La fase cronologica innanzitutto, la
loro genesi culturale, la loro funzione, nonché le relazioni
territoriali legate alla loro ubicazione. Per contro, è corretto
sottolineare come, d'altra parte, l'attenzione concessa a questi
edifici sia comunque seria pur nello spazio minore (talvolta di
natura poco più che didascalica) accordatogli.
Il
tempio di Domu de Orgìa, in comune e territorio di Esterzili8,
il più notevole per dimensioni, è descritto in un breve articolo di
Ercole Contu, del 19489,
non privo di spunti analitici.
Del
1993 è la pubblicazione del volume relativo agli atti del convegno
di studi tenutosi ad Esterzili il 13 giugno 1992, nel quale il tema
centrale era la tavola bronzea risalente al 69 d.C., contenente
l'iscrizione di una sentenza emessa il 18 marzo di quell'anno dal
proconsole Lucio Elvio Agrippa. Diversi autori hanno presentato varî
temi in relazione all'archeologia, geologia ed economia antica,
protostorica non meno che romana, del territorio di Esterzili,
descrivendo in particolare il suo monumento maggiormente
significativo; il tempio a megaron10.
Il livello analitico di questi atti ed interventi, nonostante la loro
brevità, supera di gran lunga le successive pubblicazioni, relative
alle indagini dei primi anni 2000.
In
questi anni, infatti, il tempio è stato oggetto d'indagine da parte
della Dott.ssa Maria Ausilia Fadda, della Soprintendenza archeologica
di Sassari e Nuoro, la quale ne rende nota in alcuni articoli che
sostanzialmente riportano le stesse informazioni, in forma più che
altro suntiva, di tipo descrittivo11.
In una di queste pubblicazioni12
l'autrice accenna ad un altro tempio a megaron,
posto “a monte del villaggio” (un insediamento nuragico), il
quale si trova a 1212 mt. s.l.m. nel Monte Santa Vittoria, e
circondato da un temenos.
Il
megaron
di Esterzili, detto Domu de Orgìa (casa
di Georgìa,
o Urxìa,
una maga, una strega o una gigantessa13),
fu notato e segnalato in epoche a noi remote, segnatamente nel 1833,
dal presbitero e studioso Vittorio Angius, che lavorava all'epoca per
il progetto del “Dizionario degli Stati del Re di Sardegna”14.
Più tardi, nel 1840, suscitò l'attenzione del generale e studioso
eclettico Alberto Della Marmora, il quale, diversi anni dopo,
attribuì il tempio ad epoca romana, sulla base della Tavola bronzea
di Esterzili, ritrovata nell'abitato romano di Corte di Lucetta nel
186615.
Nel 1948, Ercole Contu, visitando il sito ed il tempio, attribuì
quest'ultimo ad epoca nuragica16.
Contu
descrisse l'area geografica che conteneva l'insediamento,
restituendone una raffigurazione efficace, in considerazione della
scelta ubicativa di quei sardi nuragici che avevano, con ogni
evidenza, un'idea precisa in merito alle loro esigenze: “Pressoché
al centro della Sardegna, nella Barbagia Di Seùlo, non lungi dal M.
Gennargentu, si estende una zona, ad un dipresso triangolare,
racchiusa tra il Rio Flumineddu, il R. de Sàdali o Nuluttu e il
Flumendosa (…)”17.
In
questa sua annotazione orografica e idrografica, lo studioso riesce a
dare un'immagine sufficientemente chiara della scelta ubicativa degli
insediamenti antichi, indirizzando così le ipotesi circa questa
scelta. Poi elenca i monumenti che ha visto all'interno della zona
descritta; tre nuraghi, tre tombe di giganti, due recinti megalitici,
un borgo nuragico con pozzo quadrato, una fonte nuragica con falsa
cupola, uno strano edificio (sic)
ad un dipresso trapezoidale con contrafforte, un probabile (sic)
tempio rettangolare e traccia di almeno sei abitati romani.
L'attenzione di Contu si concentrò infine sul probabile
tempio, del quale, dopo una doverosa descrizione architettonica e
metrica, non mancò di notare la rassomiglianza con i megara
greci, segnalando, inoltre, che la stessa considerazione fu fatta
poco tempo prima da G. Lillìu in merito ai due templi di Serra
Òrrios18.
Dal
1990 sono iniziate le indagini in tutto il territorio di Esterzili,
nel quale sono emersi una cinquantina di siti archeologici, la
maggior parte dei quali (in una stima del 70%), di età nuragica19.
Il comune di Esterzili finanziò in seguito gli scavi, nel 2001,
condotti dalla Soprintendenza archeologica delle province di Sassari
e Nuoro, concentrati proprio nell'area del tempio a megaron.
In
località Gremanu, in agro di Fonni, si trova uno dei complessi
insediativi nuragici più interessanti ed originali di tutto il
panorama protostorico isolano, con un complesso sistema di fonti,
pozzi ed un acquedotto. In questo articolato complesso insediativo si
trova un'importante area sacra della quale fanno parte tre strutture
o ambienti di cui una circolare, una a pianta rettangolare absidata
(con andamento piuttosto irregolare), e un tempio a megaron,
il tutto all'interno di un tèmenos
pseudo-parallelepipedo20
(La struttura circolare si interseca con le mura del c.d. tèmenos,
mentre l’ambiente absidato tange uno
dei
suoi lati lunghi con il muro orientale dell’area sacra che lo
contiene).
Le
notizie relative al tempio a megaron
di Gremanu non risalgono oltre il 1996, anno nel quale fu scoperto,
benché l'intero sito abbia visto la luce solo nel 1989. La
Soprintendenza archeologica di Sassari e Nuoro ha condotto tutte le
indagini su questo importante insediamento. Le pubblicazioni relative
non superano la dimensione suntiva e descrittiva, benché (ferma
restando la carenza dovuta alla mancata, finora, pubblicazione dei
dati di scavo), puntuali circa le informazioni di massima relative
alle indagini ed agli elementi indagati.
Nel
1989, dunque, la Soprintendenza diede inizio ad un’indagine
d’urgenza dovuta ad una situazione di danneggiamenti gravi a
seguito di sterri clandestini, scoprendo così uno dei complessi più
singolari di tutta la civiltà nuragica. Emerse un articolato
complesso di fonti e pozzi, segnatamente nella parte più alta del
passo Caravai, che conduce al passo del Corr'e Boi, che si rivelò
essere un vero e proprio acquedotto; una struttura unica nella
Sardegna nuragica. Questo sistema di pozzi raccoglieva acque sorgive
che venivano poi convogliate a valle. Venne poi alla luce una vasca
quadrangolare, di raffinata fattura litica. Dal 1990 al 1991 furono
condotte altre due campagne di scavi nelle quali vennero esplorati un
secondo ed un terzo pozzo, e si consolidò la struttura danneggiata
della vasca quadrangolare.
Gli
scavi del 1996, a valle del complesso di fonti e pozzi, mette in luce
un recinto sacro, le cui mura intersecano a NE un edificio a pianta
circolare, mentre all’interno di questa grande area, e sempre nella
sua metà settentrionale, emersero l’edificio absidato e il
megaron21.
Ben
descritto, ed oggetto di puntuali attenzioni, è il tempietto di
Malchittu, in agro omonimo, in territorio di Arzachena. Maria Luisa
Ferrarese Ceruti indagò l'area circostante e il tempio una prima
volta nel 1962 e poi nel 1964, dedicandogli un'ampia nota22.
La studiosa descrisse opportunamente il luogo, ovvero l'ubicazione
territoriale dell'edificio e il modo e le vie per raggiungerlo, poi
descrisse il tempio, ed infine esaminò ogni sua parte proponendo
paragoni puntuali con particolari analoghi o somiglianti, presenti in
altri monumenti nuragici dell'isola, come templi a pozzo, tombe dei
giganti e nuraghi, nel tentativo di inquadrare una funzione precisa
del monumento oggetto della sua indagine. Non propose conclusioni o
interpretazioni in merito; lasciò questi elementi con le loro
somiglianze a beneficio dei lettori; quasi un catalogo di oggetti
da mettere in eventuale relazione funzionale.
Esattamente
vent'anni più tardi, nel 1984, venne pubblicata una guida che
intendeva mostrare una panoramica delle emergenze archeologiche del
territorio di Arzachena23.
Guida ottimamente curata e descritta, nella quale l'archeologa
Autrice dell'articolo che descriveva il tempio vent'anni prima,
ritorna sulle sue stesse tracce descrivendo il tempietto, con
l'arricchimento di informazioni dovuto allo scavo che la stessa
condusse nel dicembre del 1967.
Del
1992 è una pubblicazione a carattere per lo più divulgativo, nella
quale sono presentati i monumenti di Arzachena; nella descrizione del
tempietto si mettono in relazione i materiali rinvenuti al suo
interno con altri siti nuragici24.
Più
recente, del 2013, è un breve excursus
di Angela Antona Ruju, nel quale sono presenti alcune indicazioni
interessanti sui rapporti geografici tra il tempietto e gli altri
monumenti vicini, insieme a numerose e suggestive immagini25.
In questa pubblicazione la studiosa informa della presenza di altri
due templi, classificabili allo stesso modo di quello di Malchittu,
collocati tra Arzachena e Palau, in territori di Monti Canu e in
località Funtana di la 'Idda. Nessuno dei due è stato ancora
interessato da indagini.
Uno
dei siti più interessanti e più studiati fra quelli che presentano
uno o più templi a megaron,
è S'Arcu 'e Is Forros in territorio del comune di Villagrande
Strisaili. Le indagini archeologiche iniziarono solo nel 1984, e
furono indagini d'urgenza dovute ai gravi danni causati da sterratori
clandestini. L'area archeologica è ricca di strutture non comuni nel
pur ampio panorama della protostoria isolana; qui, uno degli aspetti
più singolari è rappresentato dall'area sacra nella quale spicca
per importanza e dimensioni il tempio a megaron
A
(accompagnato da un altro di minori dimensioni, il tempio B).
Indagini e pubblicazioni furono condotte e firmate da Maria Ausilia
Fadda. La prima pubblicazione è del 1992 e riguarda la terza
campagna di scavo dei mesi di settembre ed ottobre del 199026,
che ha interessato il grande tempio a megaron
detto A. Un ricco articolo del 1996 nella rivista “Archeologia
Viva” espone, con un tono più discorsivo, una panoramica più
ampia ma non meno dettagliata delle indagini dell'area sacra, con
riflessioni sulle strutture messe in luce ed indagate27.
Un anno più tardi, la stessa archeologa della soprintendenza,
pubblica ancora nel Bollettino di Archeologia un articolo che
descrive gli scavi dell'insediamento vicino all'area sacra28.
A parte un accenno ad alcuni reperti del sito, esposti nel museo
archeologico di Nuoro, e presentati in una pubblicazione relativa
allo stesso museo29,
una pubblicazione estesa e completa, sul sito, sugli edifici e sui
reperti di S'Arcu 'e Is Forros, con conclusioni e considerazioni
sulle cronologie dell'insediamento, relative all'arco di vita dello
stesso, e con belle immagini fotografiche, è del 2012, e sempre a
firma della Dott.ssa Fadda30.
Di un anno prima è un altro articolo su “Archeologia Viva”, dove
è esposta una interessante teoria circa i mutamenti sociali avvenuti
alla fine dell'età del bronzo, che avrebbero determinato mutazioni
nelle abitudini cultuali e costruttive dei nuragici31.
Serra
Òrrios, in territorio dorgalese, è un altro sito di grande pregio,
ed uno dei primi ad essere indagati tra quelli qui citati. Il primo a
parlare del villaggio in una pubblicazione (se si esclude un articolo
nel Bollettino d'Arte, in seguito all'ultima indagine del 1938
condotta da Teodoro Levi, che indagò l'insediamento nel 1936, e che
ne scrisse poi nel '43, dagli Stati Uniti), fu Giovanni Lillìu nel
1947. In poche righe uno dei padri dell'archeologia sarda rievoca,
letto oggi, suggestioni bucoliche di epoche nelle quali era da
scoprire e raccontare anche il villaggio “dietro il monte”, che
non vediamo mai ma che, in effetti, è a pochi chilometri da casa
nostra. Dentro questa atmosfera arcadica Lillìu descrive la natura
del luogo e l'insediamento con pochi rapidi tratti, evocando
impressioni da mirabilia
pre-rinascimentali. Insieme a queste evocazioni emergono alcune
osservazioni non scontate sulle forme architettoniche e sul contrasto
tra esse; forme circolari e forme quadrangolari, le prime tipiche
della Sardegna e dei sardi, le altre “importate”, ma felicemente
inserite in contesti conservativi (e tardi, all'interno della
cronologia nuragica), che denunciano “una
sorta di accorata nostalgia della linea curva indigena
(…)”32.
Del
1980 è un bell'articolo di Maria Luisa Ferrarese Ceruti, nel quale è
esposta la storia della scoperta dell'insediamento, una descrizione
dello stesso ed un'analisi, nei limiti del possibile, data la citata
assenza di dati archeologici puntuali, di eventuali cronologie del
sito, oltre a lamentare anche lo stato d'incuria nel quale lo stesso
si trovava all'epoca dell'articolo33.
Nella
stessa pubblicazione, Fulvia Lo Schiavo analizza i reperti bronzei
rinvenuti a Serra Òrrios, anche lei poco soddisfatta
dell'impossibilità di un'analisi soddisfacente delle sequenze
archeologiche e dunque cronologiche del sito34.
Alla parte argomentativa dell'articolo segue un catalogo dei reperti
descritti.
I
materiali fittili furono oggetto di studio di Donatella Cocco, in un
articolo che attraverso la loro analisi mette in luce fasi
cronologiche, limiti e periodizzazioni35.
Nel
volume che nel '94 fu pubblicato in omaggio all'archeologo triestino
Teodoro Levi, Maria Ausilia Fadda ripercorre le tracce dei suoi scavi
degli anni '36 e '37, per poi riprendere la storia delle indagini e
degli studi sul sito37.
Di
carattere divulgativo è un articolo dell'archeologa nuorese, dello
stesso anno, in “Archeologia Viva”38.
Nella
guida del museo archeologico di Dorgali del 1998, si può vedere una
breve carrellata di immagini di reperti rinvenuti nell'insediamento;
la guida è curata da Daniela Pulacchini39.
Un'ampia
e dettagliata descrizione di Serra Òrrios, con una completa storia
delle indagini dello stesso, la si può leggere in una pubblicazione
di Alberto Moravetti per la collana “Sardegna Archeologica”. La
prima edizione è del 199840.
Il
piccolo complesso di Sa Carcaredda, anch'esso in territorio comunale
di Villagrande Strisaili, presenta notevoli caratteri peculiari per
la forma del tempietto. Indagato per la prima volta solo nel 1989, ed
a seguito di devastazioni ad opera di scavi clandestini, fu oggetto
di attenzioni più approfondite nel 1991, in occasione di indagini
della Soprintendenza di Sassari e Nuoro. Un resoconto essenziale di
queste indagini apparve l'anno successivo nel Bollettino di
Archeologia, a firma Maria Ausilia Fadda41.
Del
1992 è una breve nota litologica di Caterinella Tuveri sui materiali
coi quali il monumento è stato costruito42.
Una
brevissima descrizione del tempio è del 1998 nel volume “Etruria e
Sardegna centro-settentrionale tra l'età del bronzo finale e
l'arcaismo”43.
Nella
già citata pubblicazione per la collana “Sardegna Archeologica”
del 2006, relativa al museo archeologico di Nuoro, è descritto il
focolare rituale presente all'interno della camera circolare del
tempio, ricostruito nelle sale del museo44.
In
territorio di Alà dei Sardi, ai piedi di Punta Senalonga, a sud del
massiccio del Limbara, e nella sub-regione storica del Montacuto nel
Logudoro, sorge il complesso di Sos Nurattolos, che comprende un
tempio a pozzo, una capanna e un tempio a megaron.
Il complesso è descritto per la prima volta da Antonello Baltolu in
un breve studio apparso in seguito alla sua tesi di Laurea del 1969;
un articolo pubblicato nel 1973, dove descrive i monumenti degli
altopiani di Buddusò e di Alà dei Sardi45.
La descrizione inizia con una panoramica paesaggistica e litologica,
alla quale segue la localizzazione dei monumenti presi in esame. Dopo
la descrizione architettonica del tempietto, l'autore propone
paralleli, cronologie, influenze, citazioni, che in generale
coincidono con quelle di altri autori ed archeologi che hanno
osservato altri monumenti analoghi, come Ercole Contu e Giovanni
Lillìu.
Di
quest'ultimo è una interessante disamina sulla religiosità
nuragica, segnatamente attraverso l'esame formale dei templi a pozzo,
cui si affiancano quelli a megaron.
Il tempio e l'area sacra di Sos Nurattolos vi sono appena accennati
(così come, nelle stesse pagine, si accenna a Malchittu), ma
l'intero articolo merita di essere preso in considerazione proprio
per l'analisi di una religiosità desunta a partire dalle forme
architettoniche dei templi, ed insieme, dagli elementi particolari
che possono esservi stati contenuti o che fanno parte integrante
delle strutture templari46.
Ancora
Lillìu accenna al tempietto di Alà dei Sardi all'interno di una
discorso che tocca la fase di mutazione sociale del popolo nuragico
allo scorcio del II millennio48.
Anche qui è chiamato in causa, come elemento di paragone, il
tempietto arzachenese di Malchittu, considerato principalmente per la
sua distanza cronologica (stando ai reperti ceramici rinvenuti
all'interno e che si riferirebbero ad un orizzonte più alto di
quello degli altri templi). Altro termine di paragone, presente in
queste poche pagine, è Serra Órrios, considerato nel suo complesso
di insediamento – villaggio – con due templi al suo interno.
L'autore mette inoltre in evidenza l'estraneità culturale della
forma architettonica dei templi a megaron
all'interno della cultura nuragica.
Anna
Sanna non parla del tempio ma della fonte del piccolo complesso
montano di Sos Nurattolos, proponendo paralleli formali con
Malchittu, e considerando una stessa fase cronologica per i due
complessi49.
Il
tempio di Oes, in territorio di Giave (antica regione del Meilogu,
nel Logudoro, SS), compreso all'interno di un tèmenos
di forma a esagono irregolare, si presenta oggi quasi raso a livello
del suolo; non ne rimangono, infatti, che i muri di fondazione. Gli
alzati, sia del tempio che del tèmenos,
sono stati demoliti in epoca moderna durante lavori di spietramento.
Il
tempio, col suo tèmenos,
sono brevemente descritti da Lavinia Foddai, all'interno di un'ampia
pubblicazione relativa a tutte le emergenze archeologiche dell'area,
nella quale emerge per complessità ed importanza, su tutte le altre
strutture, la torre nuragica 50.
In
una breve scheda iniziale, relativa al tempio, spicca la voce
“nessuno”, relativa agli elementi culturali rinvenuti51.
Ultimo
sito tra quelli indagati è Su Romanzesu, che sorge in località
Poddi Arvu (“pioppo bianco”; arvu:
albo),
nell'altopiano Sa Serra in territorio comunale di Bitti (NU). Altro
insediamento di grande pregio ed interesse, nel quale sono emersi (in
varie fasi nell'arco del '900), diversi elementi monumentali. Un
tempio a pozzo, collegato ad una vasca per abluzioni, un
insediamento, tre templi a megaron
e un recinto che conteneva un vasto spazio interpretato come luogo
cerimoniale.
Dopo
la sua (rovinosa) scoperta nel 1919, da parte di Antonio Taramelli,
all'epoca Soprintendente alle Antichità della Sardegna, seguirono
nei decenni successivi altri interventi distruttivi, che
interessarono principalmente il pozzo, volti alla ricerca e
ricanalizzazione dell'acqua in periodi di siccità. In seguito ad un
ulteriore danneggiamento, nel 1986, sempre durante lavori con mezzi
meccanici pesanti, volti alla ricerca d'acqua, la Soprintendenza
Archeologica decide finalmente di intervenire con opere di restauro e
scavi, e con la tutela dell'insediamento.
Un'ampia
descrizione delle strutture dell'insediamento, con fasi costruttive
dei templi a megaron
e cronologie, è nel volume relativo agli Atti del XXI Convegno di
studi Etruschi e Italici, a cura di Maria Ausilia Fadda (1998)52.
Il testo è seguito da un'ampia carrellata di disegni dei materiali
rinvenuti, specialmente nei due megara.
Dello
stesso anno è un articolo, firmato dalla stessa Fadda, in
“Archeologia Viva”, dove ripete, benché in tono più discorsivo,
le stesse informazioni presenti nella pubblicazione sopra accennata53.
Di
otto anni più tardi è un'ampia pubblicazione per la collana
“Sardegna Archeologica”, a doppia firma, dove il sito è oggetto
di un'accurata descrizione con notizie complete ed analisi
altrettanto esaustive, che non si scostano sostanzialmente da quelle
già esposte nelle precedenti pubblicazioni54.
Il
sito e i suoi monumenti sono ben studiati e le pubblicazioni, pur non
numerose, sono a loro volta curate e precise. Anche se non sarà
ridondante sottolineare, una volta ancora, la lamentevole mancanza di
dati archeologici, i quali avrebbero dato modo ad altri studiosi di
formulare analisi e trarre conclusioni, diverse o convergenti da
quelle pubblicate, che avrebbero ampliato il quadro delle ipotesi ed
arricchito gli studi di una ampia base di discussione. Questa
considerazione vale per ognuno dei monumenti presi in esame in questa
sede, ad eccezione di quelli per i quali i dati mancano del tutto.
Più
in generale, dei templi a megaron,
si parla in tutte o quasi le pubblicazioni relative all'epoca
nuragica, o più in particolare in quelle relative ai coevi, e più
numerosi, templi a pozzo, ma, ad eccezione di alcuni casi, come Serra
Òrrios, Gremanu, S'Arcu 'e Is Forros o Domu de Orgìa, non si tratta
che di brevi accenni, come è quello, ad esempio, del tempio di Oes
nella citata pubblicazione. Oppure è preso in esame l'intero
fenomeno di questi monumenti, come in un paragrafo curato da Ercole
Contu, all'interno di un ampio volume dedicato alla storia e
all'analisi della Sardegna, fino ad età classica55.
All'epoca
della sua pubblicazione erano noti solo cinque templi (Malchittu, Sos
Nurattolos, Serra Òrrios, Domu de Orgìa). Contu descrive i cinque
templi nella loro architettura, per poi riflettere sugli accostamenti
alle strutture templari dell'Elladico Antico, Medio e tardo
(2600-1580 a.C.)56
e, in epoche molto posteriori, ai templi siciliani del VII, VI secolo
a.C., per poi concludere che simili accostamenti, così lontani fra
loro, potrebbero essere privi di significato.
Altro
aspetto importante, in negativo, che Contu mette in rilievo, è la
scarsità di elementi in base ai quali datare i monumenti a megaron;
tuttavia non manca di proporre un arco cronologico che abbraccerebbe
genesi e vita di queste strutture.
Giovanni
Lillìu, in una delle sue ultime pubblicazioni, nella quale espone
una lunga descrizione ed analisi della Tomba dei Giganti di
Bidistili, in territorio di Fonni, spende alcune pagine a margine del
testo per i templi a megaron.
Insieme ad una dettagliata descrizione planimetrica, con proporzioni
tra i varî
edifici, mette in risalto la difficoltà a ricostruirne l'intero
alzato data l'altezza residua dei muri degli impianti. Segnala le
loro varie fasi costruttive, con ristrutturazioni e modifiche,
esamina i materiali restituiti dai templi, denunciando a sua volta
l'avarizia di dati ed informazioni di chi avrebbe dovuto pubblicare i
dati sui materiali e si fa ancora aspettare, ed in base ai dati
comunque disponibili, propone cronologie per i varî edifici, che
accomuna in un unico breve ma sostanzioso esame57.
Di
natura più analitica è un capitolo curato da Vincenzo Santoni,
all'interno di un più vasto volume. È qui presa in considerazione
un'intera panoramica di edifici, templi a pozzo, nuraghi, templi a
megaron
e pozzi sacri, tutti gravitanti all'interno dello stesso arco
cronologico – dal Bronzo medio al ferro – e messi in relazione
tra loro grazie a comparazioni tra forme e decorazioni ceramiche,
forme architettoniche degli edifici, decorazioni in rilievo dei muri.
Santoni spinge i suoi paralleli fino a toccare aree non sarde –
segnatamente Etruria, Campania e altre località tirreniche – al
fine di conferire un quadro cronologico possibile, scavalcando così
l'assenza dei dati di scavo. L'aspetto più suggestivo della sua
analisi è quello che indaga i culti possibili, praticati nei templi
a megaron,
optando, e non è il solo, per una cultualità legata all'acqua58.
Si
è inteso indagare, in questo lavoro, i soli siti di Domu de Orgìa,
Gremanu, Serra Òrrios e S'Arcu 'e Is Forros in quanto ritenuti
maggiormente significativi per la loro posizione geografica, per la
qualità e particolarità delle strutture, e perché mi pare si
assommino in questi quattro siti le diverse varianti importanti dei
megara
sardi.
Il
megaron
sardo
Una
delle problematiche (e delle suggestioni), legate all'analisi formale
di questi edifici è l'ipotesi della loro ascendenza esterna,
segnatamente minoica, micenea o post-micenea59,
vale a dire quelle culture (della complessa koinè
ellenica), che espressero forme analoghe con analoga semantica
funzionale. Queste somiglianze, tuttavia, non sembrano di per sé
sufficienti a chiarire la natura dei contatti e delle influenze
eventualmente esercitate, dal mondo orientale ed egeo, nei confronti
dei sardi nuragici. Sarà opportuno pertanto osservare non solo forme
e somiglianze quanto, al contrario, le differenze e le assenze
rispetto proprio a quel mondo lontano
che potrebbe aver seminato in occidente alcuni semi precoci. Assenze
relative a strutture urbane ed architettoniche che accompagnino i
templi proprio nel loro significato formale.
L'edificio
cultuale delle società elleniche ed egee, fin dal Neolitico, ebbe
forma rettangolare, spesso inserita in complessi (Palazzi)
nei quali erano presenti altre strutture della stessa forma, in
relazione centripeta con un nucleo centrale, e con diverse dimensioni
e funzioni. Queste testimoniano di una cultura costruttiva
profondamente radicata, che sarebbe infine culminata coi maestosi
templi eretti dall'età arcaica in poi60,
sorti nell'ecumene ellenico del Mediterraneo, e con le pianificate
strutture urbane coloniali
in Occidente.
Nulla di meno di una cultura architettonica così radicata (e
complessa) avrebbe potuto influenzare altre compagini, lontane e
profondamente diverse da quelle elleniche, come, ad esempio, quella
sardo-nuragica. Una eco di questa cultura costruttiva poteva aver
influenzato l'immaginario dei sardi dell'epoca, o di alcuni di loro,
i quali provarono a dar forma a questa influenza erigendo degli
edifici in luoghi e contesti che lasciano emergere alcune delle
contraddizioni tipiche di questa sorta di imitazioni.
Una contraddizione è relativa ed insita proprio nelle forme dei
complessi insediativi; sia nei casi in cui l'insediamento comprenda
uno o più templi61,
sia che questi ne siano distanti o del tutto isolati, questi si
presentano in discontinuità formale con le altre strutture tipiche
della civiltà nuragica, ad eccezione parziale dei templi a pozzo,
coi quali condividono il vestibolo frontale, i quali tuttavia non
mancano di presentare la forma circolare nella loro parte più
importante; quella del pozzo vero e proprio. Fra queste forme
circolari (capanne, nuraghi, cinte murarie che in alcuni casi
circondano i templi stessi), spicca il tempio, rettangolare, in tutta
la sua estraneità formale: “La
prima cosa che colpisce in queste costruzioni è la loro netta
differenziazione dalle comuni case di abitazione, riscontrabile
principalmente nella prevalenza della linea retta nel loro sviluppo
di pianta. Questi caratteri distintivi appaiono tanto più evidenti
quando, nel caso dei due tempietti del villaggio di Serra Òrrios, si
ha l'immediato confronto con le vicine capanne circolari nuragiche.”62
A
meno di scoperte di inequivocabili influenze dirette, ovvero di
assimilazione di un modello, provenienti dal mondo egeo, sulla
Sardegna, o di prove indubbie sulle stesse, non resta che analizzare
gli elementi noti e visibili, ed andare per esclusione; se si assume
l'estraneità formale del tempio a megaron,
in seno alla cultura architettonica del mondo nuragico, è giocoforza
cercare un modello esterno che possa essere stato così importante da
imporsi come struttura significante di un culto. Questo modello è il
Megaron egeo, il quale, come risulta evidente anche solo osservando
una pianta delle strutture palaziali63,
da Troia II a Cnosso, è inserito in complessi che trovavano la loro
identità nelle forme parallelepipede e rettangolari, così come la
cultura nuragica la trovava in quelle coniche e circolari.
Sempre
assumendo l'ipotesi di una influenza esterna, ed egea dunque, non è
difficile constatare come questo prestito
sia stato assimilato con diversi gradi di difficoltà – a volte
maggiori a volte minori o quasi nulle – dalle diverse comunità che
lo adottarono. Un caso esemplare in quest'ottica, che riassume in sé
entrambi i limiti, è, a mio avviso, quello del tempio A di S'Arcu 'e
Is Forros, nel cui complesso strutturale si assommano sia la perfetta
assimilazione del modello megaron,
sia la difficoltà del suo inserimento nelle dinamiche
socio-insediative, e religioso-cultuali, della cultura architettonica
nuragica. Il tempio ha forma rettangolare (non perfettamente
regolare, ma è evidente la volontà di strutturare l'edificio in
quella forma), con una corretta ricerca di armonia e simmetria delle
sue parti. A fronte di questa ottima assimilazione del modello, il
vestibolo esterno, contiguo alla struttura del megaron,
è una ellisse irregolare, sovradimensionata rispetto al tempio,
strutturata senza alcun senso della simmetria, incrociata con altri
due ambienti circolari e relazionata, con ingresso, ad un terzo. Il
tutto senza nessuna ricerca di armonia tra forme architettoniche.
Questa singolare conformazione del complesso sacro, relativo
all'edificio A, non dà adito ad essere giustificato, od
interpretato, da particolari esigenze cultuali, dal momento che
qualunque interpretazione relativa ai recinti ed agli elementi di
disimpegno, subordinati ad un edificio primario, non esprime il
bisogno né richiede una determinata e così precisa conformazione.
Inoltre, e benché questa sia tutt'altro che una regola esatta della
cultura nuragica, la tendenza nella concezione di una struttura
complessa, adibita ad offici cultuali (si pensi ai templi a pozzo, o
alle tombe dei giganti, od anche, a prescindere dalla cultualità, ai
nuraghi complessi come Losa o Santu Antine), è quella della ricerca
della simmetria e della specularità delle parti. Sembra evidente
dunque, a S'Arcu 'e Is Forros ma non solo, come il modello megaron
sia stato assimilato nella sua totalità, ma che non si sia risolto
il problema del suo inserimento all'interno di una cultura
architettonica ed urbanistica del tutto differente.
Giovanni
Lillìu aveva notato una certa stonatura nell'armonia delle parti,
nel complesso insediativo nel quale è presente il megaron,
ma si tratta di ben più di “una
sorta di accorata nostalgia della linea curva indigena”.
Sembra piuttosto il contrario; la semantica formale del Megaron egeo
è una “scomoda” – benché evidentemente desiderata per la
suggestione che dovette aver esercitato – inclusione, in seno ad
una possentemente radicata cultura architettonico-urbanistica del
tutto diversa.
Descrizione
del territorio e dei monumenti
Domu
de Orgìa
“Esterzili,
piccolo comune della Barbagia di Seùlo sui monti di una delle zone
più incontaminate della Sardegna, vero e proprio nido d'aquila fra
profonde vallate e altopiani di rocce sedimentarie dove si
concentrano i resti degli insediamenti antichi... Le cronache
archeologiche dell'Ottocento vi segnalavano già il tempio di Domu de
Orgìa e il ritrovamento, in località Corte di Lucetta, di una
tavola bronzea di epoca romana.”64
Il
territorio
Il
megaron
di Esterzili sorge sul Monte Cuccureddì, non esattamente sulla sua
cima ma comunque in posizione elevata, in una sella pianeggiante fra
due promontori scistosi a 978 m di quota65.
Gli insediamenti, relativi al contesto in esame, sono tutti
localizzati sugli altopiani, secondo una evidente scelta ubicativa
che si può a buon diritto definire strategica.
Un territorio “geologicamente tormentato”, secondo definizione di
M. A. Fadda, ma ricco di risorse economiche come le miniere di piombo
e zinco del Monte Nieddu, e il corso del Rio Flumendosa, controllate
dall'altopiano di Taccu 'e Linu66.
L'intero
territorio comunale di Esterzili, nella Barbagia di Seùlo, ha
un'alta concentrazione di insediamenti, con otto nuraghi censiti, la
cui ubicazione denuncia a sua volta delle precise scelte insediative;
ad esempio i nuraghi Corti 'Eccia e Su Casteddu, costruiti nelle
parti più alte dell'altopiano; i nuraghi Monti 'e Nuxi e Genna 'e
Forru posti a mezza costa e Monti 'e Is Abis e Crasu Orgiu – del
tipo a corridoio – impostati su spuntoni di roccia. A fronte di un
numero così limitato di torri nuragiche (verosimilmente dovuto alla
spoliazione di questi edifici, avvenuta in varie epoche, per il
riutilizzo dei blocchi litici67),
sono presenti nel territorio ben sedici tombe dei giganti, le quali
indicano un'alta concentrazione demografica dell'epoca. Le tombe,
inoltre, sono state impiantate a gruppi, formando diverse piccole
necropoli, secondo un modo non comune in Ogliastra68;
altra scelta precisa che denota, a mio avviso, una libertà
d'interpretazione della cultura costruttiva nuragica, in seno a
quella che potremmo definire cultura
madre,
ovvero quella nella quale si riconosce e si riconosceva l'intero
territorio isolano.
A
confermare l'isolamento sacro dei templi, è doveroso citare quello
che si trova in cima al Monte Santa Vittoria, circondato da un
recinto costruito a monte di un vasto insediamento, costituito da
capanne disposte su piani terrazzati, ed una fonte. Il tempio,
ridotto ai muri di fondazione, si trova a 1212 m di quota69.
Il
dipresso
triangolare
nel quale sorge il tempio, secondo la precisa definizione di Ercole
Contu, rileva: ”(...) una
larga prevalenza di schisti con solo qualche piccolo altipiano
calcareo, quale il Taccu di Esterzili e il Taccu Elìnu
(…) una
zona notevole per il terreno molto vario e accidentato, con forti
rilievi che raggiungono il massimo col M. S. Vittoria (Q. m. 1212) e
il minimo nel letto dei fiumi (400-300 m.), che scorrono in genere
tortuosi, con ripe scoscese, pittorescamente incassati fra le
montagne.”70
L'Autore
si sofferma per poche righe, nella stessa pagina, a definire la
situazione economico-insediativa a lui coeva, segnalando l'uso quasi
esclusivamente pastorale del territorio, a causa delle sue
caratteristiche geologiche e geografiche e “Scarse
sono le risorse agricole”71.
Questa osservazione potrebbe fornirci un quadro di massima
dell'economia insediativa dell'epoca nuragica, in questo territorio,
mentre sembra da escludersi una situazione di conflitto endemico tra
pastori ed agricoltori, come emerge, ad esempio, dalla tavola di
Esterzili. La lettura dell'iscrizione della tavola bronzea rivela
quello che, riducendo l'analisi ai minimi termini, altro non è che
un conflitto territoriale: “L'atteggiamento
dei pastori montanari dell'area povera di risorse contro le
popolazioni delle fertili e ricche aree del sud-est dell'isola
(…)72.”
Questo conflitto, nel 69 d.C., riguardava però genti nuragiche,
dedite alla pastorizia in quanto abitatrici di una regione montuosa e
poco fertile, del sud-est dell'isola, segnatamente i Galillenses,
e una compagine immigrata, i Patulcenses
Campani,
coloni portati dai romani ed agricoltori delle fertili piane
campidane. Il ritrovamento della tavola bronzea in territorio di
Esterzili è ritenuto casuale, nel senso che la contesa tra questi
due popoli, rivelata dall'iscrizione, non riguarderebbe la
sub-regione della Barbagia di Seùlo, ma grossomodo gli attuali
Gerrei, montano ed a economia pastorale nomade, e Parteòlla, posto a
SO, a ridosso del Golfo degli Angeli, a vocazione agricola e
stanziale; tutte aree meridionali rispetto alla Barbagia di Seùlo.
Nella zona di Esterzili, inoltre, è da ritenere che la
romanizzazione non avvenne che al tramonto dell'Impero, verso la fine
del VI secolo d.C.73
Tuttavia, anche considerando l'estraneità geografica nonché,
soprattutto, quella cronologica, cioè relativamente ad epoche
pre-romane anche remote, rispetto al 69 d.C. degli eventi eternati
nella tavola bronzea di Esterzili, proprio grazie ad essa è però
possibile abbozzare un quadro della vita di popoli che non hanno
lasciato documenti scritti ad informarci sulle loro vicende. Il
territorio di Esterzili, d'altronde, ovvero quello sul quale sorgono
il tempio e gli insediamenti, è formato da un terreno duro, avaro di
prodotti naturali e non naturalmente predisposto alla coltivazione su
larga scala. La pastorizia era, verosimilmente, l'unico sostentamento
possibile in queste terre alte ed aspre, per quanto riguarda le
risorse alimentari e di prodotti legati all'allevamento. Possiamo
legittimamente immaginare, per tanto, un'economia pastorale, di
consumo e distribuzione, ma anche di scambio, sia interno,
ovvero tra i varî villaggi dello stesso circondario, sia esterno,
cioè proprio con genti di pianura, coltivatori stanziali. In
quest'ultimo caso, eventuali situazioni di conflitto, sporadiche o
croniche, del tipo di quelle emerse dalla tavola bronzea del 69
d.C.74,
hanno poco interesse in questa sede, ed eventualmente dovessero
emergere confermerebbero la vocazione pastorale e l'economia di
scambio tra diversi territori. In questo scenario tuttavia, a mio
avviso, conflitti come quello raccontato dalla tavola, non erano in
atto all'epoca alla quale è riferito questo studio, non solo o non
tanto perché quello del 69 AD era un conflitto che coinvolgeva una
quaedam
gens
non sarda, ed inoltre migrata su supervisione altrui; non solo, poi,
a causa di questa supervisione altrui, cioè per il dominio
“straniero” dei romani sulle genti nuragiche, che toglieva sia
spazio decisionale a queste ultime sia, principalmente, perché
spezzava equilibri vecchi di secoli, ma perché si può ritenere che
nell'arco dei secoli, i nuragici, avessero raggiunto, appunto, un
equilibrio di convivenza che, pur non del tutto esente da conflitti,
si manteneva comunque entro limiti precisi all'interno dei rapporti
tra genti vicine.
Tornando
a considerazioni prettamente territoriali, un confronto geologico e
pedologico di questa sub-regione della Sardegna, eseguito su carte
pedologiche, geologiche e metallogeniche dell'isola75,
permette di tracciare un quadro schematico:
Unità
di Paesaggio
interessate: 1, 2, 3, 4, 6, 7, 11 (unità
di paesaggio e substrati)76,
che corrispondono alle seguenti classificazioni:
1
= unità di paesaggio “A1”
|
Aree
con forme accidentate, da aspre a sub-pianeggianti (tacchi),
prevalentemente prive di copertura arbustiva ed arborea.
|
|
2
= unità di paesaggio “A2”
|
Aree
con forme accidentate, da aspre a sub-pianeggianti (tacchi),
con prevalente copertura arbustiva ed arborea.
|
|
3
= unità di paesaggio “B1”
|
Aree
con forme aspre e pendenze elevate, prevalentemente prive di
copertura arbustiva ed arborea.
|
|
4
= unità di paesaggio “B2”
|
Aree
con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sotto di 800-1000 m,
con scarsa copertura arbustiva ed arborea.
|
|
6
= unità di paesaggio “B4”
|
Aree
con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sopra di 800-1000 m,
con scarsa copertura arbustiva ed arborea.
|
|
7
= unità di paesaggio “B5”
|
Aree
con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sopra di 800-1000 m,
con scarsa copertura arbustiva ed arborea.
|
|
11
= unità di paesaggio “C4”
|
Aree
con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sopra di 800-1000 m,
con scarsa copertura arbustiva ed arborea.
|
Le
Classi
di Capacità d'Uso
per questi suoli sono: per l’Unità
di Paesaggio
1: VIII–VII; rispettivamente, VIII; suoli
che presentano limitazioni tali da precludere qualsiasi uso
agro-silvo-pastorale e che, pertanto, possono venire adibiti a fini
creativi, estetici, naturalistici, o come zona di raccolta delle
acque. In questa classe rientrano anche zone calanchive e gli
affioramenti di roccia,
e VII;
suoli
che presentano limitazioni severissime, tali da mostrare difficoltà
anche per l'uso silvo pastorale.
Per l’Unità
di Paesaggio
2: VII–IV; rispettivamente, VII; v.
supra,
e IV;
suoli
che presentano limitazioni molto severe, tali da ridurre
drasticamente la scelta delle colture e da richiedere accurate
pratiche di coltivazione.
Per l’Unità
di Paesaggio
3: VIII–VII; rispettivamente, VIII; v.
supra,
e VII;
v.
supra. Per
l’Unità
di Paesaggio
4: VII–VI; rispettivamente, VII; v.
supra,
e VI; suoli
che presentano limitazioni severe, tali da renderli inadatti alla
coltivazione e da restringere l'uso, seppur con qualche ostacolo, al
pascolo, alla forestazione o come ambiente vivibile naturale.
Per l’Unità
di Paesaggio
7: VI–VII–IV; rispettivamente, VI; v.
supra,
e VII;
v. supra,
e IV; v.
supra.
Per l’Unità
di Paesaggio
11: VII–VI; rispettivamente, v.
supra,
e VI; v.
supra.
Le
Limitazioni
d'Uso
sono così descritte per queste tipologie di suolo: 1; Rocciosità
e pietrosità elevate, scarsa profondità, forte pericolo di
erosione.
2; A tratti; rocciosità
e pietrosità elevate, scarsa profondità, forte pericolo di
erosione.
3; Rocciosità
e pietrosità elevate, scarsa profondità, eccesso di scheletro,
forte pericolo di erosione.
4; A tratti; rocciosità
e pietrosità elevate, scarsa profondità, eccesso di scheletro,
forte pericolo di erosione.
6; A
tratti; rocciosità
e pietrosità elevate, scarsa profondità, eccesso di scheletro,
forte pericolo di erosione.
7; A
tratti;
pietrosità elevata, scarsa profondità, eccesso di scheletro,
pericolo di erosione.
11; A
tratti; rocciosità
e pietrosità elevate, scarsa profondità, eccesso di scheletro,
forte pericolo di erosione77.
La
grossa fetta di territorio preso in esame per questo confronto
comprende all'incirca l'intera sub-regione della Barbagia di Seùlo,
nella quale prevale, con una percentuale approssimativa dell'80% il
tipo pedologico 4, che si differenzia dagli altri principalmente per
l'altimetria dei luoghi. Solo il tipo 2, tra l'altro, è
caratterizzato da una prevalente
copertura arbustiva ed arborea,
ma si tratta di una minima parte di questo territorio. Il quadro che
emerge è dunque quello di un territorio aspro, appunto, avaro di
vegetazione, montano, e poco o nulla adatto alla coltivazione se non
in piccole zone.
Grazia
Ortu descrive la morfologia del solo territorio di Esterzili, di
100,78 kmq, come: “(…) assai
aspro, caratterizzato da un paesaggio prevalentemente montuoso con
ripidi versanti e profonde valli segnate da fiumi e ruscelli. Circa
un terzo del territorio è costituito da altopiani di natura
calcarea, le cui forme tabulari addolciscono il paesaggio.78”
Le
tipologie pedologiche, o dei suoli, suesposte corrispondono
abbastanza bene a questa descrizione.
D'altro
canto è Fernando Pilia, il quale descrive l'area attorno al tempio:
“(…) una
zona di alti pascoli apprezzati dai pastori e caratterizzati
dall'intenso profumo di timo (…)”79.
Laddove si vede come analisi troppo generalizzate non corrispondono
che in modo approssimativo alle realtà particolari, ed ai
particolari punti di vista.
A
ca. 10 km a SSO del megaron
si trova il nuraghe Arrubiu, sulla riva destra del Flumendosa, presso
le cui mura esterne furono edificati due sili della capacità di 150
quintali ca., atti a contenere graminacee. Questi sili sono l'indizio
di una delle trasformazioni avvenute al passaggio al BF, vale a dire
un'importante opera di deforestazione volta allo scopo di destinare
il terreno a coltivazioni di graminacee ed altre specie nitrofile80.
Le
classificazioni di paesaggio del territorio attorno e relativo al
nuraghe Arrubiu sono le unità 19 e 20 le quali, senza addentrarsi in
definizioni tassonomiche, sono relative a terreni privi delle
caratteristiche favorevoli all'attività agricola, ed assomigliano in
toto
a quelli appena descritti. Se questi territori sono stati dunque
interessati da un'attività di coltivazione, è possibile per tanto
ipotizzare, per gli insediamenti dell'intera zona fino all'altopiano
nel quale sorge il tempio, un altro tipo di economia, che non è da
pensarsi come semplice integrazione delle attività pastorali, ma in
un ottica più ampia, che comprende una rete di rapporti sistematici
(politici)
tra comunità di villaggi vicini, ruotanti all'interno di vaste
realtà territoriali.
Ancora
Pilia descrive il territorio attorno al tempio in modo esemplare,
partendo proprio dall'edificio, per chiudere con lo stesso: “Quasi
al centro del territorio di Esterzili, sulla propaggine meridionale
che dalla vetta del monte Santa Vittoria degrada verso Est, in
località Cuccureddì, su un breve spiazzo pianeggiante che si stende
a mo' di terrazzo irregolare tra i marcati scoscendimenti di un
rilievo abbastanza tormentato, è presente un edificio megalitico
rettangolare (…)”81.
Sotto
l'aspetto prettamente geologico il territorio della Barbagia di Seùlo
si caratterizza per alternanze
di metarenarie,
quarziti
e
filladi
relative ad età geologica incerta. Queste formazioni corrispondono
al n° 47b nella legenda della carta geologica. All'Ordoviciano
superiore e al Carbonifero inferiore corrispondono formazioni di
metapeliti
scure
carboniose
(Scisti
a
Graptoliti
Autoctoni),
corrispondenti al n° 50 in legenda. Questa è, segnatamente, la
natura geologica del territorio urbano di Esterzili, compreso in una
fascia lunga e stretta che si dipana per diversi km da NO verso SE;
questa fascia geologica prosegue, in questa direzione, con formazioni
di metaconglomerati,
metarcosi,
metasiltiti,
metagrovacche,
con Briozoi,
Brachiopodi,
Trilobiti,
Gasteropodi
ecc, corrispondente al n° 51 in legenda; Ad un complesso magmatico e
vulcano-sedimentario dell'Ordoviciano (successione
vulcano-sedimentaria della Barbagia), corrisponde una formazione di
metavulcaniti
intermedie
o
raramente basiche,
metagrovacche
vulcaniche,
metaepiclastiti,
metaconglomerati
e prevalenti elementi di vulcaniti acide,
metarioliti,
metaconglomerati
poligenici grossolani con prevalenti elementi di vulcaniti (n°
52 in legenda). Queste sono le formazioni prevalenti nel territorio
di Esterzili e della Barbagia di Seùlo, fra le quali un
approssimativo 40% a testa è relativo alle formazioni 47b e 52,
ovvero, in sintesi, Scisti e Conglomerati; si tratta di formazioni
metamorfiche e sedimentarie (come anche i calcari, anch'essi presenti
nella zona, segnatamente gli altipiani Taccu di Esterzili e Taccu
Elìnu82).
Lo
scisto è la pietra del Monte Cuccureddì, ed è con questa che è
stato edificato il megaron.
La
localizzazione degli insediamenti, vista nel suo insieme, li vede
concentrati in un'area compresa tra l'abitato di Esterzili e il
limite meridionale del suo territorio, dei quali un terzo dislocati
sugli altipiani. Del tutto o quasi priva di vita, in epoca nuragica,
sembra sia stata la parte opposta, a Settentrione di Esterzili. La
morfologia irregolare, che può aver impedito l'insediarsi di centri
stabili in quest'area, può essere una spiegazione accettabile ma non
l'unica83.
L'area meridionale dunque fu quella scelta per gli insediamenti. La
conformazione del territorio può aver giocato un ruolo nell'evitare
la zona settentrionale, segnatamente dalla valle dei Rio Sadali e
fino all'attuale paese omonimo, ma questa scelta, a mio avviso, più
che alla “tormentata morfologia”84
dell'area settentrionale, è dovuta invece a due ragioni concomitanti
nella zona meridionale; la prima è quella della sua conformazione:
“(…) una
zona, ad un dipresso triangolare, racchiusa tra il Rio Flumineddu, il
R. de Sàdali o Nuluttu e il Flumendosa (…)”85
Dove
il Rio Sadali a N e il Flumendosa ad O chiudono il territorio in
questione creando una sorta di vasto bastione facilmente
controllabile (considerando una distribuzione diffusa degli
insediamenti su tutto questo tavolato).
La
seconda ragione, la più importante, è il controllo dei giacimenti
minerari del Monte Nieddu. Lo sfruttamento delle risorse minerarie e
metallifere costituisce, in definitiva, la ragione principale degli
insediamenti in un terreno poco ospitale come questo. Il confronto,
da farsi sotto molti aspetti, è col territorio ad occidente del
Flumendosa, dirimpetto proprio al M. Nieddu (sito a SO di questo
vasto tavolato, ovvero sull'altopiano basaltico di Pran'e Muru, sul
quale sorge il Nuraghe Arrubiu di cui si dirà più avanti, in
relazione proprio all'attività mineraria del M. Nieddu).
Altra
cosa che deve essere segnalata, in questa disamina sul territorio di
Esterzili, è che la maggior parte dei nuraghi furono edificati sui
cigli degli altipiani lungo l'asse litoraneo del Flumendosa,
dall'altro lato del quale si trovano molti dei nuraghi del territorio
di Pran'e Muru86.
Una situazione che sembrerebbe, di primo acchitto, aver a che fare
con l'acqua come risorsa vitale.
“I
minerali essenziali che costituiscono il giacimento di Monte Nieddu
sono, in ordine di abbondanza, solfuri di ferro (Pirrotina), solfuri
di zinco (Blenda), solfuri di rame e ferro (Calcopirite) e solfuri di
piombo (Galena). I primi (pirrotina, calcopirite, blenda) sono
presenti nel livello inferiore in giacitura in ammasso o in grosse
lenti.”87
Questi
i risultati di una ricerca effettuata negli anni '50, e riportata da
Fulvia Lo Schiavo nell'articolo del volume sulla Tavola di
Esterzili88,
in merito ad un discorso sulle risorse economiche del territorio in
esame.
Ogni
considerazione relativa al “controllo” di questo territorio,
ovvero delle sue vie di transumanza, da parte delle genti che vi
risiedevano, acquista un senso, a mio avviso, solo se il suddetto
concetto di controllo è attribuito a vie e territori che si trovano
fuori dall'ambito geografico nel quale sono presenti gli
stanziamenti; ovvero di zone nelle quali esisteva la possibilità,
proprio perché estranee al controllo diretto degli insediamenti, di
conflitti con altre genti, conflitti generati esattamente dalla
possibilità di transitare in relativa sicurezza verso pascoli
pedemontani e pianeggianti, molto lontani dall'area geografica di
Esterzili presa in esame in questa sede. Infatti, se si considera
soltanto l'aspetto economico legato alla pastorizia, all'allevamento
e ai suoi prodotti, od anche alla coltivazione, è sensato pensare ad
una comunanza, se non ad una autentica osmosi di forma esistenziale,
fra le genti dei villaggi di tutto questo territorio, vario al suo
interno ma fortemente accomunato da precisi limiti geografici, come i
due fiumi che chiudono il bastione a Settentrione ed a Occidente, dal
clima, dalle possibilità di sfruttamento, e non ultimo da una
convivenza col più alto grado possibile di produttività.
Personalmente ritengo molto improbabili conflitti, all'interno di
quest'ambito, che superassero il limite dell'eccezione e
dell'episodicità.
Diverso
si fa il discorso quando si esce da quest'ambito geografico,
ristretto e vasto ad un tempo, e si considerano aree ad economia
diversa, segnatamente prevalentemente agricola, pianeggiante, abitata
e “controllata” da genti stanziali, con le quali la dialettica
poteva incontrare facilmente ragioni di conflitto, anche (ed in
qualche caso a causa), nell'ambito di rapporti di scambio di beni e
merci. Naturalmente, la ragione maggiore di conflitto, doveva essere
rappresentata dall'occupazione di terreni ricchi di pascolo da parte
dei “montanari”, ma di proprietà (effettiva o rivendicata, e le
cui forme sarebbero comunque tutte da studiare in merito all'epoca di
cui si parla), dei contadini stanziali; va da sé che la stanzialità
considerata nella sua essenza, implica un immediato concetto di
proprietà del territorio (a prescindere dai centri abitati e
considerando solo la stanzialità contadina di aree coltivate e non
abitate). Un'altra occasione di conflitto poteva, forse, verificarsi
con altre genti montane e dedite ad allevamento e pastorizia, ma
abitanti aree geografiche estranee, il cui tragitto verso le zone di
pascolo pianeggiante coincideva con quelle delle genti del territorio
di Esterzili. In questi (eventuali) casi, a meno che non
intervenissero lungimiranti ragioni di convivenza e sopportazione
reciproca (se non, addirittura, di qualche forma di sudditanza
dell'una o altra parte a causa di diverse possibilità economiche), i
conflitti potevano essere occasionali e pressoché innocui, oppure
abituali e ridotti a scambi ed accordi estemporanei ed episodici, o
perfino feroci ed endemici; in questo caso per tanto, parlare di
controllo
del territorio, assume un senso diverso e pregnante, che può
coincidere con fondamentali ragioni e possibilità esistenziali di
una popolazione, o di più popolazioni stanziate nello stesso
territorio, ed accomunate dalla stessa economia e speranza di vita.
Una
suggestione non priva di un certo fascino bucolico, come quella di
Maria Ausilia Fadda, che considerando la localizzazione del megaron
“(…)
in una posizione che permette il controllo del Gennargentu a nord e
del Sarrabus Gerrei a sud, alla confluenza di vie di transumanza che
favorivano i rapporti sociali, gli scambi e, quindi, la
frequentazione del luogo sacro da parte di numerosi pellegrini.”89,
andrebbe fatta con maggiore prudenza. Un controllo così vasto è
tutt'altro che da darsi per scontato, anche considerando una forza
d'attrazione di un centro di raduni religiosi, di portata così
vasta, come poteva essere il megaron,
nella sua posizione isolata e solitaria.
In
quest'ottica è utile prendere in considerazione le analisi
territoriali fatte dagli autori del citato volume sulla Tavola di
Esterzili90,
dove, benché il conflitto preso in esame rimandi a temperie storiche
ormai riguardanti rapporti politici, economici e sociali, molto
diversi da quelli protostorici, le direzioni dei movimenti delle
genti delle montagne a Meridione del Gennargentu potrebbero
rispecchiare quelle antecedenti la trasformazione sociale della
Sardegna operata dai romani, e rappresentare una realtà ancestrale
dovuta alla conformazione geografica di questa parte sud-orientale
dell'isola.
Questa
disamina sul territorio di Esterzili fa emergere una serie di
considerazioni assai complesse sulle scelte insediative, che
coinvolgono anche le presenze, ben più notevoli per quantità
paleodemografica e monumentale, del versante occidentale del
Flumendosa nell'attuale territorio di Orròli. Considerazioni che
saranno svolte più avanti.
Il
tempio
Il
megaron
di Esterzili è il più grande megaron
del Mediterraneo91.
Il ché è un elemento a sua volta foriero di riflessioni. Anche se,
a mio avviso, sarebbe opportuno classificare correttamente, con
parametri culturali dettagliati ma ad ampio spettro, i criteri di
definizione relativi al concetto di megaron.
La domanda pertanto sarebbe: cosa intendiamo quando definiamo un
edificio tempio
a megaron?
Il termine è in sé chiaro e piano: sala,
grande
stanza,
ed è riferito all'ambiente centrale (o all'unico), di dimensioni
doverosamente più grandi di quelle di altri ambienti sia dello
stesso edificio templare, eventualmente li avesse, sia di altri
edifici contigui o vicini, del tempio ellenico; da Troia alla Grecia
coloniale, cioè alla Magna Grecia, e fino alla Grecia periclea.
La
sala
era il luogo esclusivo di un rituale, o di più rituali, o anche di
momenti di altra natura ma sempre caratterizzati dall'elemento della
solennità. I rituali che vi si svolgevano rappresentavano l'atto
finale di una serie di operazioni preparatorie che potevano anche
svolgersi altrove, oltre che nel tempio stesso, e che avevano
carattere non pubblico92.
L'atto cerimoniale, al contrario, aveva sempre e per definizione un
carattere pubblico e ripetitivo (periodico).
Se
assumiamo, dunque, che i megara
sardi fossero loci
sacri,
avendo la stessa forma del Megaron ellenico, a prescindere dal tipo e
dalla forma di culto ivi esercitato, e che si trattava di luoghi di
interesse e partecipazione collettiva, potremmo probabilmente
considerarli dei megara
alla stregua di quelli ellenici originarî. Questo, tuttavia, non è
che un punto di vista; un altro potrebbe considerare in modo
esclusivo la cultura d'origine dell'edificio e dei culti, o meglio,
della cultualità ad esso associata ed in esso esercitata, ed
escludere, da questo insieme “ristretto”, altri edifici, per
somiglianti od architettonicamente coincidenti che siano, dal novero
del modello. Secondo questa visione dunque, i templi sardi, pur
considerando la loro ascendenza da quelli ellenici (ascendenza
comunque ancora da dimostrare in modo definitivo, anche se gli indizî
sono tali da lasciare poco spazio a dubbi), sono edifici che si
trovano in seno ad una cultura del tutto diversa ed estranea a quella
ellenica. I megara
sardi sembrano essere un elemento acquisito, per ragioni che
cercheremo di evincere in questa sede, ed inglobato tuttavia nel
ventre di una temperie culturale che ha cercato di assimilarli a sé,
estraniandoli a sua volta dalla loro cultura di provenienza. Possiamo
qui limitarci a considerare pertanto il megaron
di Esterzili come il più grande della Sardegna; quello con le
maggiori dimensioni fra i templi consimili dell'isola.
Il
rettangolo del tempio è molto regolare e misura nella sua interezza
22,50 m ca di lunghezza, in entrambi i lati lunghi, per 8 di
larghezza, alla base, e 7,80 in sommità residua la quale supera i 3
nel punto più alto. Fino a quell'altezza si contano nove filari di
massi parallelepìpedi molto regolari (lo scisto per la sua
conformazione lamellare permette di essere tagliato con molta
regolarità, nel senso della lunghezza delle “lamelle”). La
tessitura murale ne risulta per tanto molto ordinata, ed alterna
filari composti da lunghi blocchi (due dei quali, posti a SE,
misurano 1,50 m di lunghezza per 0,56 di larghezza e 0,40 di
spessore, e 1,33 per 0,62 per 0,26) a filari composti da blocchi di
minori dimensioni. L'edificio presenta un profondo pronao di 5,15 m
di lunghezza per 5 m di larghezza interna; attraversato l'ingresso
centrale si accede alla cella, o ambiente maggiore, di 8 m di
lunghezza per 4,50 di larghezza massima, mentre l'ambiente finale era
di dimensioni ridotte, in lunghezza: 3,50 m per 4,50 di larghezza.
L'ingresso che dal pronao porta alla cella centrale (che sarebbe il
megaron
propriamente detto), ha un'altezza di 3 m ca, una larghezza alla
sommità di 1,48 m e alla base di 1,70 ca., con pareti leggermente
arcuate. Chiuso in alto da un possente architrave di 1,92 m di
lunghezza per uno spessore di 0,37 m e una larghezza di 0,46 m in
asse si trova l'altro ingresso, di dimensioni uguali, che apre
all'ambiente chiuso in fondo. Un opistodomo con ante che superano di
poco il metro di lunghezza chiude la struttura a N-NE. L'edificio è
orientato dunque lungo l'asse SSO–NNE, con pronao ed ingresso
principale nel primo dei due cardinali.
Sul
perimetro dell'ampio pronao si trova una larga panchina sulla quale,
durante gli scavi del 2001, furono rinvenute delle statuine in bronzo
interpretate come ex
voto.
Una larga panchina cinge anche il perimetro intero della grande sala
interna, interrotto sul lato sinistro – Ovest – da una lastra
ortostatica che delimita un piccolo pseudo-ambiente interpretato come
ripostiglio e nel quale si è rinvenuta una statuina bronzea di
cacciatore che trasporta un muflone a spalla. In questo vano, inoltre
si rinvennero forme ceramiche come olle, ciotole, vasi e altri
recipienti in miniatura93.
Il vano finale, che chiude l'interno del monumento, è anch'esso
provvisto di panchina perimetrale.
Al
di là delle dimensioni, l'aspetto notevole ed interessante di questo
monumento è la conformazione dell'alzato: aggettante, come le
strutture murarie dei nuraghi. Osservando la struttura da S, ovvero
dal suo ingresso al pronao, si può notare come l'aggetto murario
inizî già dalla seconda fila di lastre; se si osserva inoltre la
rastremazione verso l'alto delle mura, come da tecnica consueta dei
costruttori nuragici, con lo spessore che aumenta mentre si sale, è
dunque lecito pensare, quanto meno, ad una volontà iniziale di
chiudere l'edificio con una falsa volta esattamente come i nuraghi.
Questo aspetto fu ben notato da Ercole Contu94,
il quale fu l'unico a trarne le debite conseguenze: quelle di un
aggetto che chiudeva l'edificio con la falsa volta del nuraghe. A
favore di questa ipotesi, lo stesso Contu, segnala un dato di
fondamentale importanza, soprattutto se considerato nel vuoto dovuto
all'assenza di dati di scavo; il cumulo di pietre che riempiva gli
spazi interni dell'edificio, vera e propria vasca di raccolta, si
mostrava di quantità troppo elevata perché quelle pietre potessero
far parte nient'altro che del tetto spiovente, retto da travi lignee.
Anche Fernando Pilia osservò l'aggetto delle mura e il cumulo di
materiale litico: “Il
monumento è attualmente ricoperto da macerie e da detriti per
un'altezza dal piano di campagna di circa tre metri
(…)”95,
ma senza trarne alcuna conclusione. L'osservazione di Pilia,
tuttavia, è interessante perché descrive come “detriti” e
“macerie”, riferendosi, ovviamente, alla parte sommitale
visibile, alla sua epoca, del crollo della struttura, senza rilevare
nessun ordine nella disposizione dello stesso. Lillìu96
e Fadda97,
ipotizzano una travatura centrale alla sommità interna della
copertura, con filari di altre travi98
collocate a distanze regolari e a doppio spiovente, sormontate da
lastre sulla sommità esterna a completare il tetto. Una soluzione
poco probabile in quanto una struttura così conformata non avrebbe
retto a lungo il peso, non controbilanciato, della parte terminale
dell'aggetto e della copertura. Infatti, o si ipotizza una falsa
volta nuragica tipica, senza (inutili in questo caso) strutture
lignee coadiuvanti, oppure si teorizza una serie di travature che, al
massimo, avrebbero retto un tetto di leggere lastre scistose poste in
uno spiovente particolarmente pronunciato (come infatti, e non a
caso, viene ipotizzato per i templi di Serra Òrrios, e utile a
scaricare sui muri verticali le forze della copertura); soluzione,
quest'ultima, smentita dalla citata elevata quantità di lastre
formanti l'enorme crollo dei vani, nonché dalla presenza
dell'aggetto stesso, a sua volta troppo pronunciato per giustificare
una sua interruzione, ad una certa altezza, sì da permettere
l'impianto dello spiovente, ligneo o lapideo che fosse. Mentre,
infine, entrambe le soluzioni insieme, come sembrano confusamente
ipotizzare sia Fadda che, in coda, Lillìu, rappresentano un non
senso.
Strutturare
un aggetto, per altro molto pronunciato, come è quello del tempio di
cui si parla, per poi non concluderlo secondo la sapiente e
sperimentatissima tecnica nuragica, ed impiantarvi addosso una
struttura lignea (fatta come? tripartita del tipo a capriata?), che
avrebbe dovuto reggere una copertura a lastre più sottili di quelle
che compongono la parte muraria del tempio, e/o integrarsi con una
copertura lapidea semplicemente addossata alla parte lignea,
presuppone una incapacità e confusione artigianale della quale,
fortunatamente, i costruttori nuragici erano del tutto esenti.
La
pur inusitata struttura rettangolare dei megara,
una volta assunta, non deve aver rappresentato motivo di confusione
costruttiva. I nuragici avevano almeno tre esempi sicuri dai quali
trarre un modello strutturale; uno era quello della capanna; ovvero
mura dritte (non in aggetto), interrotte ad una certa altezza, e da
quella l'impianto ligneo e stramineo a spiovere che formava la
copertura. La forma circolare delle capanne, e il cono della
copertura, conferiva certamente maggiore stabilità all'intera
struttura, anche grazie alle sue ridotte dimensioni rispetto a
edifici di grande mole, questa stabilità però era solo leggermente
ridotta in un impianto rettangolare come li tempio; per tanto, si
sarebbe trattato di un adattamento di scarse o nulle difficoltà
costruttive, e di un risultato statico se non eccellente quanto meno
soddisfacente. L'altro modello è quello dell'aggetto delle mura,
dunque quello della struttura nuragica, dei corridoi e degli ambienti
interni, in relazione all'andamento dello spessore murario. Anche in
questo caso, la forma circolare della struttura del nuraghe
(semplice, monotorre), conferiva un livello altissimo di stabilità
alla struttura, mentre la forma rettangolare aveva un grado maggiore
di fragilità. Tuttavia, e pur ammettendo un qualche ostacolo
concettuale (non manifatturiero), nel concepire e costruire la falsa
volta nuragica in linea retta anziché circolare, la desueta
conoscenza della tecnica, la sicurezza con la quale veniva messa in
opera, e infine l'esperienza della strutturazione dei corridoi a
volta in aggetto dei nuraghi complessi, portava senza dubbio a
risultati ottimi sul piano della stabilità generale della struttura.
Ma un modello ancora più carico di significato è quello
rappresentato dalle tombe di giganti del tipo più tardo, a struttura
isodoma, nelle quali l'aggetto, perfettamente eseguito, spesso con
conci perfettamente squadrati, era elegantemente disteso lungo il
corridoio rettangolare interno della tomba.
Con
questo non si intende affermare che mancasse un qualche spazio per
esperimenti costruttivi, eventualmente suggeriti ed ispirati da una
forma nuova ed esotica, com'era certamente il rettangolo del megaron,
ma che, al momento di decidere la struttura più efficace e robusta,
e dunque più stabile e resistente al tempo e ad altre forze
destrutturanti (naturali o meno), l'economia mentale e costruttiva,
concetti che possono ben tradursi con quello di esperienza,
portava verso scelte più sicure e conosciute, e ben sperimentate.
Ercole
Contu, nel chiudere la sua breve disamina, conclude coerentemente le
sue formulazioni, benché appena indiziarie, in merito alla struttura
templare di Esterzili, proponendo infine tre modelli per la forma di
chiusura alla sommità: “(…) Nel
nostro edificio l'aggetto notevole dei muri e il quasi completo
riempimento dei vani a causa del crollo mi fanno supporre che
l'aggetto stesso fosse completo, così che l'edificio stesso venisse
a presentare all'interno la falsa cupola propria dei corridoi
nuragici, e all'esterno una copertura lapidea semicircolare, come in
certe tombe dei giganti, oppure angolare a doppio spiovente o anche a
terrazza”.99
Forse,
un'attenzione maggiore alla quantità e qualità (in questo caso
dimensione e forma dei conci), del riempimento litico dei vani del
tempio, avrebbe aiutato anche a formulare un'idea plausibile sulla
forma di chiusura della copertura in sommità esterna.
Ancora
Contu, infine, fornisce anche un altro dato interessante, benché
facilmente reperibile semplicemente prendendo delle misure; quelle,
appunto, dello spessore murario alla base (sempre considerando i muri
delle ante meridionali, gli unici osservabili dallo studioso, liberi
da ostacoli), ovvero 1,32 m in rapporto con quelle in altezza massima
residua: 1,60100.
Se si considera l'altezza residua dei muri, che superano
abbondantemente i 3 m (l'altezza massima di oltre 3,5 m è da
considerarsi quella relativa alle due lastre che sormontano
l'architrave del primo ingresso da S), misurando l'inclinazione
interna dell'aggetto, si può tentare, con un accettabile margine di
errore, di ricostruire la curvatura dell'aggetto stesso, e dunque
l'altezza della falsa volta interna. Misurando, invece, la curva
dell'aggetto esterno, evidentemente meno accentuata di quella interna
(con uno scarto di 10/15 cm tra la base e l'altezza residua), è
possibile inoltre ridisegnare la forma complessiva del prospetto del
tempio, che doveva essere davver singolare nel panorama
dell'architettura mediterranea antica.
La
quantità di elementi lapidei che riempivano completamente i vani
dell'edificio, unita al forte aggetto delle mura, elementi osservati
per primo da Ercole Contu quando visitò e visionò il monumento nel
1948, rappresentano l'indizio fondamentale della composizione e della
forma della struttura originaria dell'edificio che, ricostruita
graficamente nel modo più corretto possibile, può svelare una forma
architettonica complessiva, non solo davvero inusitata, ma anche
rivelante un incredibile esempio di sintesi e sincretismo culturale,
tra forme rette e forme curve, poste in essere attraverso la tecnica
dell'aggetto, tra due concezioni costruttive praticamente opposte.
Il
megaron
era circondato da un recinto sacro, chiamato tèmenos,
in concordanza semantico-linguistica col termine megaron
col quale è definito il tempio, di forma ellittica, e del quale non
sono rimasti che i muri a raso; ha 48,50 m di diametro massimo e 28
quello minimo; si contano 7 m di distanza tra la curva meridionale e
il megaron
(in corrispondenza del suo profondo ingresso in antis
dunque), e 19 dall’opistodomo a N. 14 m dal lato orientale e 12,50
da quello occidentale. Lo spessore murario del recinto non si scosta
da 1,50 m ca101.
L'ingresso
del recinto è formato dalle mura curve di una capanna pertinente ad
un insediamento precedente, abbandonato verosimilmente già molto
tempo prima che sorgessero l'area sacra e il tempio al suo interno.
Dai resti di questo antico insediamento abbandonato provengono i
materiali più antichi presenti nel sito102.
Gremanu
Il
territorio
Sulle
pendici settentrionali del Gennargentu, in un sistema di colli e
valli fluviali ad Oriente di Fonni, il territorio nel quale sorge il
complesso di Gremanu non presenta particolari problemi
interpretativi, per lo meno non sotto l’aspetto insediativo.
L’intero complesso è sito sulla riva sinistra del Rio Gremanu,
alla base del colle Caravai, il quale discende dalla montagna poco a
Meridione, in un’ampia vallata a quasi sette km e mezzo a ESE di
Fonni. La vitale vicinanza e, dunque, il controllo dell’acqua, il
suo sfruttamento per tutti gli utilizzi possibili, da quello più
quotidiano ed elementare a quello cultuale, rappresentano, con ogni
evidenza, il punto centrale di ogni quesito sulle ragioni della
scelta insediativa in quest’angolo montano. L’elevata altitudine
dell’area insediata può, a sua volta, concernere l’elemento
idrico; evitare lunghi periodi di secca era a sua volta un modo
radicale per evitare le difficoltà associate ad essa. L’acqua,
come vedremo, è l’elemento principe dell’insediamento di
Gremanu, e qui ci sarebbe da chiedersi se l’insediamento fosse nato
in questa zona, scelta dunque con grande criterio, esattamente per le
sue caratteristiche e per la sua quantità d’acqua, tali da
soddisfare esigenze cultuali già in atto, o se queste non nacquero
proprio a causa di tanta abbondante disponibilità. Il culto delle
acque era una delle caratteristiche religiose della civiltà
nuragica, ma una simile strutturazione degli edifici e delle
infrastrutture del culto deve essere stata concepita qui, sulle rive
del Gremanu.
Se
consideriamo un triangolo di territorio che parte da Fonni ad
Oriente, per chiudere a Meridione col Monte Spada e SE con l’area
sacra e il villaggio (risalendo poi a Settentrione lungo il rio),
tracciamo un’area paesaggisticamente varia ed omogenea ad un tempo,
con colli alternati a brevi vallate, e chiuse ad Oriente dalla linea
del rio, che è quella con le minori altitudini, e che in ogni caso
non scendono sotto i 900 m di quota. Fonni e tutta l’area a ridosso
del Gennargentu a SSE, raggiungono e superano i 1000 m, mentre da
questa fascia pedemontana ad Oriente, verso il rio, le quote si
situano tra i 1000 e, appunto, i 900 m. Il complesso sacro, dove si
trova il megaron,
è a 954 m di quota, mentre le fonti, a 264 m di distanza dall’area
sacra, leggermente più a monte, ovvero a SSO della stessa, sono a
998/5 m s.l.m., con una quarantina di metri di dislivello dunque,
rispetto all’area sacra. Dislivello ben sfruttato per il convoglio
delle acque verso l’area sacra stessa ed il villaggio103.
Gettando
uno sguardo sulle carte pedo-geologiche, si segnalano per questo
territorio le Unità
di Paesaggio
3, 6, 7, 11, 12 (unità
di paesaggio e substrati),
corrispondenti alle seguenti classificazioni:
3
= unità di paesaggio “B1”
|
Aree
con forme aspre e pendenze elevate, prevalentemente prive di
copertura arbustiva ed arborea.
|
6
= unità di paesaggio “B4”
|
Aree
con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sopra di 800-1000 m,
con scarsa copertura arbustiva ed arborea.
|
7
= unità di paesaggio “B5”
|
Aree
con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sopra di 800-1000 m,
con scarsa copertura arbustiva ed arborea.
|
11
= unità di paesaggio “C4”
|
Aree
con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sopra di 800-1000 m,
con scarsa copertura arbustiva ed arborea.
|
12
= unità di paesaggio “C5”
|
Aree
con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sopra di 800-1000 m,
con prevalente copertura arbustiva ed arborea.
|
Le
Classi
di Capacità d'Uso
per questi suoli sono: per l’Unità
di Paesaggio
3: VIII–VII; rispettivamente, VIII; suoli
che presentano limitazioni tali da precludere qualsiasi uso
agro-silvo-pastorale (...)
o [da
utilizzarsi]
come zona di raccolta delle acque. In questa classe rientrano anche
zone calanchive e gli affioramenti di roccia,
e VII;
suoli
che presentano limitazioni severissime, tali da mostrare difficoltà
anche per l'uso silvo pastorale. Per
l’Unità
di Paesaggio
6: VII; v.
supra.
Per l’Unità
di Paesaggio
7: VI–VII–IV; rispettivamente, VI; Suoli
che presentano limitazioni severe, tali da renderli inadatti alla
coltivazione e da restringere l'uso, seppur con qualche ostacolo, al
pascolo, alla forestazione o come habitat naturale,
e VII;
v. supra,
e IV; suoli
che presentano limitazioni molto severe, tali da ridurre
drasticamente la scelta delle colture e da richiedere accurate
pratiche di coltivazione.
Per l’Unità
di Paesaggio
11: VII–VI; rispettivamente, v.
supra,
e idem.
Per l’Unità
di Paesaggio
12: VI–VII; rispettivamente, v.
supra,
e idem.
Le
Limitazioni
d'Uso
sono così descritte per queste tipologie di suolo: 3; Rocciosità
e pietrosità elevate, scarsa profondità, eccesso di scheletro,
forte pericolo di erosione.
6; A
tratti; idem.
7; idem.
11; idem.
E 12; idem.
Sintetizzando
questi parametri pedologici, emergono suoli poco e nulla adatti
all’agricoltura, se non per qualche coltivazione sporadica e non
intensiva, e maggiormente adatti al pascolo. Solo alcuni dei suoli
qui classificati (segnatamente una parte dell’Unità
di
Paesaggio
nº 3), e che corrisponde ad una piccola fetta del territorio preso
in esame (a S dell’insediamento), sembra inadatto, secondo queste
classi di suoli, anche al pascolo.
Sotto
l'aspetto prettamente geologico il territorio preso in esame si
caratterizza per Alternanze
di metarenarie,
quarziti
e
filladi
relative ad età geologica incerta. Queste formazioni corrispondono
al n° 47b nella legenda della carta geologica, ed alla parte
meridionale dell’area indagata, segnatamente il Monte Spada. La
parte maggiore è occupata da un basamento
ercinico,
che si estende per un vasto territorio montano interno, occupando
tutta la Barbagia di Ollolài
e a Settentrione la zona di Nuoro fino a lambire i territori di
Benetutti e Nule. Si tratta di un complesso
intrusivo, filoniano del Carbonifero Superiore-Permiano;
segnatamente Granodioriti
monzogranitiche inequigranulari;
il granito della Barbagia. Pietra usata, benché non l’unica, per
le strutture dell’insediamento di Gremanu. L’esatta porzione
geologica, sul cui suolo sorge l’insediamento, che corrisponde al
nº 31 nella mappa, è un complesso
metamorfico ercinico in facies scisti verdi e anchimetamorfico.
Una successione dell’Ordoviciano
superiore-Carbonifero inferiore.
Le cui rocce sono Metagabbri
alcalini, Filladi scure carboniose, metasiltiti, quarziti nere con
rare e sottili intercalazioni di marmi.
Una sottile fascia a ridosso del rio, esattamente poco più in basso
dell’area sacra, nº 1 della mappa, è un deposito
quaternario,
formato di ghiaie,
sabbie, limi e argille sabbiose di depositi alluvionali, colluviali,
eolici e litorali, travertini104.
Sul
Monte Corr’e Boi sono presenti miniere di piombo, e il piombo è
stato largamente usato dagli architetti nuragici di Gremanu;
tuttavia, indagini chimiche sui reperti plumbei rinvenuti nelle aree
dell’insediamento hanno dimostrato trattarsi di metallo proveniente
dall’Iglesiente105.
Questa scoperta apre scenarî
interessanti e pone alcune problematiche di difficile soluzione; i
nuragici non erano carenti di tecnologia e capacità estrattive,
nonché di conoscenza degli indizî necessari a riconoscere una
presenza di filoni metalliferi; verosimilmente non potevano valutarne
la portata se non dopo aver iniziato lo sfruttamento, ma è lecito
pensare che gli abitanti di Gremanu avessero individuato le risorse
del Corr’e Boi, a poco più di 4 km e 600 m dal loro insediamento
(in direzione SSE), alle pendici orientali del Gennargentu e a poco
più di 1000 m di quota, ed avessero iniziato a sfruttarle
sistematicamente. Allora perché importare piombo dall’Iglesiente?
Le miniere del Corr’e Boi furono sfruttate fino agli anni ’50 del
secolo scorso106,
per tanto non si trattava di giacimenti di scarso valore quantitativo
né, evidentemente, qualitativo. “(...) molti
filoni sono ancora visibili in superficie.”107;
questo farebbe scartare anche ipotesi relative a difficoltà
estrattive di un’epoca con tecnologia primitiva (a meno che i
filoni tutt’ora visibili non siano tali a seguito delle moderne
attività di estrazione, e si trovassero, invece, a profondità
troppo elevate all’epoca della vita dell’insediamento di
Gremanu). Dal momento che, nelle attuali condizioni relative alla
conoscenza di questa situazione, cioè sull’antichità delle
miniere del Corr’e Boi, sono possibili nient’altro che
congetture, è preferibile attendere dati più cospicui, e
considerare, d’altra parte, gli scenarî che si aprono di fronte al
piombo iglesiente rinvenuto a Gremanu. Una prima riflessione è
relativa alle capacità di spesa dei Gremanesi; è chiaro che
avessero merci da scambiare con gli Iglesienti (o con loro
intermediarî, probabilmente mercanti a loro volta), è meno chiaro
quali merci scambiassero, o con quale “moneta” pagassero il
piombo proveniente da una zona tanto lontana. Il piombo era
certamente un metallo ricercato, duttile, utile a molteplici
utilizzi, ma meno prezioso del rame, ad esempio, o del ferro.
Esistevano giacimenti sfruttabili, all’epoca, ed in questi paraggi,
di questi ben più ricercati metalli? E che potessero costituire, ad
esempio, un’adeguata contropartita per il piombo (considerando
tuttavia le debite proporzioni quantitative, relative alla differente
qualità fra questi metalli)? All’incirca nella stessa area delle
risorse minerarie di piombo, la carta metallogenica della Sardegna
segnala giacimenti di zinco e rame, tuttavia ben poco in confronto
alle risorse minerarie e metallurgiche dell’Iglesiente, per tanto,
anche supporre uno scambio in metallo sonante, potrebbe risultare una
supposizione di ben poco costrutto. Probabilmente, e considerata una
capacità di esportazione di metalli, per l’Iglesiente, molto
maggiore che per quasi tutto il restante territorio isolano (e
principalmente tutta la metà settentrionale dell’isola;
dall’altezza del Golfo di Orosèi a N, e compreso tutto il
Campidano), una capacità che doveva essere accompagnata anche da una
certa esperienza estrattiva; per gli abitanti di Gremanu doveva
risultare più economico, per un qualche intrico di ragioni, comprare
il piombo iglesiente, piuttosto che estrarlo con le loro mani a due
passi dalle loro case. Assumendo questa ipotesi, emergono altri
quesiti. Il primo è relativo al “costo” del piombo. Ovvero al
suo valore relativo. L’utilizzo che se ne fa a Gremanu,
segnatamente come fissante all’interno di basi litiche per offerte,
nei cui fori il piombo è stato ritrovato (all’interno del megaron
e dell’edificio circolare dell’area sacra), ed in verghe usate
per unire blocchi di basalto e trachite della vasca rettangolare, nel
settore a monte (dei pozzi e delle fonti)108,
non è particolarmente indicativo nella ricerca del suddetto valore
(benché nel secondo caso, l’uso come legante, in una struttura
architettonica, potrebbe avere un carattere di urgenza maggiore che
quello relativo all'utilizzo come base per stabilizzare spade votive
all’interno di blocchi scolpiti per questo scopo). Potremmo
parlare, per tanto, di un utilizzo secondario,
ovvero di non primaria necessità. Un elemento che non era
indispensabile procurarsi, e per il quale non era affatto necessario
uno sforzo eccessivo delle capacità di spesa di cui, evidentemente,
i Gremanesi, erano in possesso. E tuttavia, risorse di un certo
grado, benché difficilmente qualificabile e quantificabile, se ne
andavano per questo scopo così sofisticato, senza dimenticare di
mettere nel conto anche i costi del trasporto.
Questo
particolare utilizzo del piombo, d’altra parte, unitamente alle
altrettanto sofisticate e raffinate strutture architettoniche
costruite dai Gremanesi, dipingono un quadro di buone, se non ottime,
capacità e possibilità economiche. Mentre, il notevole livello di
evoluzione tecnologica, rivelato dagli impianti di Gremanu, a sua
volta denuncia uno stato di cognizioni e conoscenze che, se devono
necessariamente avere, come base, un notevole, se non alto, livello
di vita, segnano anche la cifra di cognizioni che, pur tutt’altro
che estranee alla cultura nuragica (a prescindere dall’unicità
degli impianti idraulici di Gremanu), per essere mantenute e per
giungere a determinati livelli evolutivi necessitano di tempi
sufficientemente lunghi di benessere e di pace
sociale.
Il
piombo poteva avere, dunque, un valore economico medio (quando non
basso), per lo meno rispetto a metalli più nobili (rame e ferro),
date anche le sue limitate possibilità d’uso, ed era anche
tutt’altro che indispensabile, a differenza di questi. Se
immaginiamo una comunità nuragica che per qualche ragione avesse
avuto ridotte capacità di spesa, è facile immaginare che facesse
comunque uno sforzo di qualche tipo per acquistare il metallo,
segnatamente il rame o il bronzo in panelle o pelli di bue, o il
ferro, non lavorato, utile a fabbricarsi i propri utensili, o
addirittura (forse meno probabilmente), il prodotto finito (armi,
oggetti di culto). E questo sforzo supponeva, d’altra parte, la
rinuncia ad elementi non strettamente indispensabili, come ad esempio
il piombo per scopi simili a quelli segnalati a Gremanu.
In
quest’ottica, il valore medio
del piombo, è relativo ad un elemento utile ma non indispensabile,
la cui presenza, per scopi secondari
come quello di Gremanu (ma non solo di Gremanu), denuncia un surplus
di capacità di spesa, ovvero uno status,
un tenore economico elevato, o comunque ben al di sopra del livello
di sopravvivenza.
Un
altro utilizzo di questo metallo grigio ed opaco, era quello di
coadiuvo nella lega di rame e stagno per la fabbricazione del bronzo.
E questa considerazione riporta il problema al punto di partenza; di
quali risorse erano in possesso gli abitanti di Gremanu per sostenere
il loro tenore di vita? In assenza del piombo iglesiente la risposta
sarebbe facile (benché tutta da dimostrare in ogni caso): il piombo
del Corr’e Boi. Magari venduto a genti esterne, non sarde. Ma i
Gremanesi erano importatori, a quanto pare (o lo divennero ad un
certo momento), e non esportatori di piombo. È probabilmente da
escludersi, ad esempio, che la merce di scambio avesse a che fare con
prodotti dell’allevamento (benché si possano considerare, magari
come prodotti d’accompagno, legati alla pratica dello
scambio-dono). Anche considerando che alcuni di questi (ad esempio le
pelli conciate), fossero dotati di una lunga resistenza al tempo e
capacità di conservazione, è difficile credere che gli abitanti
dell’Iglesiente esportatori di metallo non avessero possibilità di
approvvigionamento da aree a loro contigue, o non soddisfacessero
essi stessi questo fabbisogno.
Capovolgendo
il punto di vista, in merito alle capacità economiche dei Gremanesi,
si può anche a buon diritto pensare ad una sorta di autosufficienza,
relativa alle risorse alimentari ed ai prodotti dell’allevamento e
della pastorizia. Il territorio montano, ricco di sorgenti idriche e
di pascoli, forniva l’ambiente ideale per una sorta di felice
isolamento. I contatti con l’esterno, come ad esempio quello con
gli Iglesienti, direttamente o per tramite di altre genti, poteva
avere una natura non necessaria alla sussistenza, pur potendo essere,
eventualmente, un rapporto continuo, anche se non sistematico.
L’approvvigionamento del loro piombo, in questo scenario, poteva
perfino rientrare in un ampio e complesso sistema di rapporti
commerciali e politici, le cui dinamiche sarebbero, eventualmente,
tutte da studiare, tra diverse aree della Sardegna nuragica, e che
non comportasse per forza un rapporto diretto ed esclusivo fra
contraenti109.
Il
villaggio di Gremanu, a ridosso dell’area sacra negli immediati
pressi del rìo, conta un centinaio di capanne110,
che anche non fossero tutte abitazioni familiari, rendono merito di
un insediamento numeroso e florido.
Il
sito e il megaron
Non
si può parlare del tempio a megaron
di Gremanu senza parlare, anche in una breve panoramica, dell’intero
complesso insediativo.
Il
sito di Gremanu si dispone su due settori distinti ma connessi; in
quello più a monte si è sviluppato lo straordinario sistema di
captazione dell’acqua, e dunque di fonti, pozzi e un acquedotto
ipogeico che univa queste strutture, e poi convogliava l’acqua a
valle, nel secondo settore, quello dell’area sacra. L’acquedotto
è l’unico esempio conosciuto, di età nuragica, nell’isola111.
Uno degli aspetti più apprezzabili – uno dei tanti – in seno a
questa eccezionale opera di ingegneria, è la scelta oculata del
materiale litico impiegato; accanto al granito locale, usato
principalmente per le strutture esterne dei pozzi, si trovano
elementi in basalto e steatite, usati segnatamente per le canalette
di convoglio dell’acqua tra un bacino di raccolta e un altro,
perfettamente incastrate in un’opera di raffinato artigianato. Una
vasca quadrangolare, adiacente al terzo bacino, è delimitata da
conci in basalto a ”T”, con superfici lisciate a scalpello;
questi blocchi erano legati tra loro con verghe di piombo ed altre in
legno. Il pavimento della vasca era in trachite e tufo, in conci
anche questi perfettamente legati fra loro. L’uso di rocce
vulcaniche, come la trachite e il basalto, per le canalette sulle
quali l’acqua doveva scorrere ininterrottamente, e il pavimento
della vasca, presupponeva una conoscenza pregressa delle qualità di
resistenza alla corrosione dell’azione idrica, e questa conoscenza
portò gli ingegneri di Gremanu a spostarsi, probabilmente verso la
media valle del Tirso, per procurarsi questa pietra, assente nel loro
territorio.
Il
secondo settore è quello del villaggio e dell’area sacra.
L’elemento
protagonista dell’area sacra, sotto l’aspetto monumentale e
semantico, è il recinto. A differenza di quello che circonda altri
megara
in altre località, questo impone solennemente la sua presenza come
elemento derimente le competenze pubbliche e private, sacre e
profane. Il recinto è il luogo sacro, al suo interno stanno le varie
competenze, ma non in primo piano. A Gremanu, il recinto è
l’edificio sacro.
Ha
una forma irregolare; semi-parallelepìpeda per quasi tutta la sua
lunghezza (cioè un lungo rettangolo irregolare), da N per due terzi
verso S, che è la direzione pressoché esatta del tèmenos.
Da lì si diparte un’ellissoide incompleto che si apre al centro
con un ingegnoso ingresso, il tutto per una lunghezza totale di 70 m
ed una larghezza massima di 20 m ca. Le proporzioni tra le parti sono
comunque simmetriche benché non regolari, e benché la simmetria sia
spezzata, quasi all’angolo NE, dal primo edificio, circolare, il
quale interseca il muro del recinto ma rimane fuori da questo per la
sua totalità.
Questo
grande recinto è diviso in tre parti, o mega-ambienti; da Meridione,
sulla parte conformata ad ellisse, si apre un ingresso con ante
curvate verso l’interno, dal quale si accede ad uno spazio ampio
marginato all'interno da un sedile. Questo particolare, che fa
pensare ad un appoggio per offerte votive, o forse, più
probabilmente, ad un semplice sedile collettivo, porta ad
interpretare questa platea come un luogo pubblico, al quale era
dunque permesso l’ingresso alla popolazione del villaggio, le cui
capanne stanno intorno al recinto, oggi nascoste dal bosco di
roverelle. Questo grande ambiente aperto è delimitato a N da due
capanne, alle quali si accede da questo stesso spazio, cosa che fa
pensare, anche per questi due ambienti, ad un uso o “permesso”
pubblico. Fra queste due capanne rotonde si stende un breve muro
aperto al centro, apertura dalla quale si accede allo spiazzo
centrale, rettangolare e vasto, che fa supporre essere stato un altro
spazio di raduno, la cui relazione con il primo ambiente resta tutta
da valutare. Da qui si accede all’ultimo grande spazio, a
Settentrione, tramite due stretti ingressi, di cui uno centrale ed
uno posto all’estrema sinistra per chi si dirige in questa
direzione, adiacente al muro perimetrale occidentale del recinto. Un
terzo ingresso porta direttamente all’interno del primo edificio
che si incontra procedendo sempre verso Settentrione; un ambiente
rettangolare absidato, di 10 m di lunghezza, il cui lato occidentale
coincide con quello del muro del tèmenos,
e con due ante murarie interne. Questo è il c.d. “tempio C”,
rinvenuto nel 1997. La particolarità di questo ambiente sta nella
pavimentazione della parte di fondo, absidata, dove i conci in
granito sono disposti a cerchio e degradano verso il centro a formare
una conca, verosimilmente adibita alla raccolta dell’acqua. Le due
ante, solo parzialmente conservate, sembra potessero servire a
chiudere questa vasca, che si può interpretare come ambiente per
abluzioni rituali. Il fatto che questo edificio sia l’unico al
quale era (ed è) possibile accedere direttamente dal secondo
ambiente del tèmenos,
e benché sia fisicamente inserito nel terzo, in realtà, e proprio
per il suo ingresso, è da “assegnare”, per così dire, a questo
spiazzo centrale, del quale forma una sorta di prolungamento carico
di significato: un significato – o una semantica – duplice; il
tempietto con vasca rotonda si trova, fisicamente, tutto all’interno
del terzo ed ultimo grande ambiente a N del tèmenos,
ovvero un ambiente ad alta valenza sacrale, come è evidente dalla
presenza dei due maggiori edifici sacri (templi A e B). Questa
sistemazione conferisce anche al tempio C una particolare valenza
sacra. Il suo solo ingresso, tuttavia, si trova nell’altro ambiente
del tèmenos,
quello adiacente, a Meridione, come se questo fosse il primo ambiente
sacro al quale si accedeva, per una prima fase del culto,
propedeutica a quelle più importanti. Un lavaggio rituale? Una
purificazione
previa ad azioni da compiersi in condizioni esclusive di purezza?
Immaginando un culto (un’azione
cultuale,
meglio, o rituale),
vediamo dei fedeli, singolarmente o a piccoli gruppi, dirigersi verso
un bagno rituale nella vasca dell’edificio. Da lì in poi, nel
terzo ed ultimo grande ambiente settentrionale del tèmenos,
gli offici ed i culti entravano nella loro fase conclusiva. Che
quest’area fosse appannaggio esclusivo di una qualche casta
sacerdotale è ipotesi praticabile ma non esclusiva; nulla esclude di
pensare, infatti, allo stato attuale delle conoscenze, che i compiti
sacri fossero praticati da esponenti della comunità privi, tranne in
questa occasione, di qualsivoglia ruolo sacerdotale, o che questo non
fosse disgiunto da altri nella vita “laica” della comunità112.
Il concetto di recinto sacro, tèmenos
appunto, separato,
sacer,
resta valido in quanto considerato come luogo separato dal villaggio
abitato, nel quale gli ambienti (le capanne), erano vissute ogni
giorno. Ma stabilire lo stesso criterio categorico per gli abitanti
di una comunità risulta molto meno facile.
Pressoché
al centro di quest’ultima parte del grande recinto sta il megaron.
Si
tratta di un rettangolo irregolare, di 11,50 m ca. di lunghezza per
5,50 m ca. di larghezza. Con opistodomo e pronao ma non a doppio
antis
(presente
solo sul retro), anche se la chiusura verso l’interno (a formare un
ingresso) delle ante anteriori, può esser vista come una locale
interpretazione dell’ingresso aperto del tempio ellenico. Dal punto
di vista strettamente architettonico non si può parlare, in questo
caso, di doppio antis,
ma è da ritenersi che la chiusura verso l’interno dei lati del
pronao sia da attribuire ad una deriva pregressa di un dato modus
aedificandi
più che ad una precisa volontà di non strutturare le due ante
d’ingresso. La struttura è costruita con filari irregolari di
granito, e l’intero edificio ebbe una scarsa cura in merito alla
regolarità delle sue parti. Il pronao è dunque un ambiente, di 2 m
di lunghezza per 2,60 di larghezza, con ingresso rettangolare e
rettilineo di meno di un metro di larghezza. L’altezza massima
residua dell’intero edificio è di 2,35 m. Un altro ingresso
rettangolare e rettilineo, delimitato da due ante di misure
irregolari (85 per 70 cm), immettono ad un ambiente di 4,80 m di
lunghezza e 2,80 di larghezza. Di un’ottantina di cm sono le due
ante posteriori esterne.
All’interno
del vano grande del megaron
è emerso un muro di blocchi di trachite rosa, ben modellata,
appoggiato al muro di fondo lungo 3,30 m, con 30 cm residui d’altezza
e con andamento obliquo. In corrispondenza del muro di fondo restano
4 filari mentre solo 3 e poi 2 verso la parte opposta, con blocchi
frammentari a causa dell’azione del calore e delle escursioni
termiche. I blocchi di questo singolare muro interno erano tenuti
insieme da verghe di legno, fissate con argilla fluida colata,
infisse all’interno di solchi scolpiti nel senso della lunghezza al
centro del blocco trachitico, in contiguità col blocco adiacente.
Altre verghe ritrovate negli incastri erano in piombo. Lo stesso muro
di fondo presenta tracce di azione ignea, così come il pavimento; in
questo si conservano resti di terra carboniosa mentre le pareti del
muro hanno le superfici calcinate. Sempre dall’interno del tempio a
megaron
(detto tempio B), si rinvennero numerosi frammenti della stessa
trachite rosa, con le superfici esterne incise con un motivo
geometrico che disegna tanti angoli inscritti, concentrici, e
formante una base circolare troncoconica, a blocchi sovrapposti,
interpretata come altare da chi ha scavato il tempio113.
Le pareti presentano ancora resti di intonaco che sembrerebbe averle
ricoperte per intero; la sparizione dell’intonaco ha evidenziato
una cura, nel comporre il tessuto murario, nettamente inferiore a
quella posta per le strutture idrauliche summenzionate, o anche
rispetto al muro in trachite interno al tempio. Basi in trachite
dall’interno del tempio erano usate per contenere spade, con fori
appositi, e altri fori più grandi per contenere statuine.
All’interno di queste basi era colato il piombo perché fungesse da
elemento di stabilità per gli elementi inseriti. Diverse spade
frammentarie furono rinvenute nei crolli del tempio e fuori, nel
recinto. Altri frammenti di spade sono ancora inglobati nelle basi
trachitiche tenute ben fisse dal piombo. Un concio a “T” conserva
la lingua da presa e una parte di lama di una spada del tipo
Allerona, le cui condizioni di ritrovamento non permettono di
ristabilire una sicura collocazione originaria all'interno del
tempio114.
Questo
megaron,
a differenza di quello di Esterzili, presenta più problematiche per
quello che ha restituito al suo interno che per la struttura in sé.
Mura in conci sub-quadrati e sub-rettangolari in granito, legati con
un sottile strato di argilla tra le facce combacianti dei blocchi
sovrapposti115.
Mura dritte, le cui differenti altezze residue sono minime (a
prescindere dai restauri) e fanno pensare, data anche la scarsissima
quantità di blocchi murari ritrovati all’interno e intorno alla
struttura, ad una copertura straminea, verosimilmente a spiovente,
sul modello delle capanne; anche se questa soluzione potrebbe
contrastare, a causa del materiale infiammabile di un tetto in travi
di legno, con l’attività ignea che si svolgeva all’interno del
tempio nel lato occidentale del vano interno. Questa è di natura
ancora da definire; sembrerebbe fusoria e rituale insieme, ma che
certamente, nel focolare e nell’area che lo conteneva, doveva
raggiungere temperature molto alte, dal momento che ha danneggiato i
blocchi trachitici ed anche, fondendone le parti in silice, il muro
di fondo in granito. In ogni caso, l’edificio, doveva aver avuto
una copertura che non impedisse al fumo di uscire, e che impedisse al
fuoco di bruciare oltre la zona nella quale era confinato. L’elemento
singolare è che il focolare, qualunque fosse la sua natura116,
era situato in posizione asimmetrica, cioè non centrale, a ridosso
della parete occidentale dell’ambiente maggiore del tempio. La
singolarità riguarderebbe proprio la copertura, che avrebbe avuto,
stando così le cose, un’apertura laterale e non centrale per lo
sfogo dei fumi e, in qualche caso, delle fiamme. Un accorgimento che
permettesse questa soluzione non è comunque in contrasto con una
forma simmetrica della copertura, come quella a doppio spiovente.
Il
megaron
di Gremanu non è un edificio che spicca per importanza rispetto a
quelli adiacenti; anzi, sembra certamente “minore” rispetto, ad
esempio, a quello circolare sito subito ad Oriente, ma soprattutto,
come già affermato, rispetto all’intero tèmenos.
Se si vuole analizzare il megaron
di Gremanu si deve analizzare il grande e complesso recinto sacro che
lo contiene.
Anche
in questo i Gremanesi si sono mostrati particolarmente originali; al
momento di concepire un’area sacra, è il complesso dei rituali,
con la loro relativa importanza e, certamente, ciclicità, il fattore
guida che ha mosso le loro azioni per la strutturazione delle varie
parti dell’area, tenendo conto, contemporaneamente, della
connessione tra queste. Gli elementi che compongono l’area sacra
non hanno nessun carattere di protagonismo singolo, non spiccano,
presi in sé, rispetto a nessun altro; l’eventuale maggiore
importanza di uno rispetto ad un altro (per altro non celata),
un’importanza relativa dunque, è palesemente espressa unicamente
dal compito e dal ruolo che è chiamato ad effettuare, piuttosto che
dall’edificio in sé, per forma o dimensioni117.
L’elemento
protagonista, all’interno dell’intera area sacra, è la dinamica
che questa esprime, e che suggeriva a chi partecipava, sacerdote o
laico astante che fosse, al culto – o ai culti – che si
svolgevano al suo interno. Altro elemento preponderante è la forte
capacità di aggregazione che l’area suggerisce, e che gli
architetti che la progettarono dovevano avere ben presente nelle loro
intenzioni. È questa la semantica globale di questa iper-struttura,
all’interno della quale stanno le diverse e specifiche semantiche
parziali.
La
prima è quella dell’ingresso principale (che poi è anche
l’unico), al tèmenos.
La forma allungata e curva delle ante, quasi arricciate verso
l’interno dell’ambiente al quale immettono, invita ad una
fluidità nell’entrare, che se si considera un’architettura
essenziale, fatta solo di strutture ridotte al minimo indispensabile
di utilità, risulterebbero del tutto superflue e ridondanti. Qui, al
contrario, il simbolismo delle forme è più importante della loro
pura essenza. Un ingresso, per tanto, non deve solo marcare l’assenza
di un divieto di transito, con una semplice apertura, ma deve
principalmente invitare al passaggio. Solo questo – per altro
semplice – simbolismo delle forme, può giustificare la
conformazione dell’ingresso al tèmenos
di Gremanu118.
Altro
elemento carico di semantica è il grande spiazzo, cintato
all’interno dalla panchina, che si apre una volta passato il breve
corridoio dell’ingresso. La sua sola forma, ellittica, è il
simbolo universale del contenitore,
in questo caso, di fedeli. La fugace ed implicita iniziazione
simbolica che si era espressa all’atto dell’entrata, è ora
attiva nel disporsi in questo vasto piazzale, dove non ci sono angoli
nei quali appartarsi. La sua forma fa pensare precisamente ad un
luogo di riunione libera e di attesa insieme. Gli atti rituali veri e
propri non hanno ancora avuto inizio, ma si è già dentro una
condizione di sacralità che allontana, per un tempo debito e
controllato, i compiti quotidiani. Il momento di aggregazione e di
coesione sociale doveva esprimersi, in questa platea, al suo massimo
grado. Voluto o sottinteso che fosse, era questo il suo autentico
scopo119.
Da
qui in poi entriamo nell’area degli atti rituali veri e propri, che
probabilmente ci sfuggiranno per sempre. Tutto quello che possiamo
razionalmente tentare è provare ad individuarne una dinamica di
massima, osservando le strutture che li ospitavano.
Prima
di entrare nell’area centrale del recinto, conformata a rettangolo,
è necessario considerare i due ambienti circolari, perfettamente
eseguiti e forse gli unici dell’intera area ad esprimere una certa
cura nell’esecuzione (ad eccezione dell’ultimo ambiente a NE).
L’ambiente occidentale è di dimensioni maggiori di quello
orientale, e si aprono entrambi sull’area ellittica, cosa che
legittima a considerare un loro uso da parte dei fedeli;
probabilmente due aree adibite a servizi di qualche tipo; forse vi
erano depositati o solo momentaneamente lasciati degli oggetti, o al
contrario contenevano oggetti da utilizzarsi per il culto. La
bibliografia relativa agli scavi non riporta nessuna informazione
circa eventuali rinvenimenti in queste due aree chiuse.
Questi
due ambienti sono divisi da un muro che parte dal centro dei loro
cerchi (considerato l’asse S-N), e li separa fisicamente, per una
buona metà, dall’area ellittica. Questo muro è aperto al centro,
e in questo caso sì che l’apertura non è nient’altro che quello
che si può definire assenza
di divieto di transito;
una semplice apertura, come tutte quelle che seguiranno.
L’area
centrale, un rettangolo irregolare, è a sua volta uno spiazzo aperto
e pressoché vuoto, ovvero privo di strutture architettoniche
qualificanti, che sembra avere come unico scopo quello di immettere i
fedeli ad una avanzata fase del culto. Nel lato N-orientale di
quest’area si apre un ambiente; il tempio C, del quale si è già
parlato120.
A
lato del muro occidentale di questo tempio, o vasca per abluzioni
rituali, si apre un ingresso; all’angolo occidentale del muro che
chiude questo mega-ambiente centrale rettangolare, sta un’altra
apertura. Entrambe immettono all’ultimo spiazzo del recinto, chiuso
a Settentrione in forma rettangolare. Due aperture dunque, a
differenza che nell’ingresso alla seconda area del recinto. La
lettura semantica è quella di uno spazio (il secondo, l’area
centrale), nel quale si entra da un solo ingresso perché è un’area
dalla quale si esce solo a rito compiuto. Mentre le due aperture
verso la terza area, segnatamente quella dei templi, indicano due
diverse direzioni di traffico, quasi a turni regolari, verso la zona
dei templi; ingresso e uscita. La lettura indica un ingresso, il
compiersi di un’azione rituale, in uno o in entrambi gli edifici,
ed un’uscita una volta concluse le azioni rituali. Due aperture
sembrano indicare che mentre chi ha compiuto l’atto rituale esce,
altri entrano per compierlo a loro volta.
In
quest’area, più o meno al centro, sta il megaron.
Un
ingresso, posto pressoché a metà del lato orientale, immette in un
altro edificio, che sembra essere il più importante dell'intera area
sacra. Si tratta di una struttura circolare, innalzata con mura
semplici (vale a dire non in aggetto), in blocchi granitici molti dei
quali cuneiformi, formanti un muro a sacco legato con malta121.
L’altezza massima residua, al momento del ritrovamento, era di 3,25
m. Il lato murario del tèmenos
si addossa al muro della struttura circolare, fatto che denuncia due
fasi edilizie differenti, ma l’omogeneità dei materiai rinvenuti
nei due edifici A e B denuncia la coevità dell’attività che vi si
praticava122.
L’interno, di 9 m di diametro, era pavimentato a sua volta in
lastre granitiche, unite ad altre di scisto ed era diviso in due
ambienti emiciclici da un singolare muro simile a quello rinvenuto
all’interno del megaron.
Questo muro ha un ingresso in posizione decentrata, che permette
l’accesso ad una zona adibita a focolare123,
nel quale veniva fuso il piombo che costituiva la base delle spade e
dei bronzetti votivi. Il muro è un altro piccolo gioiello degli
artigiani di Gremanu: lungo quasi 4 m (3,95 m), alto 94 cm e largo
46, aveva una base in 3 file di basalto e calcare, alternanza di
pietre il cui unico scopo è la ricerca di una valenza estetica, dal
momento che non ne traspare nessuno funzionale. Sopra queste file di
basalto e calcare si impiantavano 4 filari in trachite rossa (la
quale aumentava notevolmente il valore estetico, e dunque simbolico,
del muro), dei quali il primo con cornice estroflessa, il secondo
semplice ma con protomi di ariete in altorilievo, il terzo presentava
delle profonde incisioni lungo tutto il senso della lunghezza, a
forma di cuneo con punta verso l’alto, e il quarto con cornice
decorata a zig-zag, sulla sommità del quale erano praticati dei fori
atti a contenere e sostenere delle spade votive bronzee. Anche questo
edificio, che può definirsi cultuale a tutti gli effetti (l’attività
fusoria praticata all’interno aveva, evidentemente, un fine ed una
valenza legata al culto), terminava in alto con un tipo di copertura
difficilmente definibile a causa del focolare interno che, anche qui,
si presentava decentrato. All’interno, negli strati di crollo la
cui scarsa quantità è coerente con le mura non in aggetto, furono
rinvenuti dei blocchi calcarei, dei conci conformati a cuneo,
interpretati come coronamento della sommità del tempio, il cui
diametro era di 4,70 m.
Una
torre di fattura raffinata, all’interno della quale era praticata
un’attività che, qualunque essa sia stata (cultuale comunque),
sembra non molto diversa da quella praticata nel megaron.
In entrambi gli edifici troviamo un muro in trachite, ovvero in
materiale che sembra sia stato scelto più per il suo valore estetico
che per particolari qualità intrinseche e funzionali (a meno di non
considerarne la facilità con la quale è modellabile); l’immissione
di oggetti votivi all’interno dei blocchi trachitici, spade in
particolare, per le quali i fori in sommità di questi blocchi erano
praticati; il piombo, verosimilmente gettato fuso all’interno di
questi fori, fanno pensare ad un’attività gemella che pone alcuni
problemi di interpretazione. Unico elemento derimente è quella che
sembra essere una fase precedente relativa all’edificio circolare,
fase che, quand’anche non sia stata significativamente più antica
di quella del megaron
(e, a quanto pare dell’intero tèmenos),
ha preceduto quello che sembra delinearsi come un periodo di
monumentalità, di grande volontà monumentale delle attività
cultuali, ma potremmo definirle anche culturali,
di una comunità. Probabilmente si è sentita l’esigenza di non
spegnere
il fuoco,
ovvero l’attività fusoria-cultuale dell’edificio circolare
(forse davvero mai interrotta), e di riproporla in un nuovo edificio
all’interno del grande recinto. Questa moltiplicazione
dell’attività fusorio-cultuale all’interno di un edificio sacro,
potrebbe forse denunciare una crescita del tenore di vita della
comunità e dunque, per conseguenza, della demografia.
La
forma complessiva del santuario di Gremanu può leggersi, inoltre,
gettando uno sguardo alle forme circolari o curve in contrapposizione
a quelle rettilinee. Un confronto che acquista un senso se questa
dicotomia è osservata sotto l’aspetto qualitativo più che
quantitativo; ne emerge una familiarità ed una desuetudine con la
linea curva che sconfina quasi nel virtuosismo; lasciando alla linea
retta, e agli angoli precisi, le parti di chiusura, come il fondo del
santuario, a Settentrione; le parti di separazione all’interno, con
aperture semplici, ed il megaron;
elemento architettonico estraneo.
Il
tèmenos
di Gremanu esprime una cultura forte, all’interno della quale il
megaron
è inserito come elemento importante ma tutt’altro che dominante e
significante nulla che non fosse nuragico. Un elemento che esprime
una funzione nient'affatto estranea alla cultura che lo ha adottato;
un contenitore nuovo per un contenuto antico ed ancora ben vivo.
Assimilato come si assimilano concetti e suggestioni prestigiose, o
comunque esprimenti un certo grado di attrazione, ma senza che queste
influenzino o intacchino la cultura d’arrivo.
Serra
Òrrios
“Risalta,
del resto, anche in queste forme miste, una sorta di accorata
nostalgia della linea curva indigena, nella parte posteriore della
costruzione, che gira formando una abside, in funzione strutturale e
decorativa insieme, internata nello spessore della muraglia.124”
Il
territorio
Il
villaggio di Serra Òrrios sorge su di uno zoccolo basaltico al
centro dell’altopiano del Gollei (sub-regione della Baronìa), a
poco meno di 7 km a ONO di Dorgali, ed a 190 m di quota s.l.m. Sito
inoltre a 950 m ca. di distanza da un’ansa del Cedrino, sulla sua
riva sinistra. La valle fluviale, prossima al villaggio, è a ca.
150/155 m s.l.m. Il mare, nel suo punto più prossimo, dista ca. 10
km e 360 m, verso Cala Gonone, in direzione ESE ed in linea retta.
Per
questo territorio l’unica Unità
di Paesaggio
da segnalare è la nº 18, corrispondente alla seguente
classificazione:
18
= unità di paesaggio “E1”
|
Aree
con forme da ondulate a subpianeggianti, a tratti fortemente
incise, prevalentemente prive di copertura arbustiva ed arborea.
|
Le
Classi
di Capacità d'Uso
per l’Unità
di Paesaggio
18 è: VIII–VII; rispettivamente, VIII; suoli
che presentano limitazioni tali da precludere qualsiasi uso
agro-silvo-pastorale e che, pertanto, possono venire adibiti a fini
creativi, estetici, naturalistici, o come zona di raccolta delle
acque. In questa classe rientrano anche zone calanchive e gli
affioramenti di roccia,
e VII;
suoli
che presentano limitazioni severissime, tali da mostrare difficoltà
anche per l'uso silvo-pastorale.
Le
Limitazioni
d'Uso
sono così descritte per questo suolo: 18; Rocciosità
e pietrosità elevate, scarsa profondità, eccesso di scheletro, a
tratti idromorfìa dovuta al substrato impermeabile.
Una
prima classificazione geologica del territorio di Serra Òrrios
è relativa ad una Copertura
sedimentaria e vulcanica;
più specificamente classificabile come Ciclo
vulcanico ad affinità alcalina, transizionale e subalcalina del
Plio-Pleistocene.
Si tratta infine di Basalti
alcalini e transizionali, basaniti, trachibasalti e hawaiiti, talora
con noduli periodotilici; andesiti basaltiche e basalti subalcalini;
alla base, o intercalati, conglomerati, sabbie e argille
fluvio-lacustri.
Basalto,
in sintesi, la roccia con la quale il villaggio è stato edificato.
La
descrizione dei suoli è quella di una roccia affiorante, in un
contesto paesaggistico non adatto alla coltura intensiva, e nel quale
il pascolo doveva essere l’attività dominante quando non l’unica
(fra le attività di sussistenza alimentare), in un vasto circolo
territoriale che va dal Monte Ortobene ad Occidente, fino al mare ad
Oriente (il Golfo di Orosèi), per un raggio di 23 km ca. A 14 km ad
Oriente dell’Ortobene sta il villaggio di Serra
Òrrios.
Poco ad O del villaggio inizia un territorio geologicamente diverso,
prevalentemente granitico, ma con caratteristiche d’uso coincidenti
con quelle del tavolato basaltico sul quale sorge l’insediamento. A
parte la cima del Monte Ortobene, a 4,7 km a Oriente di Nuoro, che
misura 955 m di quota, tutto il territorio delimitato poco sopra, con
Serra
Òrrios
più o meno al centro, si alterna in un paesaggio di colline, valli
fluviali, con altitudini che variano dai 50 m ca. del fiume Cedrino
fino ai 470 ca. dei colli a 7,5 km ca. a NO del villaggio nuragico.
I
giacimenti minerari del territorio di Dorgali, secondo la carta
metallogenica, sono scarsi se non nulli, almeno considerando le
immediate vicinanze: un giacimento di argille o altre rocce
industriali, nei pressi della Località Canales, a ca. 4,5 km a SSO
di Serra Òrrios. Più lontano si trova un altro giacimento simile, a
ca. 12,5 km a NE, presso Orosèi, in una zona con insediamenti
nuragici e pre-nuragici (sono presenti il nuraghe Panatta, e delle
domus de janas). Ad una quindicina di km a N, ad E di Lula, sulle
pendici sud-orientali del Monte Albo, si trovano, invece, giacimenti
di ferro e piombo. Non lontano da questi, a meno di 2 km a NE, si
trova il nuraghe di Littu Értiches (in comune di Irgòli ma più
prossimo a Lula).
In
una delle analisi più accorte fatte su Serra Òrrios (in quella che
è una delle più disperate storie archeologiche della Sardegna),
fatta da Maria Luisa Ferrarese Ceruti125,
si auspica un’analisi comparativa, a partire dallo studio dei
materiali del villaggio, con i centri e gli insediamenti dell’intero
territorio di Dorgali, prendendo in considerazione l’intero
microcosmo di insediamenti126
per provare a ricostruirne le relazioni, sincroniche o diacroniche, e
i rapporti economici e sociali tra le varie comunità circonvicine.
Uno studio di questo tipo sarebbe utile a chiarire, tra l’altro, la
portata delle possibilità di sfruttamento minerario degli abitanti
di Serra Òrrios. Una prima visione, in quest’ottica, è quella
esposta da Alberto Moravetti, nella quale un dato ed un’analisi
chiave è quella relativa al cospicuo numero di villaggi rilevati nel
territorio (77), in relazione al fatto che ben 63 di questi non
presentano una stretta relazione con un nuraghe127.
Questo fenomeno è interpretato alla luce di una sorta di unità
politica fra i diversi insediamenti che, se fosse comprovata dai dati
archeologici, renderebbe una visione della dinamica territoriale ed
umana nella quale, a questo punto, un’ipotesi di sfruttamento
congiunto delle risorse minerarie alle quali si è accennato,
acquisterebbe un peso non indifferente.
Sfortunatamente,
contro questo studio stanno i dati archeologici del villaggio di
Serra Òrrios; troppo lacunosi, confusi e di difficile
interpretazione quelli (pochi) a disposizione. Proseguendo tuttavia
in questo lacunoso tentativo analitico, l’ipotesi di Moravetti di
un complesso insediativo multiplo, territoriale, politicamente coeso,
allarga i già notevoli problemi di attribuzione cronologica (il
quale Autore, infatti, non accenna ai giacimenti metalliferi e,
segnatamente, alla presenza del ferro a 15 km a N di Serra Òrrios).
Nella
visione di Moravetti i nuraghi (42 censiti rispetto ai già citati 77
villaggi128,
sempre considerando il solo territorio amministrativo di Dorgali;
visione a mio avviso limitativa), risultano essere elementi ancora
attivi in un quadro di difesa e controllo del territorio. Una simile
visione non può essere successiva agli inizi del BF, ovvero alla
fine del XIII sec. a.C. Non perché dopo quest’epoca non sia
possibile ipotizzare un’eventuale continuità d’uso dei nuraghi,
ma perché considera gli stessi all’interno di una concezione
integrata del controllo del territorio, mentre se si considera
l’abbandono dell’attività di edificazione delle torri nuragiche
e, di conseguenza, una cessazione del loro ruolo originario
(qualunque esso sia stato), insieme ad una relativa emersione del
villaggio come elemento caratterizzante questo periodo129,
senza il nuraghe, allora la tesi del controllo congiunto del
territorio, coi nuraghi come elementi comuni e strategici, viene a
cadere. Il controllo congiunto del territorio è una tesi molto
valida, forse l’unica che spieghi l’esistenza di villaggi privi
di sistemi di difesa o di stretto controllo del territorio
immediatamente circondante l’insediamento, ma in un’ottica simile
sono proprio le torri nuragiche a perdere un eventuale ruolo attivo
di controllo territoriale130.
Moravetti
non propone cronologie se non tramite citazione testuale di tesi
altrui (segnatamente di Maria Ausilia Fadda131),
e all’interno della storia degli scavi del villaggio132.
Nella
visione di Ferrarese Ceruti invece, che parte da considerazioni di
tipo urbanistico-architettoniche relative al villaggio, la studiosa
conclude che la fase di vita di questo potrebbe coincidere con
l’epoca di abbandono dell’attività edificatoria dei nuraghi133,
pur non escludendone una qualche continuità d’uso. Questa ipotesi
porrebbe, in ogni caso, l’edificazione stessa dell’abitato ben
all’interno del BF, ovvero a partire dal XII sec. a.C., e
spiegherebbe l’isolamento del villaggio e la sua lontananza da
sistemi di controllo e difesa rappresentati, appunto, da muraglie e
torri nuragiche. Un controllo congiunto, tra villaggi di uno stesso
territorio (da definire con precisione), ovvero una unione politica
complessa fra insediamenti, non è presa qui in considerazione134.
Tra
i reperti metallici rinvenuti a Serra Òrrios è presente un
braccialetto d’argento, per il quale, chi si è occupato dello
studio dei reperti metallici restituiti dall’area del villaggio135,
propone una provenienza dell’argento dalle miniere di Sos Enattos,
a poco più di 14 km a NO, in territorio comunale di Lula (sfruttate
fino ad oggi), in considerazione anche di altri bracciali d’argento
rinvenuti in territorio di Dorgali.
La
situazione dei reperti restituiti da Serra Òrrios è talmente
disperante da lasciare spazio nient’altro che ad ipotesi; tuttavia
è possibile tracciare un quadro generale che prenda in
considerazione, appunto, il territorio tutto, con le sue possibilità
di sfruttamento e le sue risorse.
Serra
Òrrios sembra rispondere pressoché esattamente al quadro
insediativo proposto per il BF da Anna Depalmas: “Il
progressivo indebolimento del concetto di nuraghe come punto di
riferimento della società riflette una reale trasformazione che si
concretizza anche nel contemporaneo affermarsi, con forme rinnovate e
consolidate, del sistema insediativo dei villaggi.136”
Il
villaggio e i templi
Il
villaggio
Nonostante
la carenza di informazioni relativa alle stratigrafie ed alle
relazioni architettoniche ed urbanistiche dell’insediamento137,
gli indizî rimanenti indicano che la direzione da seguire è quella
appena descritta. “Gli
abitati di questo periodo sono costituiti oltre
che da edifici circolari, da vani di varia forma accessibili
attraverso un cortile centrale che li raccorda così da dare corpo a
strutture ad isolati.138”
Maria
Luisa Ferrarese Ceruti individua la conformazione ad isolati nella
struttura urbanistica dell’abitato139,
articolati, alcuni, attorno ad un cortile centrale nel quale si trova
un pozzo o cisterna, elemento di pubblica utilità opportunamente
situato in una posizione non esclusiva. Il dubbio circa la
contemporaneità o meno di questa conformazione, rispetto alle
singole capanne (dubbio creato ed alimentato dalle citate carenze di
dati relativi alle indagini), non modifica il quadro culturale
comparato con i villaggi del BF, articolati secondo i criteri
summenzionati; è plausibile, infatti, un’evoluzione anche in tempi
non significativamente lunghi, e che abbia portato a completa
maturazione questa razionale distribuzione dell’area abitata140.
In
questo quadro, i due megara
di Serra Òrrios
si trovano perfettamente integrati, nel senso che non appaiono come
corpi aggiunti in seno ad un organismo non strutturato per
accoglierli, ma il contrario. La loro posizione è quella del luogo
sacro rispetto all’area abitata, nessuna struttura vi si addossa,
il loro spazio è correttamente rispettato e “riconosciuto” dalla
conformazione dell’abitato. Questa è una breve lettura semiologica
dell’aspetto urbano; lettura che, pur bisognosa di essere
incrementata, potrebbe già considerarsi così una sintesi compiuta.
Purtroppo lo stato in cui fu rinvenuto l’insediamento e le
successive, infelici, azioni di scavo e di sterro, nonché di
“restauro”141,
possono aver apportato cambiamenti tali da distorcere la lettura del
disegno urbano, soprattutto in considerazione delle eventuali fasi
cronologiche da evincersi da possibili superfetazioni murarie142;
vandalismo,
incuria,
abbandono143;
sono tutte voci che si ripetono al momento di affrontare la sola
descrizione del villaggio, senza nemmeno accennare ad eventuali
analisi, quando invece si parla di scavi
frettolosi e scarsamente documentati...144,
fra i quali si devono aggiungere anche quelli più recenti145.
Preso
atto di questa situazione, che si ripete al momento di prendere in
esame i reperti al fine di trarre una sequenza cronologica
dell’insediamento, è comunque possibile (e doveroso), avanzare
alcune considerazioni di base, riguardanti ad esempio proprio la
lettura urbanistica dell’abitato. In questa, l’elemento di
maggiore importanza è la suddivisione in isolati, evinti per Serra
Òrrios
da studiosi diversi in tempi diversi146,
ed evinti più in generale all’interno di un quadro cronologico
riguardante l’intero mondo nuragico nel Bronzo Finale e nelle sue
fasi di passaggio dal Bronzo al Ferro147.
Consideriamo
dunque la suddivisione in quattro isolati proposta da Moravetti148;
l’isolato A, che si sviluppa verso l’estremità N-orientale, è
costituito da otto ambienti, o capanne, ed aveva un primo accesso
direttamente a N, condiviso con l’isolato B, e poi un altro in
direzione NO che immetteva direttamente all’interno della corte
dell’isolato. Le capanne dell’isolato A sono numerate dal 70 al
77, e quest’ultima è l’unica ad avere l’ingresso esterno alla
corte (segnatamente aperto a SO), rendendola in questo modo
funzionalmente slegata dall’isolato, benché fisicamente annessa ad
esso. Moravetti spiega (dubitativamente) questa particolarità, con
un’annessione successiva al resto dell’isolato, ovvero una
costruzione della capanna in una seconda fase edilizia; cosa che però
non spiega affatto l’apertura avulsa dalla vita
dell’isolato, dal momento che nulla impediva di aprire un ingresso,
a questa capanna, dalla parte della corte. Dal punto di vista della
funzionalità, invece, leggendo una possibile dinamica elementare
delle azioni quotidiane (o anche di una periodizzazione meno
frequente), degli abitanti dell’isolato, la capanna 77 sembra più
un ambiente di servizio, di disimpegno, nel quale riporre attrezzi od
oggetti non funzionali alla vita “casalinga” dell’isolato. O
addirittura un ambiente di lavoro, relativo ad un qualche tipo di
produzione, non necessariamente legato a chi condivideva le sue
giornate nel microcosmo dell’isolato A.
In
questo isolato si inciampa in uno dei problemi interpretativi
connessi alla documentazione lacunosa e vaga relativa a Serra Òrrios:
Fadda qui accenna a due capanne149,
da lei numerate 22a e 22b, probabilmente situate in questo isolato150,
ma non identificabili perché non presenti in nessuna pianta.
All’interno di queste due capanne Fadda afferma di aver individuato
un “(...) deposito
archeologico con una sequenza stratigrafica che va dal Bronzo Medio
alla prima età del Ferro”151,
vale a dire un arco di vita di 800 anni circa152.
Fossero anche la metà, cioè 400 anni ca., ovvero dalle fasi finali
del lungo periodo di durata del BM (fino al IFe), si tratterebbe
comunque di uno straordinario bacino stratigrafico, la cui presenza
meriterebbe uno studio particolare e parallelo ad ogni altra parte o
ambiente dell’insediamento. Tanto più che al momento di redarre la
documentazione relativa, Fadda afferma che durante lo scavo di queste
capanne non si era comunque arrivati al piano di calpestìo delle
stesse.
La
stessa non accenna a situazioni stratigrafiche analoghe, relative ad
altri ambienti.
L’articolazione
di questo isolato è molto varia e, in apparenza, poco funzionale (se
ammettiamo il concetto di “funzionalità” relativo a parametri
più moderni, ma ampiamente discutibili se applicati a questo periodo
ed a questa temperie culturale della Sardegna); potremmo definire la
conformazione di questo isolato disordinata,
in relazione ad altre parti dello stesso abitato, ma a ben guardare
non priva di una sua funzionalità interna.
Le
capanne più orientali: 73, 74, 75, sono ben unite tra loro, hanno
l’ingresso che si apre verso la stessa direzione (O), e sono a loro
volta isolate dal resto; la capanna 73, che ha una conformazione
rettangolare, continua il suo lato settentrionale verso O, con un
lungo muro che, dalla parte opposta alla capanna, forma un lungo
corridoio d’ingresso insieme ad un muro ad esso parallelo, posto a
N, più lungo del primo e che diparte dalla capanna 70, il cui
ingresso è opportunamente situato sulla piazzola centrale
dell'intero isolato. Su questa stessa piazzola, dalla forma molto
irregolare, ed esattamente di fronte all’ingresso della capanna 70,
si apre l’ingresso alla capanna 71. Queste cinque sono le capanne
dell’isolato che si aprono sulla piazzola centrale; la 72 e la 76,
hanno l’ingresso uno di fronte all’altro, discosto dalla piazzola
e aperto verso un curioso spazio diviso da un muro nel senso della
lunghezza, che forma due vicoli ciechi di dubbia o nulla funzione
(siamo ormai nella zona della capanna 77) , ma che fanno pensare
effettivamente ad una serie di fasi costruttive diverse. La capanna
72 è la “gemella” della 71, con dimensioni simili, quasi
attaccate l’una all’altra, ma con gli ingressi situati dalle
rispettive parti opposte; impossibile, qui, non ravvisare una voluta
diversa funzionalità in questa conformazione; aggiunta a quella
delle tre capanne 73, 74, 75, si può a mio avviso ravvisare una
programmazione della strutturazione di questa parte dell’abitato,
anche considerando fasi strutturali diverse. È possibile evincere
alcuni probabili ambienti adibiti a servizi di qualche tipo nelle
capanne 72 e 76, dentro l’isolato, e nella 77, come si è già
detto, al di fuori di questo.
Adiacente,
e ben legato urbanisticamente all’isolato A, subito ad O, si trova
l'isolato B, sito sempre nella parte settentrionale dell’abitato.
Otto ambienti raccordati con muretti, a piccoli gruppi, con la
capanna 21 isolata verso E. Le capanne sono numerate dal 18 al 20,
nel lato S dell’isolato (potremmo considerarlo un primo gruppo), e
le capanne 36, 37, 39, 40, a NO, che potremmo considerare un secondo
gruppo anche se le capanne 36 e 37 formano in realtà un piccolo
gruppo e le altre due un altro, separati da una sorta di corridoio
che conduce a NO fuori dall’abitato (o immette allo stesso, secondo
la direzione considerata). Questa conformazione racchiude uno spazio
centrale, di forma irregolare, sul quale si aprono tutte le otto
capanne, e nel quale si trova un pozzo o cisterna; tra la capanna 20
e la 21, a SE dell’isolato, si apre un patio comunque aperto a N
verso il grande spazio centrale. Un patio di estensione ridotta si
trova al lato opposto, a OSO, tra le capanne 18 e 36. Nell’angolo
meridionale del patio orientale (tra le capanne 20 e 21), si apre un
ingresso all’isolato; un altro è aperto a SO tra le capanne 18 e
19; e un terzo è quello a cui si è già accennato, a NO tra le
capanne 37 e 39, mentre oltre la capanna 40, a N, una situazione
incerta, con cumulo di pietre, non consente di identificare la
conformazione di quest’area.
A
parte la capanna 21, che appare come elemento di dimensioni più
importanti delle altre dell’isolato (dimensioni simili a quelle
delle capanne 76 e 77 dell’isolato A), oltre che più in disparte
dal resto dell’insieme di ambienti di questo isolato, le altre
capanne formano un gruppo coerente per dimensioni, posizione ed
apertura verso una piazzetta con un pozzo al centro. Abitazioni,
dunque.
Isolata
a N dell’abitato, di medie dimensioni, si trova una capanna (27),
la cui utilità non risulta chiara né si è ritrovato nulla (che si
sappia), al suo interno che sveli la ragione della sua esistenza.
Fuori
dall’isolato B, segnatamente ad Occidente di questo, furono
rivelate altre strutture legate a sistemi di raccolta e
canalizzazione dell’acqua, pozzetti e condotte utili
all’approvvigionamento idrico. Queste si trovano in concomitanza di
un gruppo di capanne che non viene considerato fra gli “isolati”
con i quali si è voluto suddividere l’abitato; ma questa
esclusione andrebbe fatta con una certa prudenza. Dalle piante
ricavate emerge l’assenza dei muri di raccordo fra ambienti, ma non
fra tutti; le capanne 32 e 59 (nella parte più occidentale di questo
insieme non classificato), sono unite infatti da un breve muro. Le
due capanne, di dimensioni diverse, sono allineate all’incirca
nell’asse EO, come l’intero gruppo, ed hanno l’ingresso in
direzione pressoché opposta; a SE si apre l’ingresso alla 32 e a
NE quello della 59. Ad E della capanna 32 si trova la 31, non
collegata da mura con nessun altra, ma delle stesse dimensioni della
sua adiacente 32, e con ingresso orientato all’incirca nella stessa
direzione, a S. Ancora ad Oriente di questa si trovano due muri,
forse residui, e per tanto non facilmente interpretabili; segnalano,
tuttavia, una ricerca di razionalizzazione anche di questo gruppo di
capanne, meno o diversamente leggibile rispetto agli altri isolati. A
S di queste mura, per altro non legate a nessuna struttura, oltre che
non legate fra loro, si trova, appena leggibile sul terreno, un
circolo di pietre che doveva essere stato una capanna a sua volta, e
che non ebbe il privilegio del battesimo numerale. Ancora a S di
questo circolo a raso si trova, isolata da tutto, la capanna 33, di
dimensioni simili alle capanne 31 e 32 (ed alla 58), i cui residui
muri a raso, che sembrano dipartirsi da questa, sia verso N, per
unirsi alla capanna senza nome, e verso S, suggeriscono un’originaria
congiunzione di questo ambiente ad un insieme oggi non più leggibile
con chiarezza. A N delle capanne 31 e 32 si trova la capanna 58,
isolata, e con ingresso orientato ad O. Al suo fianco, ad E, la 57,
di dimensioni minori ed ingresso a S. Ad E di questa, poco discosto,
un curioso ambiente quadrangolare, molto irregolare; la capanna nº
30. A N di quest’ultima, un residuo ambiente a sua volta
quadrangolare, del quale non restano che la parete S e una minima
parte della parete O, leggibili; questo residuo pare formasse un
ambiente, numerato 29. I pozzetti e le condotte di canalizzazione
furono rinvenute in prossimità dell’ambiente non numerato e della
capanna 30153.
Ancora
una volta, la carenza di dati di scavo non permette di analizzare
degli elementi che, alla luce di quanto è visibile anche dalla sola
osservazione delle piante, appare come un “isolato”, pur meno
leggibile degli altri. A mio avviso è qui visibile un tentativo di
organizzazione in un solo gruppo di ambienti, non diversamente dagli
altri; la forma della capanna 30 e quella che si evince leggendo i
due muri superstiti della c.d. 29, il muro che unisce le capanne 59 e
32, la presenza del pozzetto e delle canalizzazioni, e l’insieme
urbanistico di questa zona, ne fanno un isolato a tutti gli effetti,
la cui unica differenza tra gli altri consiste in una maggiore
difficoltà di lettura ed interpretazione. A prescindere da eventuali
fasi particolarmente vetuste, in seno a questo “quartiere
periferico”, la forma e le strutture residue, oltre che il numero
delle capanne o ambienti rimasti (sette leggibili e due incerti), ne
fanno un isolato da considerarsi non da meno degli altri.
L’isolato
C è il più notevole fra tutti. Un “complesso residenziale” vero
e proprio, con 11 ambienti (12, 13, 15, 16, 17, 55, 56, 60, 64, 66,
67), una piazza, centrale e ben delineata, con pozzo (ambiente 65),
preceduta da un cortile a N (ambiente 63) nel quale era presente un
focolare con coppelle, oggi scomparso. Altri corridoi di disimpegno
ed altri spazi con la stessa funzione di passaggio sono il 68, il 69
e il 14.
Questo
isolato si trova al centro dell’abitato, immediatamente a S
dell’isolato B, con un andamento e una forma pseudo-rettangolare
(molto compatta dunque), ed una direzione NNO-SSE.
La
forma dell’intero isolato è tale da far pensare ad una sua
strutturazione in un’unica fase costruttiva e secondo un progetto
unitario; certamente è evidente la volontà di unificare i diversi
ambienti di questo isolato in un unico complesso, evidenza che
legittima a considerare la stessa fase, o contemporaneità,
costruttiva per ognuno di essi; considerazione rafforzata dalla quasi
totale assenza di mura di raccordo tra ambienti, i quali sono uniti
da mura divisorie in comune. L’insieme degli ambienti gira intorno
alla piazza centrale, per lo meno dal punto di vista planimetrico, ma
non sotto l’aspetto funzionale. Sulla piazza centrale (l’ambiente
65), si aprono infatti solo tre ambienti, o capanne (da S a N: 56,
67, 66), per altro di piccole dimensioni154;
le uniche che hanno accesso diretto alla piazza con pozzo per la
raccolta dell’acqua. La capanna 64, la più esterna a N dell’intero
isolato, si apre sul cortile adiacente (63). A NO della piazza
centrale si snoda un micro-complesso composto da un corridoio cieco
(69), e quattro capanne (15, 16, 17, 60), delle quali la 60 e la 15
si aprono sul suddetto corridoio, la 16 sullo spiazzo adiacente e la
17 sulla parte esterna all’intero isolato a N. Un ingresso aperto a
SO, che forma un piccolo ambiente (14), immette alla parte
meridionale dell’isolato, nella quale si aprono, da O verso E, le
capanne 13, 12, 55, su uno stretto spiazzo ricavato tra i corridoi
d’uscita delle capanne e il muro meridionale di chiusura della
piazza centrale. L'ingresso a questa parte forma a sua volta un
piccolo ambiente (14). Un altro ingresso si trova poco più a N del
14; lungo la stessa via
centrale del villaggio, e che separa l’isolato C da quello D ad
Occidente, ed immette al corridoio 69.
Così
come è agevole stabilire un’unica fase di costruzione per questo
isolato, nella sua interezza, è parimenti complicato evincerne le
varie parti funzionali. Si possono individuare tre diversi
“distretti”, uno a S, composto dalle capanne 13, 12, 55, con la
stretta piazzola chiusa a N dal muro meridionale della piazza
centrale, che costituisce l’elemento centripeto del secondo
“distretto” altrimenti composto dalle tre capanne disposte a
raggio, verso E della piazza, 56, 67, 66 da S verso N. Un terzo
distretto, meno regolare degli altri due, è quello formato dalle
capanne 60, 15, 17 da S verso N, e la 16 ad E. Nessuno dei tre
comunica direttamente con gli altri. Queste ultime quattro capanne,
con la 13, sono le più grandi di tutto l’isolato, e delle stesse
dimensioni approssimative delle 70, 76, 77 dell’isolato A, e la 21
dell’isolato B. Le capanne più piccole, in tutti gli isolati, sono
anche quelle più concentrate tra loro, le meno isolate; al contrario
delle capanne più grandi che sono invece più libere da vincoli e
contatti con le altre capanne. Come interpretare questo dato? Le
capanne più piccole e raccolte erano le abitazioni? Nulla più che
semplici luoghi di riposo? E le altre, ambienti collettivi di lavoro?
Qual è stato il criterio col quale si sono isolati alcuni
“distretti” rispetto agli altri, in seno ad un solo isolato
(specialmente nell’isolato C)? Erano luoghi – ambienti –
pertinenti ad una sola famiglia o gruppo familiare (ad esempio quelli
relativi alle capanne 13, 12, 55 a S dell’isolato C)?
Pur
considerando quest’ultimo isolato preso finora in considerazione,
secondo l’ipotesi di Alberto Moravetti, ovvero come l’unico
edificato secondo un piano prestabilito e in un’unica fase
edilizia, gli elementi in comune con gli altri isolati sono
importanti; come quello su accennato, relativo alla coincidenza tra
dimensioni dei vani e relativo raggruppamento od isolamento.
Un’interpretazione per tanto, che si potrebbe definire di
apertura al tema,
o anche preliminare,
considererebbe alcune delle capanne più grandi ed isolate come più
antiche, relative a fasi cronologiche anteriori a quelle delle
capanne più piccole e raggruppate, evidentemente nate insieme, in
qualunque isolato si trovino (il gruppo 73, 74, 75 e forse anche i
vani 71 e 72, dell’isolato A; i gruppi 19, 20, con la 18 solo
separata dall’ingresso S al centro della piazza, e 36, 37 e 39, 40
dell’isolato B). Così come, su questa stessa linea preliminare, è
possibile considerare le capanne o vani più grandi ed isolati come
ambienti di lavoro o di servizio (magari non tutti), e quelle più
piccole, raccolte e “recenti”, come le abitazioni vere e proprie,
in una sorta di partizione tra otium
et negotium
delle diverse parti e cellule dell’abitato.
L’isolato
D è più somigliante agli isolati A e B; disposto ad Occidente
dell’isolato C, è privo di una piazza o spazio centrale comune, e
le dieci capanne (5, 6, 7, 8, 9, 10, 10a, 10b, 34, 52, più un
ambiente a N della 34, aperto ad O e di problematica interpretazione
anche se potrebbe essere un vano parzialmente distrutto, comunque
numerato col 35), si aprono su vie e stradine, anzi, su un’unica
via centrale, curva, direzionata EO, e cieca ad O, chiusa in fondo
dal piccolo vano 52. Le capanne 5 e 6 sono le più occidentali
dell’isolato ed anche le uniche due non legate a nessun’altra
struttura (capanna o muro). L’isolamento di queste capanne,
tuttavia, sembra intenzionale; nulla vietava, infatti, agli urbanisti
di Serra Òrrios, di legare ed unire anche queste due capanne,
qualora fossero più antiche di altre parti dell’isolato, alle
altre, congiungendole con mura o addossandogli altre capanne ancora.
Il
corpo centrale dell’isolato, ad E delle due capanne 5 e 6, lo si
potrebbe descrivere in questo modo: due semi-corpi direzionati EO, di
cui uno settentrionale e l’altro meridionale, entrambi formati da
capanne adiacenti o raggruppate. Il semi-corpo N, dunque, inizia ad E
con un muro che si lega ad O con la capanna 9 (la più grande
dell’intero abitato155),
che a sua volta si lega, ma in corpi del tutto separati, alla piccola
capanna 54 che è quella sul cui ingresso si chiude la strada
centrale dell’isolato. Questa si lega allo stesso modo, cioè con
mura attaccate ma indipendenti (probabile segno, in entrambi i casi,
di due fasi edilizie diverse), alla capanna 7, centrale rispetto alla
strada e ai due semicorpi. Da qui inizia l semi-corpo meridionale,
con ad O la capanna 8, legata al muro del vano 10b, un rettangolo
irregolare, legato con muro divisorio in comune al vano 10a, un
parallelepipedo ancora più irregolare perché “investito” a N
dall’ambiente o capanna 10, di forma mista, circolare e angolare.
Il gruppo di capanne – da O verso E – 8, 10b, 10a, 10, formano,
al loro esterno, ovvero a S ed a E, due strade perpendicolari; una a
S in direzione EO, e l’altra ad E in direzione NS. Le aperture,
ovvero gli ingressi degli ambienti summenzionati si aprono tutti
nella strada interna al corpo centrale di questo isolato appena
descritto. Altro segno di pianificazione urbanistica.
La
piccola capanna 34, a N dell’isolato, è legata ad un muro che a
sua volta si lega ad altri che portano infine alle capanne 15 e 17 a
N dell’isolato C, ma legata comunque, per il gioco degli ingressi,
all’isolato D. Dalla capanna 5, verso N, si dipanano due muri che
si interrompono dopo alcuni metri, e che formano un vicolo cieco
verso S, ovvero verso la capanna. A S del corpo centrale dell’isolato
si trova una strada il cui muro opposto è una sorta di muraglia non
ben identificabile, probabilmente diruta, e che sembra a sua volta
funzionale all’urbanistica del villaggio. Le capanne 5 e 6 hanno
entrambe l’ingresso aperto a S, mentre la capanna 7, l’unica
finora tra quelle osservabili nell’insediamento, ha due aperture,
una ad E e l’altra a OSO, che mettevano in comunicazione la strada
interna del corpo centrale con la parte esterna dell’isolato verso
le due capanne solitarie (5, 6). Anche in questo isolato si ripete la
dicotomìa – del tutto ipotetica – tra ambienti comuni, di
lavoro, e ambienti familiari, intimi, di ritiro e riposo.
All’estremo
S dell’abitato si trova un altro isolato senza dignità onomastica,
adiacente al recinto B. Questo è del tutto scollegato e lontano dal
resto del villaggio. È composto da sette capanne e da una struttura
muraria di non chiara utilità (ma potrebbe essere stato un recinto
per il ricovero di animali). Due capanne a S (53 e 62), sono isolate
e scollegate dal corpo centrale dell’isolato, così come la più
grande capanna 54, anche se questa è più vicina allo stesso. Tutte
e tre queste capanne hanno l’ingresso rivolto a ESE, cioè verso
l’esterno rispetto all’isolato e rispetto all’insediamento
tutto.
Un
lungo muro occidentale, che corre a N del vano 54 in direzione EO,
contribuisce a chiudere il corpo centrale dell’isolato. L’estremità
occidentale di questo muro forma, insieme al muro circolare della
capanna 3 sita a N del muro, un ingresso, ad O, a questo corpo
centrale. Questo muro finisce ad E con la capanna 38; da questa verso
SE si dipanano delle articolate strutture murarie di ardua
comprensione funzionale, che vanno, in linea curva, da O verso E e da
E verso N, chiudendo ad Oriente l’isolato. Ad E di queste mura si
trova un grande cumulo diruto di pietre. Ritornando verso il corpo
centrale dell’isolato, a NE, troviamo la capanna 61, isolata,
ovvero non legata ad altre strutture di nessun tipo, ma ben
funzionale urbanisticamente a chiudere l’isolato a NE. L’ingresso
di questa capanna è tuttavia rivolto all’esterno dell’isolato,
verso E. Ad O della 61 si trova la capanna 4, legata con un breve
muro alla 3. Questo complesso, che presenta caratteristiche di
elementi accorpati in fasi edilizie diverse, ha come unica
caratteristica differente dagli altri (a parte il celebrato isolato
C), il suo isolamento dal resto dell’abitato. Questa posizione,
unita alla sua vicinanza col recinto del tempio B, potrebbe farlo
interpretare come una sorta di isolato di servizio, vale a dire non
abitato ma adibito ad ambienti di lavoro magari relativi alle
funzioni sacre che si svolgevano nel tempio vicino.
Parimenti
isolata dall’abitato è una grande capanna (battezzata 49), che si
trova ad una quarantina di metri ad O dalla capanna 6 dell’isolato
D. La struttura è quella di un grande vano (meno grande comunque di
altri dell’abitato), di forma vagamente ellittica, ma molto curato
nella sua composizione: pavimento in lastre con sedile adiacente alla
circonferenza interna. Costruito in grandi ortostati, presenta un
vestibolo esterno del quale rimane visibile solo la parete N.
L’ingresso è aperto ad E, ovvero verso l’abitato.
L’interpretazione di questo singolare ambiente è quella di un
edificio pubblico, di riunione. Moravetti, basandosi sulle dimensioni
delle lastre che formano le pareti, propone un periodo di costruzione
di questa capanna anteriore a quello dei tempietti156.
Nessun materiale eventualmente reperito all’interno di questo
ambiente è giunto fino ad oggi a chiarirne funzione e cronologia157.
I
templi
Al
margine meridionale dell’abitato, segnatamente a SO, si trova il
recinto detto B, con omonimo tempietto; mentre molto più discosto,
ad O di questo, si trovano il recinto ed il tempietto A. Quest’ultimo
fu il primo ad essere scoperto da Teodoro Levi nel 1936.
Il
tempio A, dunque, è circondato da un ampio recinto, di forma
irregolare tra circolare e semi-quadrangolare; m 50,20 per 42,50, con
spessori murari tra m 1,80 e 1. L’ingresso architravato, alto 1,80
m e largo 80 cm, è preceduto da un andito ovalòide di 6 m di
profondità, la cui larghezza massima è di 4,20 m e minima di 3 (lo
spessore murario delle due mura di quest’andito è di m 1). Ad 8 m
a destra dell’ingresso, appena entrati all’interno del recinto,
ed a 3 m di distanza dal muro N dello stesso, si trova il megaron;
in posizione del tutto decentrata rispetto al recinto che lo
contiene.
Il
rettangolo leggermente irregolare del tempio misura 8,36 m di
lunghezza, per 4,56/4,40 di larghezza, con spessori murari che vanno
da 1,10 m ad 80 cm L’orientamento dell’edificio è lungo l’asse
S-N, con ingresso a S. La struttura del tèmenos è caratterizzata da
scarsa cura per la simmetria, mentre il tempio è un rettangolo quasi
regolare.
Le
ante d’ingresso misurano 1,26 m quella N e 1,24 m quella a S, e
formano un breve spazio, pavimentato con lastre di basalto, che solo
pro
forma
si può chiamare vestibolo ma del quale è evidente l’assenza di
qualunque utilità che non sia solo simbolica, date le dimensioni
ridotte. Un ingresso molto irregolare, di 90 cm di profondità e di
larghezza diversa tra esterno e interno, immette al megaron
propriamente detto, ovvero alla sala centrale dell’edificio. La
sala è caratterizzata dalla presenza del bancone-sedile posto lungo
le pareti lunghe, e misura 4,18 m di lunghezza per 2,64/2,50 di
larghezza e 80 cm di altezza residua (tre filari di blocchi litici
rimasti). L’opera complessiva dell’edificio è pseudoisodoma. Le
ante dell’opistodomo misurano 70 cm a N e 75 a S. L’intera area
che circonda il tempio è lastricata in grandi elementi lapidei di
forma irregolare, e che compongono una pavimentazione che intendeva
conferire particolare privilegio al tempio. Il fatto che di questo
siano rimasti solo pochi filari dell’alzato, mentre il recinto è
praticamente intatto (salvo alcune parti), in una condizione
praticamente opposta a quella di Domu de Orgìa, è spiegato da
Moravetti come il prodotto di spoliazioni in epoche sub-recenti, data
la cura con la quale furono modellati i blocchi del megaron,
mentre il recinto fu lasciato al suo posto per la sua utilità come
recinto, appunto, dove ricoverare bestiame158.
Ipotesi di tutta plausibilità, a fronte della quale ritengo inutile
formularne altre. Si aggiunga l’assenza di indizi archeologici che
possano indirizzare le analisi in un senso oppure in un altro.
I
pochi filari rimasti dell’alzato del megaron
permettono tuttavia di constatare, considerando soprattutto l’opera
muraria, ben visibile, che la struttura non fosse a falsa volta come
in un nuraghe, ma ad alzato semplice come le capanne. Moravetti
propone una ricostruzione con tetto stramineo a doppio spiovente, in
alcuni disegni molto ben eseguiti159.
Anche in questo caso si può accettare questa soluzione, dal momento
che, qui come altrove, le soluzioni possibili per la strutturazione
di una copertura, erano ben note alla cultura nuragica che non
abbisognava di insegnamenti (ferma restando l’ipotesi
dell’assimilazione di modalità diverse ed allogene, allo stesso
modo col quale potrebbe esser stato assimilato lo stesso megaron,
ed insieme a questo), e che questa del doppio spiovente ligneo e
stramineo fosse una soluzione logica per mura dritte non in aggetto.
Il
tempio B, all’interno di un recinto molto più piccolo di quello
che circondava il tempio A, è, invece, di dimensioni maggiori di
quest’ultimo.
Tempio
e recinto si trovano a ridosso dell’abitato, segnatamente nella
periferia meridionale, verso Occidente, e ad O dell’isolato anonimo
più meridionale. Il recinto è aperto ad E ma si sviluppa sull’asse
SN, così come il megaron,
che ha l’apertura a S. Un lungo corridoio circolare, curvo, porta
all’interno del recinto e all’ingresso al tempio. Il recinto ha
dunque una forma di rettangolo molto irregolare, e misura 19 m per
12. Ha due ingressi; oltre a quello citato, conformato anche da un
curioso ambiente emiciclico, ha un ingresso a metà muro del recinto,
nel lato orientale. Questo curioso ambiente, di forma insolita, è
interno al recinto, ha forma convessa piena verso S, un ingresso ad
E, cioè dall’esterno del recinto (o tèmenos),
ed uno a N, dall’interno. I due ingressi al vano emiciclico
sembrano esser stati aperti in tempi diversi, data la diversa opera
muraria160.
Questo ha pavimento in lastre basaltiche con piano irregolare,
ribassato, che ha fatto pensare ad un bacino per raccolta di acque
lustrali o cultuali161.
Il
rettangolo del megaron è piuttosto irregolare; misura 10,20 m di
lunghezza per una larghezza variabile di 5,26 m a N e 4,50 a S, dalla
parte dell’ingresso. Il doppio antis è a sua volta irregolare, in
pronao è curvilineo, a chiudere verso l’interno, largo 2 m
all’entrata e 1,60 ca. nella parte più profonda; la profondità
stessa è di 1,60 m. Anche il pronao, come l’interno della cella,
ha un bancone che lo incornicia, interpretato da Moravetti come
sedile162,
ma che ricorda piuttosto l’appoggio per offerte di Domu de Orgìa.
L’antis
in opistodomo forma un vero e proprio semicerchio (corda m 3,20,
saetta m 1,70163),
con parti molto irregolari (m 1,20 di spessore ad E, e 94 cm ad O),
per il quale una spiegazione è racchiusa nella frase di Lillìu che
apre il tema di Serra Òrrios164.
L’ingresso
è largo ca. 75 cm, profondo 1 m ed alto, nei cinque filari residui,
1,70 m ca.165;
immette alla sala o megaron,
di forma trapezoidale, la cui lunghezza massima, nel lato orientale,
è di 5,10 m, e largo 2,32 all’estremità S e 2,68 a quella N. Il
bancone che circonda la parete ha larghezze che vanno dai 41 ai 38 cm
e manca di un concio al centro del lato E; si solleva dal piano di
calpestìo 40 cm ca. Il pavimento era costituito da lastre di varie
dimensioni e solo parzialmente conservatosi.
L’altezza
massima residua è di 2,10 m, nella parte posteriore del tempio, e
quella minima di 1,70 nell’ingresso “archivoltato”;
rispettivamente di 7 e 5 filari residui. Lo spessore varia da 1,15 ad
1,10 ca. nelle pareti e 1,30/0,95 sulle ante.
L’opera
muraria è pseudoisodoma, con conci sub-quadrati, disposti a filari
orizzontali regolari. Mura dritte, non in aggetto. L’ipotesi della
copertura è la stessa del tempio A; straminea, con travi
orizzontali, a doppio spiovente.
Qui
nessuna spoliazione, come nel tempio A, è avvenuta a rendere
l’edificio quasi una pianta di se stesso.
Moravetti
è l’unico che avanza delle ipotesi circa la sequenza di fasi
edificatorie che avrebbe visto nascere prima l’ambiente emiciclico
(detto B1166),
poi il tempio B con relativo recinto di ridotte dimensioni, al quale,
secondo lo stesso, avrebbero avuto accesso solo gli officianti il
culto, ed infine tempio e recinto A, motivato da una crescita di
importanza del villaggio, rispetto ad altri centri circonvicini,
nonché da una relativa crescita demografica dello stesso167.
Altra interpretazione è quella che vede il tempio A, col suo grande
recinto, pensato e costruito per raduni cultuali cantonali, mentre il
tempio B aveva una valenza ed un uso prettamente locali168.
La seconda considerazione è in buona concordanza logica con la
prima, ma si tratta di teorie per le quali ritengo doveroso
sottolineare la base genuinamente ipotetica, dal momento che, anche
in questo caso, se ne potrebbero proporre diverse altre con lo stesso
grado di verosimiglianza; sia perché i dati materiali non consentono
di tracciare cronologìe relative certe169,
sia perché le dinamiche sociali del villaggio, insieme a quelle che
lo vede in relazione con gli altri abitati della regione, meritano
uno studio ben più approfondito e che non può ridursi a poche righe
all’interno di pubblicazioni cariche di dubbi ulteriori (benché
perfettamente legittimi), su questo come su altri aspetti170.
In merito a questa seconda considerazione ritengo possibile avanzare
alcune brevi ipotesi, buone (eventualmente), nient’altro che come
basi ipotetiche di studio; i due edifici di culto, in relazione anche
ai due diversi recinti che li contengono, sembrano avere funzioni
diverse e complementari; se ammettiamo l’ingresso al recinto sacro
(il tèmenos
B), di esclusivo appannaggio di una classe sacerdotale, o anche di
semplici officianti non appartenenti ad una casta religiosa171,
e, invece, il recinto A come atto a contenere masse di fedeli
(provenienti da varî villaggi; e dunque non già un tèmenos),
evinciamo già due fasi diverse di un culto, o addirittura due culti
diversi. In questa visione non è neppure difficile immaginare,
appunto, due diversi avvenimenti cultuali, che si compivano in tempi
diversi e magari anche con frequenze diverse. Una gran massa di genti
riunita in nome di un qualche avvenimento periodico, ciclico, che
abbisognava di un momento cultuale per essere sancito; il culto, in
questo caso, è coadiuvante e, per certi versi secondario,
in seno alle ragioni del raduno. Dall’altro lato, al contrario, il
culto è elemento primario, dominante ed aggregante; espressione
della specifica cultura del villaggio. E qui prende corpo la
considerazione di Moravetti relativa allo spiazzo, volutamente non
interessato da strutture abitative (o d’altra natura, ma sempre
legata alla vita laica
e quotidiana del villaggio), da intendersi come spazio di riunione
durante i cicli cultuali esclusivi degli “Òrresini”, che si
stende tra l’ultimo isolato all’estremo S dell’abitato, e
l’isolato D172
(in questo caso dunque, da N verso S).
Se
così fosse, dovremmo pensare logicamente ad una strutturazione,
almeno di questa parte dell’abitato (cioè gli isolati D e il suo
dirimpettaio anonimo meridionale), edificati in fase, secondo un
progetto unitario, al recinto e, dunque e verosimilmente, al megaron
B; ovvero in seguito a questo (almeno l’isolato meridionale).
Quest’ultimo, in quest’ottica, rappresenta un ulteriore problema
interpretativo; se ammettiamo una sua strutturazione in fase o in
seguito alla costruzione del complesso sacro B, quale doveva essere
la sua funzione? Oppure si deve pensare ad una nuova fase insediativa
che non ebbe seguito? Tralasciando quest’ultima suggestione,
probabilmente non verificabile, può forse acquistare un qualche
senso la prima. Una zona legata alle attività religiose?
Tralasciando anche quest’altra suggestione, verificabile quanto la
prima, restiamo con il problema di conferire un quadro di omogeneità
urbanistica ad un gruppo di capanne non solo molto isolato dal resto
dell’abitato, ma adiacente nient’altro che ad un luogo di culto.
Il problema, in questa occasione, è quello di trovare delle fasi
edilizie in quest’area dell’insediamento, che possano chiarire
dei rapporti urbanistici volti a compensare, nei limiti del
possibile, le forti lacune stratigrafiche e dei rinvenimenti
materiali, particolarmente caratteristiche di questo villaggio.
Alcuni
dati non controvertibili: lo spazio tra i due isolati (ca 30 m in
profondità e ca. 15 in larghezza, ovvero rispettivamente nell’asse
EO e NS), è effettivamente sgombro da strutture o da resti di
queste. Ad Occidente, questo spazio, è chiuso dalla contorta
conformazione del tèmenos.
Se non esistesse l’isolato anonimo all’estrema periferia S
dell’abitato, si penserebbe nient’altro che ad un’area sacra
fuori da questo, a prescindere dalle fasi edilizio-urbanistiche
relative. Tuttavia, la presenza dell’ultimo isolato, così ben
“posizionato”, a chiudere uno spazio di accoglienza, incastra,
per così dire, queste parti dell’abitato a fasi molto vicine tra
loro, se non coincidenti.
L’ingresso
principale al tèmenos
(a SE; ma anche quello laterale ad E), si apre verso questo spiazzo,
ben sottolineato dal muro ricurvo a S. La volontà di dirigere la
dinamica relativa ai movimenti concernenti il recinto sacro è
piuttosto evidente; e questa dinamica ha le sue due direzioni (EO e
viceversa, ovvero entrata
ed uscita),
da
e verso
questo spiazzo.
La
forma del tèmenos,
tuttavia, con quel muro che gira verso lo spazio di accoglienza,
sembra correggere una posizione inizialmente prevista per un’altra
direzione, che sembra in effetti quella dell’ingresso stesso del
tempio, cioè a Meridione. Tuttavia è difficile immaginare
l’edificazione di un tempio a megaron
in fasi significativamente anteriori all’edificazione del tèmenos
che lo contiene.
Il
complesso sacro fu edificato, dati i rapporti urbanistici (tra i
quali quello fondamentale resta lo spazio di accoglienza di cui si è
parlato), opportunamente fuori (appena fuori) dall’abitato. Ovvero
l’abitato è stato altrettanto opportunamente edificato (e in
alcune sue parti, progettato), a ridosso del complesso sacro, senza
inglobarlo. In quest’ultimo caso si deve considerare l’isolato
adiacente all’area sacra come al più recente dell’intero
complesso insediativo.
Ipotesi
da scartare, quella di un insediamento successivo all’area sacra,
dati i rapporti urbanistici, specialmente significati dalla forma del
tèmenos,
la quale è in stretto rapporto con lo spazio urbano circostante.
Questi
intricati giochi di rapporti semiotici tra strutture architettoniche
ed urbanistiche, tra spazi, vuoti e pieni, portano ad una sola
conclusione: la contemporaneità degli edifici del villaggio, degli
isolati, e dell’area sacra B173.
In
questo quadro, una successiva (ma anche qui non
rilevante),
fase edificatoria relativa all’area sacra A, risulta perfettamente
coerente benché non certa. L’importanza del villaggio, ad esempio,
avrebbe potuto essere già in nuce al momento della sua stessa
edificazione, e il recinto cantonale essere previsto fin dall’inizio
in base ad un qualche particolare ruolo politico di Serra Òrrios, in
relazione agli altri insediamenti della regione. O anche,
addirittura, il complesso A avrebbe potuto non riguardare affatto
altre popolazioni ed essere integrale alla popolazione stessa di
Serra Òrrios, in relazione ad una complessità religiosa e di atti e
di momenti cultuali come la si è vista, benché in una situazione
architettonico-dinamica diversa, a Gremanu. Nulla esclude che gli
Òrresini avessero bisogno di due templi e di due aree diverse per le
varie fasi del loro evento religioso ciclico, o anche di più eventi
religiosi accadenti in tempi diversi.
Un'ipotesi
interessante sarebbe considerare il complesso A come precedente
l’area sacra B, e magari anche il resto del villaggio; ferma
restando la considerazione di intervalli cronologici comunque non
particolarmente importanti fra quelle che si possono definire
nient’altro che fasi edilizie o edilizio-urbanistiche. Un eventuale
indizio di anteriorità del tempio A rispetto al suo omologo di Serra
Òrrios, è la sua fattura; molto più regolare, e dunque
verosimilmente relativa ad un momento più recente dell’assimilazione
del modello architettonico del megaron,
mentre nel tempio B si notano già importanti elementi di
reinterpretazione dello stesso, come, maggiore fra tutti, l’arco
concavo che sostituisce il canonico spazio quadrangolare
dell’opistodomo, e che appare come una sorta di deriva verso la
cultura architettonica della società d’arrivo. Il resto è dato
dalla maggiore compattezza ed irregolarità della pianta, in una
visione evidentemente non compresa (o non ritenuta utile), della
simmetria tra le parti di un edificio. I nuragici non disconoscevano
la simmetria delle forme rettilinee, non solo in pianta ma, quel che
più conta, in alzato; le tombe dei giganti ne sono un esempio
perfetto; è perciò considerabile che l’asimmetria delle linee
rette del tempio B, più che da derive
o nostalgìe
possa generarsi da riflessioni prettamente architettonico-statiche,
che hanno portato gli architetti Òrresini a privilegiare la
stabilità e la compattezza a discapito della forma e del suo disegno
(altri elementi ai quali i nuragici non erano comunque insensibili,
come hanno dimostrato segnatamente a Gremanu, e a Domu de Orgìa)174.
Un
elemento a sfavore di questa ipotesi è rappresentato dal tèmenos
del tempio B, troppo raccolto attorno al tempio sì da far pensare a
un culto privilegiato rispetto ad altre attività aggreganti,
suggerite invece come primarie rispetto al culto nell'area sacra A.
S'Arcu
'e Is Forros
Il
territorio
Il
complesso templare si trova nel territorio comunale di Villagrande
Strisaili, a ca. 7 km a NO del paese, in un non esteso altopiano
chiamato Inter Abbas (in mezzo alle acque), perché chiuso a S dalla
confluenza dei due affluenti del Flumendosa: il Rìo Baccu Alleri e
il Rìo Isera Abbatrula; il primo discende ad Occidente (in direzione
S), ed il secondo ad Oriente nella stessa direzione. Il complesso
dista a ca. 300 m da entrambi i corsi d'acqua, rispettivamente a OSO
dall'Isera Abbatrula e ad ENE dal Baccu Alleri. A ca. 7,5 km a S
scorre il Flumendosa. Tutta questa fetta di territorio ha un'altezza
molto omogenea, che rimane intorno ai 990 m, mentre scende verso gli
870/840 nel corso del Rìo Isera Abbatrula e tra gli 890/840 del
Baccu Alleri.
Il
complesso si trova inoltre a poco meno di 7 km a ENE da Punta La
Marmora, la cima del Gennargentu.
Questo
quadro territoriale è pressoché identico, dal punto di vista della
scelta insediativa, ai tre finora presi in esame (a prescindere dalle
altimetrìe di Serra Òrrios,
molto minori, sotto i 200 m di quota); ovvero, in una visione
sintetica, un territorio aperto, (altipiani), non difeso
naturalmente, ad esempio in conche tra montagne, o vallate riparate
da sistemi collinari che ne preservino bene la vista, o da altri modi
insediativi che potremmo definire, genericamente, “difensivi”.
Una situazione aperta
dunque, che apre a sua volta ad interpretazioni, sull'elezione degli
insediamenti, che rientrano nel quadro già accennato del BF esposto
da Moravetti175
per Serra Òrrios,
con sistemi integrati di villaggi ed insediamenti in un dato
territorio, e da Depalmas176,
col sistema insediativo dei villaggi.
Se
i templi di Gremanu e, soprattutto, di Serra Òrrios erano integrali
ad un villaggio, il complesso sacro di S'Arcu 'e Is Forros somiglia
piuttosto al quadro monumentale di Domu de Orgìa, ovvero con
caratteristiche cantonali, di luogo sacro appartenente e relativo a
più comunità di villaggi. Una strutturazione, questa, per la quale
non sarebbe da escludersi una connotazione di relazioni sociali che
vadano oltre il solo fatto religioso, e che confermerebbe i quadri
del BF suesposti.
La
carta pedologica disegna una situazione abbastanza varia in merito al
territorio descritto, con quattro unità di paesaggio coinvolte; 4,
7, 11, 12. Gli ultimi due sono paesaggi di rocce intrusive, come
graniti
e granodioriti, formatisi
nel Paleozoico, e che comprendono l'area santuariale di S'Arcu 'e Is
Forros, segnatamente l'unità 11, che presenta classi di capacità
d'uso VII e VI, rispettivamente: VII;
suoli
che presentano limitazioni severissime, tali da mostrare difficoltà
anche per l'uso silvo pastorale.
VI; suoli
che presentano limitazioni severe, tali da renderli inadatti alla
coltivazione e da restringere l'uso, seppur con qualche ostacolo, al
pascolo, alla forestazione o come habitat naturale.
Le classi di capacità d'uso dell'unità di paesaggio 12 sono le
stesse della 11. Le unità 4 e 7 fanno parte di paesaggi su
metamorfiti, vale a dire scisti, scisti arenacei, argilloscisti,
formatisi anche questi nel Paleozoico. Le classi di capacità d'uso
dell'unità 4 sono anche queste le stesse: VII e VI, mentre quelle
della 7 sono VI, VII e IV; suoli
che presentano limitazioni molto severe, tali da ridurre
drasticamente la scelta delle colture e da richiedere accurate
pratiche di coltivazione. Un
quadro molto omogeneo sotto l'aspetto paesaggistico e della capacità
d'uso dei suoli, a prescindere dalla natura geologica di questi.
Le
classificazioni dei suoli di questo territorio sono:
4
= unità di paesaggio “B2”
|
Aree
con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sotto di 800-1000 m,
con scarsa copertura arbustiva ed arborea.
|
7
= unità di paesaggio “B5”
|
Aree
con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sopra di 800-1000 m,
con scarsa copertura arbustiva ed arborea.
|
11
= unità di paesaggio “C4”
|
Aree
con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sopra di 800-1000 m,
con scarsa copertura arbustiva ed arborea.
|
12
= unità di paesaggio “C5”
|
Aree
con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sopra di 800-1000 m,
con prevalente copertura arbustiva ed arborea.
|
Il
territorio nel quale sorge il complesso sacro è occupato al 70, 80%
dall'unità 11, un terreno nel quale era possibile solo un uso
pastorale e di pascolo, e nel quale l'agricoltura sembrava essere
pressoché impraticabile, per lo meno in forma intensiva. Neanche in
questo caso sono presenti indizî che lascino intravvedere la
possibilità di un utilizzo del suolo a scopi agricoli, previa
deforestazione, com'è teorizzabile per il territorio attorno al
nuraghe Arrubiu e in quelli attorno al megaron
Domu de Orgìa, e relativo agli insediamenti di questi territori; ma
è un'ipotesi da tenere in considerazione, non pro
forma,
ma per una concezione dell'insediamento come quella del BF, con
comunità di villaggio, presumibilmente unite da vincoli cultuali e
politici, che poteva comportare un'idea di sfruttamento del terreno e
del territorio che andasse oltre le sue possibilità naturalmente
offerte.
A
3 km a NO dell'area santuariale è presente un giacimento di ferro, e
ad una decina di km ad Occidente dei giacimenti di rame e piombo177.
Un'attività fusoria, a S'Arcu 'e Is Forros, è attestata in forni a
pochi metri dai templi, segnatamente ad una ventina di metri a NE del
tempio A, nei quali sono stati rinvenuti minerali metalliferi come
piombo, rame e ferro178.
La provenienza del metallo, fuso in questi forni, non è stata ancora
accertata, ma è difficile non far convergere lo sforzo
dell'edificazione di una struttura così voluminosa, come i forni a
lato di due templi, senza considerare un controllo pieno dello
sfruttamento dei giacimenti da parte degli abitanti degli
insediamenti che, a loro volta, controllavano il culto di S'Arcu 'e
Is Forros, anche se l'esempio di Gremanu179
pone problematiche per le quali servirebbero analisi ed indagini
specifiche.
L'area
santuariale e i templi
Area
santuariale
o area
sacra,
è forse l'unico concetto costante e coerente che si possa evincere
nei siti fin qui esaminati; al di là di questo non pare si possa
riscontrare una situazione che, a prescindere da elementi generali
(ad esempio l'isolamento dei templi rispetto agli insediamenti, come
Domu de Orgìa e S'Arcu 'e Is Forros; o l'inserimento di questi in
seno ai villaggi, come Gremanu e Serra Òrrios), presenti degli
elementi costanti che possano identificare categoricamente una
tendenza culturale specifica. L'unico elemento costante, che è anche
l'oggetto di studio di questo lavoro, è il tempio detto a megaron,
il quale però presenta una serie di differenze sia nella struttura
in sé, sia, cosa non meno importante, nella sua collocazione, che
finiscono per rendere il monumento non già un elemento carico di una
sua intrinseca specificità, ma di un ulteriore pezzo di una
semantica insediativa, cultuale, religiosa e perfino politica,
segnatamente relativa alla determinata situazione nella quale sorge.
Neppure il tèmenos
serve a dare una connotazione che sfugga a logiche locali, data la
varietà dei modi nei quali era concepito, e nei quali era concepita
la sua importanza e la sua funzione.
Non
lontano dall'area sacra di S'Arcu 'e Is Forros sono presenti il
nuraghe Lotzoracesa, monotorre, sito su un colle ed interpretato come
luogo di controllo del territorio180,
un altro nuraghe, Inter Abbas, anche questo edificato in alto, su un
costone di roccia e, vicina, una tomba dei giganti; infine un
villaggio, che sorgeva esattamente dove oggi sorge il complesso
templare, il quale ha inglobato alcune capanne, e verosimilmente
furono riutilizzati i conci di altre per l'edificazione degli edifici
del complesso.
L'edificio
maggiore è il megaron
detto A, con ingresso aperto a SE, misura 17 m di lunghezza ed ha una
larghezza variabile, che dipende dall'irregolarità dell'impianto,
che varia dai 5,50 m in postica
e i 6,50 ca. nella parte anteriore. Gli spessori delle mura variano
da 1,10 a 1,50 m, relative ad un impianto murario composto da conci
in granito, altri in scisto, di fattura irregolare e con zeppature
posteriori. Un impianto pesantemente irregolare ma, evidentemente,
non al punto da pregiudicare la statica dell'edificio, dal momento
che si è conservato non meno di altri meglio costruiti. E tuttavia
stupisce un impianto così mal eseguito, benché in ultima analisi
coerente con la considerazione di un tipo di edificio, il megaron,
inserito in seno ad una cultura che ha finito per reinterpretare il
modello originario adattandolo alle proprie esigenze cultuali.
L'altezza complessiva residua è di ca. 2,30/2,40 m sul muro di
fondo, nella parte centrale, e di ca. 2,50/2,60 nelle mura laterali
al centro, e si presentava, al momento del ritrovamento, abbastanza
omogeneo, cioè senza parti crollate. La struttura, nel suo insieme,
esprime possenza e compattezza. Si sono evidenziate due fasi
edilizie181;
nella prima l'ambiente interno era suddiviso in due stanze
rettangolari, separate da un muro laterale, con ingresso formato da
ante murarie aggettanti, architravato con finestra di scarico ancora
parzialmente conservatasi. Resti carboniosi, ritrovati nella parte
esterna dell'edificio, testimoniano di un incendio che ne ha
verosimilmente distrutto la copertura straminea, ed è forse a questo
evento che si deve la nuova strutturazione, improntata ad un
rafforzamento dell'impianto, che consistette nell'aggiunta di altre
quattro ante murarie interne atte a formare altri due ambienti, che
sono quelli attualmente conservatisi. Probabilmente si deve a questa
fase anche la parziale chiusura del vestibolo anteriore o pronao, con
due parti murarie aggiunte alle ante del vestibolo, in pietrame di
pezzatura diversa da quello della prima fase edilizia, e formante un
ingresso ed una facciata rettilinea. Il muro esterno è cintato da
una base in conci, interpretato sia come zoccolo di rincalzo con
funzione di rafforzamento della struttura,
sia come base per doni votivi182.
Dalle
pareti esterne del megaron,
prossime all'ingresso principale, dipartono le mura di un ampio
tèmenos,
di forma irregolare a doppio ellissoide (piuttosto uno
pseudo-tèmenos,
che è come verrà definito d'ora in avanti), che presenta ad E un
elaborato ingresso, con una sorta di breve vestibolo, ad un ambiente
circolare. Un altro ambiente circolare, una capanna, fu nulla meno
che tagliata dal muro di questo ampio ellissoide, forse riutilizzata
come ambiente adibito ad un qualche tipo di servizio relativo
all'attività cultuale che si svolgeva nel tempio. A SO dello
pseudo-tèmenos,
adiacente e tangente ma non intersecato, sorge un altro ambiente
circolare, verosimilmente un'altra capanna appartenente al villaggio
abbandonato, precedente all'arco di vita dell'area santuariale, ma
altrettanto probabilmente riutilizzata per scopi relativi a
quest'ultima. Questo pseudo-tèmenos
è cintato all'interno da un bancone-sedile. Le due ante in
opistodomo, del tempio, furono innalzate con una struttura muraria
diversa da quella del muro di fondo nel quale si innestano, e con uno
spessore diverso che lascia scarso spazio tra un'anta e l'altra. Una
simile strutturazione di due elementi, le ante posteriori che
dipartono da un muro chiuso, può venire, a mio avviso, solo da una
loro interpretazione come elemento di rafforzo statico dell'intera
struttura, a discapito della linea di quest'ultima e della sua
coerenza estetica.
Proprio
in prossimità dello zoccolo esterno di rincalzo al megaron,
furono rinvenuti blocchi di calcare arenaceo, con fori in funzione di
contenitori di spade votive, i cui frammenti furono pure rinvenuti
nello stesso livello stratigrafico, giunto a colate di piombo atto
evidentemente a fissare le spade all'interno dei fori nel blocco
calcareo. L'interno del tempio era pavimentato con un battuto
d'argilla ed anche le incerte pareti riportano resti di intonaco; nel
pavimento erano incassate delle olle e dei bacini di arenaria, per la
cui funzione l'ipotesi più verosimile è quella di contenitori per
acqua d'uso, evidentemente, cultuale. Dall'interno del secondo vano
parte una canaletta che, attraversando lo spessore murario, continua
all'esterno, delimitata da lastre ortostatiche e coperta da lastre
piatte. Un interessante accorgimento che denuncia un abbondante
utilizzo dell'acqua nel rituale praticato all'interno del tempio. Ai
lati dell'ingresso al vano circolare orientale all'ellissoide
pseudo-tèmenos,
furono anche in questo caso rinvenute basi calcaree per offerte, con
resti di spade fissate a queste col piombo183.
A
21 m a NE del tempio A si trovano due edifici cilindrici,
agglutinati, di notevoli dimensioni, che si sono rivelati essere dei
forni di fusione. Questi hanno misure leggermente diverse; il forno
più grande è ad Oriente e misura 7,50 m ca. di diametro (misurato
però in direzione NO/SE), mentre l'altro ha un diametro (misurato
nella stessa direzione), di 5,80 m ca. l'intera struttura, misurata
in direzione NE/SO è di ca. 10,50 m. L'altezza complessiva
dell'intero impianto è di ca. 2 m. Il forno ad E ha una sorta di
larga banchina che lo circonda quasi per intero, ben sistemata in
conci piatti e lisci di granito e scisto (le pietre locali).
Immediatamente all'esterno furono rinvenute scorie di lavorazione del
ferro, frammenti di oggetti bronzei e scaglie di roccia calcarea
trasformata in calce viva dalle temperature di fusione raggiunte
dalla fornace, usata per ripulire quest'ultima dalle impurità184.
Il forno “grande” ha un camino d'uscita per il fumo con diametro
di 1,70 m ca., e quello “piccolo” di 1,50.
Al
lato SO della struttura si trova una capanna, verosimilmente
preesistente alla fornace, il cui diametro è molto simile a quello
dei due forni: 6,50 m.
In
un lieve pendìo a 110 m ca. dal tempio A, in direzione N, sorge il
megaron
B. Lungo ca. 15 m e largo ca. 5,80, la cui particolarità rispetto al
modello canonico del megaron
è di essere absidato, e l'abside è considerata pertinente alla
prima delle tre fasi edilizie evinte per questo edificio185.
In questa prima fase, la fronte dell'edificio, si presentava invece
con le due ante come semplice prolungamento delle pareti laterali a
formare un pronao. L'interno era così formato da due ambienti, di
cui il primo era il nàos
o megaron
vero e proprio, di 4,65 m ca. di lunghezza e 3,50 di larghezza, e il
secondo, con parete concava, lungo 4,50 e largo 3,50 ca. Questi due
ambienti erano collegati da due ingressi formati da piedritti
aggettanti chiusi da un'architrave.
La
seconda fase vede l'aggiunta di due pesanti e ulteriori ante murarie
ad obliterare le due già esistenti, chiudendole fino a formare un
ingresso vero e proprio in asse con quelli interni. A queste due
parti murarie furono addossate le pareti di un recinto, di forma
irregolare, curvo ad O e rettilineo ad E, con ingresso a S anche
questo in asse con l'ingresso del tempio. Il recinto è circondato
lungo il suo perimetro da un bancone-sedile.
In
questa fase, sul fondo dell'abside, fu strutturato un complesso
altare, di forma convessa al centro, costruito con filari alternati
di pietre diverse che restituiscono un elegante gioco cromatico186.
La base è in ciotoli piatti di provenienza fluviale, su questa
furono poggiati conci squadrati, in opera isodoma, di basalto
marrone, sui quali poggia una fila di vulcanite arancione, sulla
quale ancora un'altra fila di basalto il cui concio centrale,
curvilineo e prominente, è stata scolpita una protome d'ariete in
bassorilievo, fortemente stilizzata e semplificata. Poi un altro
filare in vulcanite, con un concio più chiaro al centro, esattamente
sopra il blocco di basalto con protome, e di forma più stretta,
quadrata; e sopra un quinto filare sempre in vulcanite arancione ma
con al centro cinque blocchi di basalto scuro, con scolpita un'altra
protome di ariete nel blocco centrale. Al di sopra di questo era
poggiato un focolare, in posizione centrale, formato a sua volta da
blocchi di basalto, incastrati tra loro, cuneiformi. L'aspetto
complessivo di questo elemento voleva imitare e riprodurre,
stilizzata, la sommità della torre nuragica. I conci hanno profonde
e ben eseguite incisioni a cuneo e sporgono dal livello dei conci
sottostanti. Il focolare era raccordato alle mura laterali da filari
di mensole legate da grappe di piombo colato in fori a saldarle tra
loro.
Sempre
all'interno di questo ambiente si rinvenne un vano-ripostiglio
ricavato da lastre poste a coltello e coperte da una lastra piatta di
provenienza fluviale.
Pietre
come il basalto e la trachite non erano presenti sul posto ma
bisognava andare a prenderle a 50 km di distanza oltre il passo
Corr'e Boi, nella valle del Tirso, o in Ogliastra sulla costa, nel
territorio dell'attuale Barisardo.
La
terza ed ultima fase vede la ristrutturazione del recinto, con la
creazione ad E, lungo il suo lato rettilineo, di due ingressi che
immettono ad altrettanti ambienti, dei quali quello meridionale è
rettangolare (5 m ca. di lunghezza e ca. 3,60 di larghezza, ripetendo
all'incirca le misure della sala grande del megaron),
mentre l'ambiente adiacente, a N, è quadrangolare (ca. 3 m per 3)187.
L'aggiunta di questi ambienti deve aver modificato la forma
originaria del recinto.
Tessitura
muraria, uso dell'argilla per la pavimentazione, l'intonaco delle
pareti interne ed esterne, sono comuni ai due megara,
così da poterli ascrivere alle stesse fasi edilizie. I due templi
sembrerebbero, insomma, contemporanei.
Ad
un'ottantina di m a SSE dal tempio B ed a un centinaio a NE dal
tempio A si trova una struttura definita insula.
Si tratta di un complesso circolare formato da sette ambienti
trapezoidali, piuttosto irregolari, aperti su una corte interna, e di
altri ambienti aperti all'esterno. Dati i reperti rinvenuti
all'interno di questi ambienti è possibile ipotizzare la funzione
dell'insula
come una sorta di laboratorio artigianale multiplo; vasi come i
pithoi,
spade in bronzo frammentarie, bottoni, lamine bronzee, bacini e vasi
frammentari di varie tipologie, panelle di rame, lingotti a pelle di
bue sempre in rame, altri frammenti informi di bronzo utili alla
rifusione a al riutilizzo in una nuova forgiatura. In uno dei vani si
trovava, al centro, un grosso bacino in trachite che presentava varî
segni di fratture ricomposte con grappe di piombo fuso. In questo
stesso ambiente erano presenti varie olle verosimilmente utilizzate
per la raccolta dell'acqua. Vasi a bollilatte con grandi anse,
brocche piriformi e askoidi con decorazioni geometriche sono altri
reperti restituiti da questo vano. Un vano di piccole dimensioni è
strutturato con blocchi in granito del luogo, e un bacile di
trachite, al centro; nel lato SE di questo vano era aperto un foro,
presumibilmente usato per lasciar defluire l'acqua prima versata nel
bacile188.
Sulla curva N-occidentale dell'insula si trova un ambiente
rettangolare, i cui elementi interni, strutturali, e i reperti
metallici rinvenuti, lo qualificano senz'altro come officina fusoria.
In questo ambiente era presente un'ansa con decorazione a
cerchielli189.
Esattamente
a SO di questa insula
se ne trova un'altra; l'insula
2, della quale tuttavia restano in alzato solo alcune capanne. I
reperti rinvenuti in questa struttura, che aveva in origine una forma
analoga a quella vicina a NE, sono tra i più importanti per un
tentativo di datazione di questo e di altri siti analoghi, come
Gremanu e Serra Òrrios, per lo meno. Accanto a questa struttura si
trova una capanna che ha restituito delle brocche askoidi con fondo
ad anello, di cui una decorata da linee parallele e cerchielli
irregolarmente disposti; in tutto simili a quelle rinvenute negli
ambienti riutilizzati dell'abitato e nei tèmenoi
dei due templi, tutte decorate con motivi geometrici, da far pensare
a libagioni a base di vino, probabilmente portato qui da aree più
adatte alla viticoltura, nelle occasioni cicliche degli avvenimenti
cultuali e delle feste.
Gli
ambienti dell'insula
2 ruotavano attorno ad una corte ellittica con pavimentazione
lastricata in granito, mentre le mura degli ambienti erano lambite da
una banchina anche questa in granito. Nel vano detto 2 di questa
seconda insula,
insieme ad altri frammenti di vasi ceramici, ne è emerso uno,
segnatamente un'anfora frammentaria, la cui carenatura è stata
ricostruita, e nella quale era incisa un'iscrizione in scrittura
filistea190.
Questo tipo d'anfora è documentata dal XII, XI sec a.C., ma è
presente in Occidente a partire dal IX, VIII191.
Lasciando
al successivo capitolo le considerazioni in merito alle sequenze
cronologiche, ciò che è opportuno notare e considerare in questo, è
il quadro complessivo che emerge da questa breve lettura
dell'insediamento e delle sue parti, la quale, prescindendo da alcune
differenze che potremmo definire contingenziali, presenta una netta
somiglianza con l'insediamento di Gremanu, ed una meno netta con
Serra Òrrios.
A
Gremanu alcune vene sorgive scorrevano a profondità non troppo
elevate, così da poter essere captate e fatte sgorgare in pozzi dai
quali poi l'acqua veniva incanalata con sistemi che, per l'epoca,
dovettero significare un'innovazione ingegneristica eccezionale tale
da formare probabilmente un vanto per la società che li aveva
concepiti e realizzati. La società di Gremanu è una società
complessa, avanzata, evoluta. I canoni di rappresentazione che le
sono pertinenti sono da ricercarsi in un tenore di vita alto, in un
sistema di relazioni umane e sociali complesse, che trascendono la
dimensione del singolo villaggio, con un santuario monumentale,
verosimilmente concepito come centro d'attrazione per diversi
villaggi circonvicini, in una dimensione, dunque, di relazioni
politiche cantonali. L'elemento chiave, che corrobora la visione di
una società benestante,
è quello al contempo meno leggibile: l'importazione di piombo da un
territorio lontano come l'Iglesiente. Anche prescindendo dall'ipotesi
di una possibilità di sfruttamento dei vicini giacimenti del Corr'e
Boi, l'arrivo del piombo da un'area del tutto estranea a quella di
Gremanu e, principalmente, così lontana, comporta per forza di cose
sia un'alta capacità di spesa, sia una conoscenza ed un inserimento
in relazioni e rapporti commerciali e, per tanto, politici, che non
potevano avere caratteri estemporanei o “primitivi”, ma piuttosto
improntati ad una certa complessità e sperimentatezza, e di ampio
raggio192.
A
S'Arcu 'e Is Forros mancano le vene sotterranee, ma l'acqua è nei
pressi, segnatamente nei due affluenti del principale corso d'acqua
che comunque non scorre troppo lontano; per tanto le attività
cultuali e di lavoro (la fusione e la lavorazione dei metalli, che
comporta a sua volta l'uso dell'acqua), venivano rifornite, a quanto
pare, col trasporto manuale del prezioso liquido.
Il
fatto che l'area sacra non fosse pertinente ad un villaggio in
particolare, fa supporre la sua pertinenza cantonale, relativa a più
centri vicini, e la sua complessità, considerando anche gli elementi
litici non locali, utilizzati principalmente nel megaron B,
testimoniano di uno sforzo economico, e dunque di una notevole
possibilità di spesa, ben evidenziata dai resti delle attività
fusorie, evidentemente legate al culto stesso, praticato nei templi e
nei recinti sacri di S'Arcu 'e Is Forros. Vorremmo conoscere la
provenienza del metallo usato e lavorato in questa località,
considerando anche quello di provenienza non sarda, ma le somiglianze
con Gremanu e l'intensa attività culto-fusoria non lasciano molto
spazio al dubbio relativo alla considerazione dell'abbondanza di
possibilità anche della, o delle, società che strutturarono e
controllavano questo santuario.
Anche
in questo abbiamo dei luoghi per abluzioni, ed altri di culto
relativo al dono di spade votive da inserire in fori piombati dentro
blocchi litici, come a Gremanu, ed anche qui le dinamiche del culto
non sono da considerarsi immediatamente leggibili con una casta
sacerdotale, unica autorizzata all'ingresso in determinati luoghi
sacri, come le sale dei templi ad esempio, ed i fedeli fuori ad
aspettare. La struttura di Gremanu, col suo sistema di ingressi,
suggerisce maggiore prudenza in merito a suggestioni come questa;
laddove l'ultimo spiazzo presenta due ingessi-uscite, difficilmente
spiegabili con la proibizione e il divieto differenziale che
discrimina tra sacerdoti e fedeli “laici”. La struttura può
forse apparire caotica a noi, oggi, ma la sua razionalità
strutturale e semantica è innegabile; e due aperture nell'ultimo
spiazzo, quello del megaron
e del tempio circolare, acquistano un senso solo se si spiegano con
un flusso simultaneo. Questo, per tanto, se in una sola direzione
(ingresso o
uscita), è ipso facto relativo ad una moltitudine, e se nelle due
direzioni (ingresso e
uscita), è da intendersi allo stesso modo, con una componente di
ordine e sincronìa nelle azioni, che nel primo caso non si evince.
A
S'Arcu 'e Is Forros mancano elementi che facciano sospettare una
simile dinamica nell'espletazione cultuale, ma l'esempio di Gremanu,
null'altro che un indizio, ma significativo, apre la possibilità di
un simile scenario anche a S'Arcu 'e Is Forros. In ogni caso, la
somiglianza degli elementi cultuali ed architettonici, fin nei
dettagli, tra i due siti, legano le due situazioni sia ad una fase
cronologica contemporanea, sia ad un identico o analogo tenore
economico e, verosimilmente, anche allo stesso tipo di economia che,
a questo punto, definire null'altro che pastorale appare decisamente
riduttivo.
Le
due insule
circolari di cui sopra193
presentano alcune analogie con le insule-quartieri,
o isolati, di Serra Òrrios. Per lo meno con l'isolato C, quello cioè
più concentrato e con gli ambienti uniti tra loro da mura in comune,
non semplicemente addossati o uniti da altri muri. Piccoli ambienti
stretti attorno ad uno spazio centrale e centripeto, unitamente
concepiti, come le due insule di S'Arcu 'e Is Forros. Queste ultime
sono concepite con una chiusura strutturale totale, cioè come
circoli geometricamente conclusi, mentre l'isolato C, e segnatamente
le sue parti più centrali, non presentano questa autoreferenzialità
formale, ma si aprono al dialogo con le altre parti dello stesso
isolato e di quelli adiacenti, oltre che alla funzionalità per i
suoi abitanti e/o utilizzatori. Inoltre Serra Òrrios sembrerebbe un
villaggio vero e proprio e non un luogo sacro interessato da
frequentazione periodica ma non continua194.
Queste differenze, pur fondamentali, non escludono ad esempio che le
insule (o il modello che le concepì), non abbiano costituito un
esempio proprio per gli urbanisti Òrresini, al momento di concepire
in seno all'abitato stesso delle aree di lavoro, la cui natura sembra
però destinata a sfuggirci. In questo caso prenderebbe corpo la
ricostruzione di Moravetti195,
con le sole capanne maggiori come ambienti abitativi e quelle minori,
con gli ambienti quadrangolari, specialmente dell'isolato C, adibiti
solo ad usi lavorativi e di rimessa196.
Tentativo
di inquadramento culturale e cronologico
Approdo
in Sardegna
Prescindendo
dall'ampia problematica dei vettori e delle genti che nell'arco di
diversi secoli, precedenti all'epoca coloniale fenicia nell'isola,
sbarcarono in Sardegna, è intanto d'obbligo segnalarne la ragione, o
la ragione principale, almeno in un primo lasso di tempo: i metalli e
i loro approvvigionamento. Il panorama degli scambi è vasto e
complesso, dal momento che rame cipriota, in forma di pelle di bue e
panelle, forme egee e levantine, sono abbondantemente presenti in
Sardegna197.
In uno scenario precedente la colonizzazione fenicia (e Greca
nell'Italia meridionale), avventurieri ricercatori, naukleroi,
committenti, controparti commerciali, ospiti imbarcati, mercanti con
e senza navi proprie, “nazionalità” dei naviganti qualunque
fosse la loro funzione e il loro status,
nelle navi e nei viaggi per mare, non definibili con semplici
automatismi storiografici come “vaso greco equivale a vettore e
mercante greco”, possono delinearsi solo grazie all'osservazione
dell'aspetto quantitativo, in relazione ad esempio ai rinvenimenti e
alle testimonianze d'altro genere, e quindi al numero e alla
persistenza di queste, nel tempo, e alla loro diffusione nello spazio
isolano.
Un
elemento quantitativamente importante è la ceramica micenea,
presente in varie parti della metà meridionale dell'isola (il
rinvenimento più settentrionale si trova nel limite N del Golfo di
Orosèi)198.
Queste realtà archeologiche presentano i caratteri di una lunga
frequentazione e di una certa confidenza nella conoscenza dei
territori sardi interessati dalla stessa. Una prima fase la si può
segnalare grazie ad un frammento ceramico rinvenuto a Tharros, e da
un contenitore ceramico di balsami e profumi, segnatamente un
alabastron,
rinvenuto nel nuraghe Arrubiu in territorio di Orroli. Questi due
elementi sono datati tra la fine del XV e gli inizî del XIV sec
a.C.199,
periodo che equivale al TEIIb200,
o TEIIIa201,
secondo diverse teorie. Lucia Vagnetti propone per l'alabastron
di Orroli una datazione di poco più tarda: dal TEIIIa agli inizî
del TEIIIb, vale a dire nel pieno XIV sec. a.C.202,
considerando la relazione tra il reperto di Orroli e quello di
Tharros.
L'alabastron
di Orroli fu rinvenuto frammentario nello strato 3 del cortile B,
relativo alle fasi di edificazione del complesso nuragico, nel
battuto pavimentale della torre A, e in uno spazio laterale del
corridoio che congiunge il cortile e la torre203.
Il cortile, e l'intero impianto di cinque torri della complessa
struttura nuragica di Orroli, sono datati alla fine del XIV sec. a.C.
e dunque in pieno TEIIIb:1204.
Questi
due sono tra gli elementi che rappresentano la fase più antica
(accertata), della presenza di ceramica micenea in Sardegna, mentre
di poco successivi sono i più cospicui rinvenimenti del nuraghe
Antigòri di Sarroch, datati al TEIIIb:1205,
segnatamente in un arco cronologico che va dal 1320 al 1250 a.C206,
lasciando la possibilità ad altri rinvenimenti nello stesso contesto
che conferiscano datazioni più alte. Più o meno databili
all'alabastron
dell'Arrubiu sono diversi frammenti la cui forma vascolare non appare
certa ma si tratta verosimilmente di un altro alabastron,
rinvenuto in territorio di Orosèi, ed anche questo datato al
TEIIIb207.
Questo
tipo di oggetti, come l'alabastron,
appartengono al corredo funerario in ambito ellenico continentale e
specialmente nella stessa Micene, mentre è assente in ambiti d'uso
quotidiano e domestico. È
però molto diffuso in ambito mediterraneo, come oggetto
d'esportazione208.
Non sarà inusitato considerarlo nel novero degli oggetti
d'accompagno, o di scambio-dono, nell'ambito di attività
commerciali.
Ha
destato doverose perplessità, e stimoli all'indagine e all'analisi,
la presenza di materiale allogeno, non sardo, in un'area interna come
quella del nuraghe Arrubiu, in considerazione delle capacità di
penetrazione all'interno da parte di mercanti navigatori levantini,
da un lato; e delle capacità d'attrazione dei nuragici dell'interno,
dall'altro. Le ipotesi e gli scenarî
possibili che spieghino questa presenza sono innumerevoli, tutti
plausibili e nessuno, per il momento, verificabile. L'unica
considerazione che trovo doveroso fare è quella che vede nient'altro
che un contatto, ovvero una conoscenza, che potrebbe essere solo
unilaterale, ovvero dei nuragici del territorio di Orroli, nei
confronti dei levantini e non viceversa, in considerazione di un
contatto indiretto, mediato da altre genti nuragiche costiere. Ma
questa è una visione, non più valida di altre che vedono gli stessi
costruttori del nuraghe Arrubiu entrare in contatto diretto, come
contraenti, con i mercanti egeo-levantini e non necessariamente nel
loro territorio.
Più
importante è, ai fini di questo discorso, porre l'attenzione sui
reperti micenei rinvenuti ad Orosèi. Ovvero in un'area orientale
molto vicina alla costa, e lontana dagli ambìti giacimenti
metalliferi occidentali del Sulcis e dell'Iglesiente. È
non lontano da qui, infatti, che sorgono i megara
oggetto di questo studio.
L'orizzonte
cronologico di questi rinvenimenti è più alto rispetto a quello
intravisto finora relativamente ai megara,
un orizzonte che in ambito nuragico abbraccia le fasi finali del BM,
l'intero BR e prima degli inizî del BF209;
ovvero l'ultimo periodo del Nuragico II e quasi tutto il Nuragico
III210.
Prima,
dunque, che avvenissero quei cambiamenti che portarono al tramonto
della torre e dell'edificio nuragico in quanto struttura dominante
gli insediamenti e la cultura dei nuragici; prima dei cambiamenti
sociali e politici che caratterizzano il BF, elementi egei, mediati
forse da vettori ciprioti ed orientali (che allora non erano ancora
fenici),
trovarono in Sardegna una o più ragioni per affrontare viaggi in
nave, con tutte le difficoltà relative e legate ai venti, agli
approdi intermedî,
agli approvvigionamenti d'acqua e di cibo. Che queste ragioni
convergessero principalmente nella ricerca di giacimenti metalliferi
o nella compravendita di metalli in un traffico ed un commercio
intrecciato di metalli comprati e venduti, lavorati altrove o in
loco, rivenduti in forma di lega con l'aggiunta di altro metallo
trovato altrove e lavorato in un altro altrove ancora (cioè lo
stagno, trovato in giacimenti lontani dalla Sardegna, come nella zona
di Huelva in Andalusia, ad esempio, fuso col rame orientale e poi
rivenduto come bronzo in frammenti o in forme da trasporto con peso
noto; panelle e lingotti a pelle di bue, in Sardegna), sembra
assodato al punto da adombrare altre eventuali ragioni di traffico,
legate o meno ai commerci marittimi. Merci di genere d'uso
alimentare, di consumo quotidiano od occasionale, merci legate alla
sfera del sacro e dell'incontro simposiale, molte delle quali in
metallo, appunto, ma oggetti forse legati alla sfera dello
scambio-dono, dell'incontro tra intermediarî, od anche soltanto
fughe politiche da terre natali non più ospitali (che trovarono
dimensione leggendaria in epoche storiche documentate). Tutto questo
può essere passato per il Golfo di Orosèi, e a S di questo, nella
costa orientale, dove gli approdi non dovevano mancare211,
anche se certamente meno sperimentati che a Meridione e ad Occidente.
I
due frammenti di ceramica micenea, a N e a S dell'ampio golfo
orientale sardo, non raccontano storie, non parlano di ragioni
precise e specifiche di contatti tra sardi e micenei o levantini, e
infine sono considerati poco più che un fatto statistico, mentre
l'attenzione è quasi tutta puntata sull'abbondanza del golfo
meridionale, quello degli Angeli e della futura Karales;
ma più che alla povertà quantitativa di questi reperti, si dovrebbe
forse gettare lo sguardo proprio alla loro ubicazione. Un rapido dato
statistico conforta sulla non casualità di questi rinvenimenti; è
quello che considera una maggiore quantità di dati perduti rispetto
ad un totale originario, che doveva per tanto essere molto più
consistente. Il problema semmai è quello di identificare questo
totale originario, non necessariamente fatto di alabastroi
o altra ceramica da corredo, e neppure necessariamente da cercarsi
sulla costa o nelle sue vicinanze. Ma anche prescindendo da questa
considerazione, i due frammenti ceramici micenei, nelle coste della
Sardegna orientale, indicano un contatto, un momento di conoscenza
tra genti d'oltremare e sardi, e in un contesto dagli indizî
precisi, difficilmente interpretabili come incontri casuali; quelle
aree erano approdi attraverso i quali e dai quali far passare merci,
beni, genti. Inoltre, considerando la navigabilità (anche solo in
alcuni periodi storici, oltre che stagionalmente, e probabilmente
solo per dei tratti), dei due grandi corsi d'acqua che sfociano a S e
a N del Golfo di Orosèi212,
possiamo immaginare le imbarcazioni che risalivano, fin dove
possibile, queste vie d'acqua (comunque buone per il ricovero delle
barche), fino all'incontro, in scali non più rintracciabili, con i
contraenti locali. Anche queste sono nulla più che ipotesi, ma sulle
quali insisto, sia perché degli scali, e dunque dei contatti, nel
Golfo di Orosèi sono tutt'altro che inverosimili, sia perché l'idea
della sola via da Meridione, per i contatti tra le genti interne,
segnatamente gli abitanti dell'insediamento relativo al nuraghe
Arrubiu, o altre ancora più lontane dagli scali meridionali, non è
convincente. L'imponenza e l'importanza del complesso Arrubiu non si
può spiegare solo con un potere locale esercitato da dubbie
aristocrazie sulle genti degli insediamenti della zona, in una sorta
di isolamento autosufficiente, ma è da prendersi in considerazione
una capacità di spesa e di scambio non dissimile da quella delle
genti delle coste meridionale e occidentale, ed un ampio raggio di
azioni e vedute.
Anna
Depalmas accenna ai frammenti dell'alabastron
del nuraghe Arrubiu segnalando l'assenza di materiale nuragico
associato, nello stesso strato213,
in seno allo svolgimento delle problematiche di datazione del BM. Il
materiale ceramico rinvenuto nei battuti pavimentali della torre A
del nuraghe Arrubiu, sovrapposti al vespaio di pietre con le quali si
è inteso, in quella zona, appianare il dislivello della roccia
naturale, e dunque anche qui in una fase di edificazione (come il
cortile B), si compone di “(…) tegami,
olle con orlo ingrossato verso l'esterno di vario tipo, anse a nastro
a gomito rovescio, ciotole, doli con anse a X (…)”214.
Tuttavia, olle a tesa interna con decorazione impressa, diffuse
principalmente in contesti funerarî
e raramente in nuraghi a falsa volta, sono state rinvenute nei
cortili del nuraghe Arrubiu, mentre altri materiali pertinenti sempre
al BM sono venuti alla luce nel villaggio di Su Muru Mannu a Cabras
dove, anche se fuori contesto, è stato rinvenuto il frammento di
vaso miceneo di cui si è parlato215.
Queste relazioni di materiali sono pertinenti al BM2, ed a fasi
avanzate dello stesso, in un panorama cronologico che risale fino
agli inizî del XIV sec. a.C. All'interno della tomba dei giganti di
San Cosimo di
Gonnosfanadiga, insieme a materiale del BM2 (di una fase media e
tarda), si rinvennero delle “(…) perle
di vetro blu e verdi, altre di faïence
verde chiaro, dei tipi a rotellina dentata e cilindroide segmentata
di importazione egea del TEIIIa:2 (…)”216;
vale a dire in un arco relativamente ampio del XIV sec. a.C.;
1375-1320217,
o (più ampio), 1390-1330218.
Seppur
con qualche margine di incertezza si può marcare l'associazione tra
la ceramica micenea, rinvenuta al nuraghe Arrubiu, al BM;
principalmente nella sua seconda fase e, più in generale, la
presenza micenea (intendendo il concetto di presenza micenea in senso
molto lato), alla stessa fase. Questa, in ambito miceneo, non
scenderebbe oltre il suddetto TEIIIa:2, con relativa datazione, che è
quella della fase di costruzione dei palazzi e del sistema palatino219.
L'ordine
cronologico proposto da Depalmas220
corrisponde esattamente a questa fase dell'epoca micenea, che è
l'età dell'espansione della cultura di Micene dopo la caduta del
sistema minoico. Queste presenze, ed a prescindere dalla loro
esiguità, sembrano rappresentare un primo approccio all'esplorazione
del Mediterraneo occidentale da parte di genti egee, un approccio che
si trasformerà in una frequentazione quantitativamente più
consistente, tempo dopo, nel panorama cronologico offerto dai
ritrovamenti dell'Antigòri di Sarroch. Non ci addentreremo nella
descrizione di questa realtà archeologica, della quale, in questa
sede, ha senso unicamente indicare la portata quantitativa; il più
consistente e significativo bacino di rinvenimenti di materiale
ceramico egeo-levantino dell'isola, compreso, (fatto di non
secondaria importanza), di imitazioni locali. E la sua cronologia.
Il
nuraghe si trova “(…) a
ridosso degli approdi del Capo di Pula e del sito di Nora, dove
sorgerà più tardi un importante insediamento fenicio, e occupa una
posizione strategica di primo piano trovandosi all'imbocco delle vie
di penetrazione interna che conducono nella regione metallifera del
Sulcis.”221
Questa è già una dichiarazione d'intenti, ovvero un marcamento
territoriale, evidentemente fatto all'interno di un clima di scambio
economico coi nuragici. Il fatto che quell'avamposto sia stato poi
occupato dai fenici non fa che dimostrare le intenzioni degli egei
per le quali, senza scomodare concetti quali il colonialismo
(e le problematiche concettuali che porta con sé), potremmo parlare
di stabilimento,
di avamposto;
concetti che indicano più una intenzione d'azione futura, o
prolungata nel tempo, che un fatto chiuso in sé, autoreferenziale,
come lo stesso concetto di colonialismo. La mappa (che sarà da
pensarsi in aggiornamento costante), dei ritrovamenti di reperti
egei, non solo ceramici222,
vanno dal Golfo degli Angeli a quello di Oristano (con reperti
rinvenuti all'interno della piana campidanese), in quello che sarà
il triangolo di fuoco della futura occupazione fenicia di queste
coste. In un progresso di frequentazione che avrà un importante
seguito (benché non lunghissimo se paragonato ad altre avventure,
queste sì, coloniali, come appunto quella punica) e, per quel che
qui importa, un importante arco cronologico223.
Dal
1300 al 1050 a.C.224,
ovvero dal TEIIIb:1 al TEIIIc225;
cioè in una fase già addentro al TEIIIb:1, fino alle prime fasi
dell'età Protogeometrica226.
In questo lungo lasso di tempo la cultura micenea ha già vissuto
ascesa e caduta, apogeo e decadenza227,
ed in questo quadro assumono importanza i vettori, o la nazionalità
dei viaggiatori-esploratori. Questi sono da identificarsi con genti
certamente egee, continentali ed insulari, ma anche, o
principalmente, cipriote, con apporti levantini228.
Siamo in piena bufera del XIII sec. a.C. che, anche se
indirettamente, ha portato a cambiamenti anche negli equilibrî
del Mediterraneo occidentale, mutando i protagonisti delle avventure
esplorativo-insediative prima e prettamente coloniali in seguito.
Tuttavia, considerando le ceramiche d'imitazione micenea di
produzione sarda, fin dentro le fasi dell'età del ferro, oltre che
del BF, non si può fare a meno di prendere in considerazione un
fenomeno che è tipico (per usare un concetto banale), della
Sardegna: l'endemismo, espresso in ogni suo aspetto (anche zoologico
e botanico); in questo caso lo si può chiamare forse
conservatorismo,
delle forme, delle usanze. La componente micenea, intendendo il
concetto sotto l'aspetto prettamente culturale, continua ad essere
presente nel variegato panorama umano degli approdi nell'isola, in
questo periodo di decadenza e crollo della propria compagine politica
e culturale, ma i protagonisti, i padroni
delle rotte, sono ormai cambiati.
L'impatto
miceneo dovette essere notevole tra i nuragici, e può darsi che,
sotto l'aspetto archeologico, la sua consistenza sia adombrata e
coperta (almeno in una certa misura), dal futuro complesso di
impianti coloniali fenici, che hanno così fortemente caratterizzato
il panorama culturale della Sardegna antica. La presenza micenea si
presenta, tuttavia, come un fenomeno non occasionale, non giunto a
maturazione, eppure notevole, di difficile ed incerta qualificazione,
ma non sottovalutabile e, certamente, da indagare meglio.
I
megara
Nei
quattro siti descritti, nei quali sono presenti i megara,
i pochi materiali che si possono far risalire ad età precedenti al
BF, Fe:1 sembrano, come in parte nel caso di Serra Òrrios, materiali
giunti lì da altre strutture più antiche, o almeno così vengono
interpretati229;
mentre nei casi di Gremanu, Domu de Orgìa e S'Arcu 'e Is Forros
appartengono a strutture alle quali si sono sovrapposti gli impianti
presenti a tutt'oggi, o ad altri rinvenimenti dai contesti non
chiari. Nonostante la lacunosa documentazione è tuttavia agevole
distinguere almeno un dato: il numero dei materiali pertinenti a fasi
del BF e del Fe, sono numericamente preponderanti rispetto alle
sporadiche apparizioni di ceramica precedente, che non pare, in ogni
caso, risalire oltre la fase 2 del BM230.
Una non meglio precisata ceramica decorata “a pettine”, rinvenuta
in una zona non precisata del complesso templare di Gremanu231,
è da attribuirsi al BR232.
I materiali precedenti le fasi BF/Fe:1 sono pertinenti al materiale
di sterro degli scavi clandestini, alle zone a ridosso delle mura
delle strutture, principalmente il muro settentrionale del grande
recinto, e negli strati di crollo e, anche qui, distruzione da sterri
clandestini del tempio circolare, che appare come precedente le fasi
della struttura del tèmenos.
Il restante materiale, proveniente dai pozzi, dall'esterno del
megaron,
dagli strati sconvolti del tempio circolare, e da altri strati
decontestualizzati, appartiene ad un panorama del BF e Fe:1.
Le
spade votive sembrano rappresentare un problema; l'attribuzione è al
BR, ma sarebbero da considerare meglio e da separare le fasi di
frequentazione dei santuarî, relativi a questa fase, e i santuarî
stessi233.
A Gremanu l'edificio circolare sembra aver avuto una vita precedente
quella contemporanea al megaron
e all'intero recinto sacro che ingloba quest'ultimo, qualunque sia
stata la sua precedente funzione. Tuttavia, e proprio in virtù dei
dubbi espressi circa l'attribuzione alle fasi cronologiche delle
spade votive, l'assenza di un nuraghe dovrebbe far rientrare Gremanu
e la sua area sacra, insieme al complesso di impianti idraulici, a
fasi del BF ed oltre234.
Ritengo sia utile segnalare, tra l'altro, la lunga durata nel tempo
degli oggetti sacri, in virtù del carattere di conservazione delle
attività religiose e rituali.
Materiali
relativi al BF e al Fe:1 sono certamente apparsi nell'edificio C,
absidato: olle con anse a gomito rovesciato, ciotoloni con orlo
rientrante, ciotole carenate, un'ansa di brocca piriforme235.
Questi materiali furono rinvenuti in quello che l'archeologo che
scavò definì: “strato
archeologico”,
e nient'altro, senza nominare altri materiali. Il tempio C si
presenta in effetti come un bacino chiuso (le uniche devastazioni le
subì a causa degli sterri clandestini che, in questo caso, pare
abbiano risparmiato la stratigrafia e si siano limitati al parziale
abbattimento delle ante che chiudevano la vasca interna), e se la pur
avara informazione significasse il concetto di una stratigrafia
integra, per altro in un bacino chiuso e relativamente modesto in
quanto a dimensioni, potremmo aver trovato finalmente l'ordine nel
caos, per lo meno a Gremanu. Se i ciotoloni
ad
orlo
rientrante
del tempio C corrispondono agli scodelloni
ad
orlo rientrante
allora siamo nel Fe:1; le anse a gomito rovescio e le ciotole
carenate236
riportano a orizzonti precedenti, ovvero alla fase I del BF ma anche
oltre; mentre la brocca piriforme è da ascriversi al Fe:1237.
Se
lo strato
archeologico
corrisponde al momento di frequentazione primaria di questo ambiente,
ovvero, come ipotizzato, ad una vasca per bagni lustrali, e le forme
rinvenute rimandano all'uso dell'acqua, è forse possibile datare
l'intero complesso agli orizzonti segnalati da quest'ultimo ambiente,
dal momento che la sua fase edilizia coincide con quella dell'intero
tèmenos,
che comprende il megaron,
mentre il tempio circolare è da ascriversi ad una fase anteriore.
Serra
Òrrios presenta una quantità di materiale ceramico ben studiata a
fronte della sua pressoché totale decontestualizzazione
stratigrafica. Oltre ai citati frammenti Bonnanaro, sono “(…)
Ampiamente
documentati i tegami d'impasto
(…) con
caratteristico corpo troncoconico, talvolta munito di ansa o di
presa. Accanto ad esemplari lisci spiccano numerosi frammenti, per lo
più pertinenti al fondo dei recipienti, che mostrano sulla
superficie interna una decorazione a pettine impresso o strisciato,
peculiare qui, come altrove, di questa classe vascolare
(…)”238.
Numerosa ceramica non classificabile a causa del suo pessimo stato di
rinvenimento; numerose tazze carenate, anse riferibili a brocche
askoidi239
variamente decorate ed altro materiale datato ad un orizzonte
avanzato che va dal Geometrico all'Orientalizzante; segnatamente
VIII-VII sec. a.C. Questo il materiale più significativo.
Lo
stato delle indagini, la scarsità quantitativa del materiale
rinvenuto, sono elementi che non lasciano spazio a conclusioni. Si
possono tuttavia tentare delle ipotesi o, meglio, considerazioni, per
altro sulla scia di quelle già proposte da chi ha studiato i
materiali, con la sola correzione relativa al dato sulla ceramica
con decorazione “a pettine”. La scarsità quantitativa dei
materiali è contrastata dalla sua varietà, che parla di una società
vivace, attiva, in un quadro dinamico vario, improntato ad una certa
ricchezza o benessere. Questo non è da considerarsi conseguenza di
un lungo periodo di frequentazione, semmai suggerito dal materiale
ceramico, perché sarebbe tutt'altro che inusuale un momento di
benessere effimero e di breve durata. In effetti è proprio il
materiale fittile, e specialmente la segnalata tipologia “a
pettine”, a marcare una lunga fase di vita del villaggio, il quale
appare come l'unico (fra quelli qui indagati), a non presentare
superfetazioni o sovrapposizioni con fasi precedenti, come si
evincono inequivocabilmente a S'Arcu 'e Is Forros, Domu de Orgìa e,
anche se in una situazione resa più caotica dagli sconvolgimenti
degli sterri clandestini, a Gremanu240.
L'arco
di vita di Serra Òrrios si conclude attorno al VII o addirittura VI
sec. a.C241.
A fasi dell'età dell'ultimo periodo del BF e del pieno Fe, sono
riferiti i materiali bronzei rinvenuti nel villaggio, a parte alcuni
elementi non databili sia a causa dello stato troppo frammentario in
cui si trovano, sia perché alcuni hanno forme che non si riscontrano
in tipologie note. Un pugnale datato, grazie ad accostamenti
tipologici, alla fine del X inizî IX sec. a.C.; un attacco di
recipiente bronzeo datato secondo accostamenti all'VIII sec. a.C.,
tra gli altri. Notevole infine la presenza di numerosi braccialetti,
tra i quali uno d'argento massiccio “ad
ellisse aperta”,
non databile242.
I
pochi ma varî materiali rimasti, in un villaggio di un centinaio di
capanne243,
hanno fatto pensare ad un abbandono dell'abitato, in un periodo non
precisato del VI sec. a.C., nel quale gli abitanti abbiano operato
una scelta dei beni da portar via o, forse, da salvare.
Un
arco di vita singolarmente lungo del villaggio di Serra Òrrios,
ovvero una lunga fase che sembrerebbe poter iniziare nelle prime fasi
del BR, stando alla ceramica decorata “a pettine”, unico indizio
di una fase così alta (se si escludono i due frammenti Bonnanaro,
che si possono a mio avviso serenamente attribuire ad una presenza
casuale, non pertinente all'arco di vita del villaggio), una fase di
800 anni ca. sembra eccessivamente lunga, principalmente in
considerazione dell'assenza di torri nuragiche pertinenti al
villaggio244,
le quali proprio nel BR iniziano a diffondersi nella forma evoluta
detta a tholos245.
Serra Òrrios invece si caratterizza, tra le altre cose, proprio per
il suo disegno urbano ed insediativo riscontrato come pertinente al
BF, cioè nell'epoca di abbandono della torre nuragica, assente nel
villaggio o nei suoi pressi, e per il suo appartenere, secondo una
teoria che trovo in tutto e per tutto da accogliere246,
ad un consesso di villaggi di un determinato circondario, legati da
vincoli politici e, dunque, anche cultuali. Anzi, sarebbe proprio
questo aspetto, segnatamente quello del culto cantonale, come
sembrerebbe dall'ampio recinto che ingloba, in posizione marginale,
il tempio A.
La
parte indagata del villaggio, ovvero quella qui esaminata sotto
l'aspetto architettonico e urbanistico, presenta caratteri di
coerenza strutturale, alla quale i due megara
sono integrali, pur con qualche differente “fase interna”, a mio
avviso, in seno a questa panoramica. Esiste la possibilità che la
ceramica decorata “a pettine” possa appartenere ad una fase
avanzata, fin nel BF247,
cosa che abbasserebbe gli inizî dell'arco di vita del villaggio ad
un'epoca pertinente alla sua ubicazione, all'urbanistica e
all'assenza della torre nuragica come edificio primario e dominante.
Di
più, su Serra Òrrios, non è possibile dire con certezza.
Materiale
ceramico del BR è significativamente presente nell'altopiano di
Pran'e Muru, cioè proprio nei pressi del nuraghe Arrubiu, nei
diversi insediamenti, numericamente più consistenti di quelli
presenti nell'altopiano nel quale sorge il grande megaron
di Domu de Orgìa. Informazione che conferma una continuità di
frequentazione di questo territorio, almeno fino a questo periodo, ma
anche oltre, se si considera il dato stratigrafico dell'ultimo
orizzonte di vita segnalato per lo stesso nuraghe248.
Anche
il tempio di Domu de Orgìa, e l'ampia area compresa dal suo tèmenos,
si sovrappongono ad un insediamento precedente249.
I materiali pertinenti a questo (rinvenuti in una capanna poi
convertita nella struttura d'accesso all'area sacra), sono piuttosto
scarsi dal punto di vista del numero, e varî sotto l'aspetto
tipologico: pestelli, macine, lisciatoî,
denti di falcetto, schegge di ossidiana, ciotole e olle frammentarie.
Tutti materiali che sembrano pertinenti ad azioni di vita domestica e
di attività lavorative lontane dalla sfera sacra250.
Olle con decorazioni plastiche, ciotole e vasi miniaturistici sono
rinvenuti all'interno del primo vano del grande megaron,
mentre il pronao dello stesso restituì una singolare serie di
bronzetti figurati pertinenti alla sfera del dono votivo. Due figure
mantate viste come sacerdotesse in atto di preghiera, o piuttosto in
atto di svolgere il loro culto, con nelle mani degli oggetti
interpretati come torce o lumi251;
un personaggio complesso (come complessa dovette essere la sua
lavorazione), con stola, che regge un cervo, un disco nella mano
sinistra, un cane con collare che sembra azzannare il cervo, dunque
una preda, ma sostenuto dal braccio destro dell'uomo, e nel disco i
suoi strumenti di caccia: una corda, delle palle da fionda, uno
stocco, in atto di offrire il tutto alla divinità; un arciere in
veste borchiata; altre figure di offerenti e animali come una
colomba, un cervo. Nel primo ambiente, all'interno del ripostiglio, è
emersa una statuina di un uomo che offre un muflone portato sul
collo252,
un kriophoros.
Una
tale quantità di bronzi figurati, di ottima fattura, sembra
riportare a momenti ormai del tutto addentro al Fe:1, o al limite
alle fasi finali del BF253.
A
S'Arcu 'e Is Forros, nel primo vano del tempio A, nell'angolo in
fondo del muro SSO si è rinvenuta un'olletta a fondo concavo, di
forma aperta, infissa nel pavimento in battuto. In questo erano
presenti delle lenti carboniose. Lo stesso ambiente ha restituito un
non precisato frammento di spada, ed un frammento di brocca askoide
con decorazioni geometriche non meglio precisate, tra collo e bordo,
che rimanda ad un orizzonte che va dal BF1254
al Fe255.
Altre due olle erano incassate nel pavimento del vano C. La tipologia
delle olle rinvenute nei due vani non è stata specificata256.
Tre asce a margini rialzati sono pertinenti ad ambienti del villaggio
abbandonato sul quale si sovrappose il complesso sacro257,
e che si fanno risalire ad un orizzonte non successivo al Fe:1258.
In questo stesso contesto (stratigraficamente non chiaro), è
presente materiale che rimanda ad orizzonti simili o più tardi, come
una fibula “a sanguisuga”, frammenti bronzei figurati, e un leone
bronzeo, un frammento di tripode di tipo cipriota259.
Quest'ultimo, se la definizione “(…) di
tipo cipriota.”
denota una forma d'imitazione del modello, è ascrivibile ad
orizzonti anche parecchio successivi agli inizî
della circolazione del modello, alle soglie del BF, con perdurare
delle sue imitazioni fino all'VIII sec. a.C260.
Nell'ara del tèmenos,
e della capanna tagliata in due da questo, relativa all'insediamento
precedente, è possibile che i materiali si siano mescolati per cause
di varia natura e di varia epoca. Le stratigrafie dell'intero sito,
che non siano state sconvolte dagli sterri clandestini, non sono
state chiarite neppure dagli scavi successivi; da questa situazione
emerge un solo dato chiaro, già accennato agli inizî di questo
paragrafo: i materiali precedenti a fasi del BF sono stati tutti
rinvenuti nelle zone del villaggio sul quale si sovrapposero le
strutture dell'area sacra, o in cumuli di terra di riporto o di
sterro.
Le
uniche strutture dalle quali provengono dati, se non chiari, almeno
interessanti e forieri di ipotesi che abbiano un certo grado di
serietà, sono i forni
e le insule.
I primi semplicemente riportano un dato incontrovertibile; il ferro
che vi veniva fuso, insieme al rame e allo stagno per la lega
bronzea. Tutti e tre i metalli sono attestati nell'intera zona; il
rame in panelle e in pelli di bue, in varie parti del sito, lo
stagno, rinvenuto nei pressi del megaron
A, in frammenti di lingotto, ed il ferro in scarti di fusione in
prossimità dei forni stessi. Che i forni abbiano lavorato in
funzione delle attività cultuali esercitate nei templi, e dunque
nelle stesse fasi cronologiche, non è in discussione, e questo, per
quanto banale, è un primo dato. L'aspetto problematico è trovare
elementi che rendano merito delle differenze cronologiche tra forni e
megara,
oppure di una loro eventuale contemporaneità. Così come sarebbe da
evincere l'arco di vita dei forni stessi, e principalmente il suo
inizio; ovvero se nascano agli scorci del Bronzo o se non invece con
la nuova tecnologìa del ferro. La struttura non pare abbia subìto
riattamenti, rifacimenti o aggiunte e, infine, non sembra vi si
possano riscontrare fasi edilizie diverse. Appaiono costruiti,
invece, secondo un progetto unitario pensato ed eseguito da chi aveva
un'idea chiara di come dovesse usarlo e di che caratteristiche
dovesse avere; prima fra tutte le dimensioni. Certamente le alte
temperature utili a fondere il ferro261
richiedevano una struttura che potesse reggere quelle stesse
temperature, e che non rischiasse di provocare danni a se stessa e ad
altre. I due forni infatti, a prescindere dalla capanna adiacente,
presumibilmente un ambiente abbandonato e, forse, riutilizzato
proprio in funzione coadiuvante delle attività di fusione262,
sono stati edificati lontano dagli altri edifici.
Dall'insula,
struttura chiusa e per la quale non risultano notizie di
sconvolgimenti clandestini, arrivano alcuni dati interessanti, benché
doverosamente privi di puntualità stratigrafiche. Un
vano (6), ha restituito, all'interno di uno strato carbonioso sopra
il battuto pavimentale di argilla, olle di diverse dimensioni,
un'impugnatura di crogiolo, vasi a bollilatte con grandi anse e
brocche piriformi e askoidi con decorazioni geometriche263.
Nel
vano quadrangolare scosceso, a N, numerato 15, emersero i resti di
quella che fu interpretata come officina fusoria264,
con una fossa circolare scavata nel granito, sul pavimento,
interpretata come destinata a raccogliere la cera usata per la
modellazione dei bronzi figurati, composti con la tecnica della cera
persa. Da questo vano emersero, non associati, pare, ad altro
materiale ceramico, una ciotola carenata con beccuccio versatoio, ed
una brocca askoide, frammentaria, con ansa decorata a cerchielli
concentrici, che rimandano dal Fe:1 a fasi avanzate dello stesso265.
Vorrei
segnalare l'arciere bronzeo, per la sua quasi esatta somiglianza con
le statue di Mont'e Prama. Gli occhi a disco, il naso in estrema
stilizzazione geometrica, la posizione rigida opponente, la bocca
appena accennata, benché quella dei giganti sia solo un breve segno,
o non esista affatto in alcuni casi (a parte le statue abrase di
quella parte)266.
La statuetta è attribuita al IX sec. a.C267.
Allo stesso orizzonte sono attribuite da Lillìu le grandi statue di
Mont'e Prama268.
A
S'Arcu 'e Is Forros, emerge un quadro di pochissime certezze, fra le
quali quella di una persistenza della vita dell'area sacra fin dentro
l'età del ferro, fino almeno al VI sec. a.C. Resta da trovare un
possibile momento d'inizio. A di là del materiale rinvenuto nei
contesti chiusi e non sconvolti delle insule,
e del ferro relativo ai forni, a mio avviso esiste un elemento che
potrebbe forse fornire, con salutari coefficienti di dubbio, un punto
di partenza sia come dato in sé, sia come avvio per delle
connessioni con altre realtà dell'area. Se l'interpretazione della
cosiddetta officina fusoria (il vano 15), facente parte dell'insula
1, relativa alla fusione a cera persa delle statuine, potesse trovare
conferma, allora si avrebbe un termine sicuro di datazione per
quell'ambiente, dal momento che, stando alle fonti, non risulta aver
subìto rifacimenti nelle sue strutture murarie. Questo ambiente è
addossato all'insula propriamente detta, la quale può aver aggiunto
nel tempo propaggini che ne deturpassero la forma circolare,
evidentemente ricercata, ma è da dubitare che queste diverse fasi,
comunque non evinte in fase di scavo269,
dovettero essere particolarmente distanti fra loro. Le insule
infine, non sembrano superporsi ad altre strutture preesistenti ma
appaiono come edifici costruiti ex
novo,
e con un'accurata scelta della posizione. In effetti è proprio la
relazione spaziale tra le varie strutture di quest'area a conferirne
il quadro, che appare come unitario, coerente. Le strutture operano
all'interno di un rapporto indiretto, nel quale ognuna svolge un
compito separato ma complementare all'altra. La semiologia delle
relazioni tra strutture, il dialogo
direbbe un urbanista, non è casuale ma voluto, pressoché in ogni
sua parte. La funzionalità reciproca, anche prescindendo dalle parti
dominanti (i megara),
che chiudono il dialogo e danno un senso all'intero complesso, appare
come un circuito elaborato ma chiuso, e ben preparato in ogni suo
aspetto. La preparazione degli elementi del culto, il lavoro,
svolto nei forni e nelle officine delle insule,
o il lavoro
di chi officiava e preparava gli aspetti particolari del culto, il
suo svolgersi, le liturgìe del raduno, la preparazione per il ciclo
successivo, avevano un ritmo e un ordine che rispecchiava quello del
rapporto tra le strutture.
In
un quadro come questo non è comunque illecito considerare alcune
delle strutture costruite in fasi precedenti (o successive), cosa che
in effetti è pressoché la norma in seno a complessi architettonici
(o ad insediamenti) che trascendano la dimensione del singolo
edificio (la capanna, la torre nuragica semplice), e si articolino
allo scopo di soddisfare funzionalità complesse, come quelle adibite
ai culti.
Se
consideriamo dunque i due megaron
come gli elementi nati per primi, e le insule
e i forni costruiti in momenti successivi, quando il culto aveva
aumentato le sue esigenze, dovremmo allora, prima di chiederci quanto
questi momenti siano stati distanti tra loro, quale
fosse il culto, e se non fosse cambiato o anche solo leggermente
mutato in quel lasso di tempo. Infatti, se la fusione dei pezzi
metallici, le statuine o le spade votive, erano l'elemento materiale,
e spirituale insieme, fondamentale per il rituale, si dovrebbe
ipotizzare un periodo nel quale questi elementi venivano prodotti
altrove, magari nei varî luoghi di provenienza dei partecipanti, e
semplicemente portati a S'Arcu 'e Is Forros, ai templi, centri del
raduno. Uno scenario, questo, che risponde bene, ad esempio, alle
varie fasi del megaron
B, che aggiunge ambienti di servizio al fine di razionalizzare una
realtà di frequentazione evidentemente fattasi via via più
complessa; o anche le ristrutturazioni del megaron
A , delle sue parti murarie (laddove a mio avviso siano invece da
attribuirsi alla prima fase architettonica l'irregolare tèmenos
e l'ambiente circolare di servizio a N).
In
questo scenario emerge allora un crescendo nel tempo, negli anni e
nei decenni, dell'esigenza di formare una produzione permanente e
stabile degli oggetti di culto; ma questo ulteriore scenario, che
consegue dal primo, porta con sé l'idea di una disponibilità
economica di alto livello, e di una contemporanea esigenza cultuale
di livello altrettanto alto. L'investimento, non solo economico ma
anche culturale, pur collettivo (ovvero relativo a più realtà
insediative in un circondario territoriale), che ha portato alla
costruzione di due forni e delle insule
di produzione e immagazzinamento di oggetti e beni, e della loro
manutenzione costante, doveva essere notevole, ma altrettanto lo era
quello profuso nei due templi, così che il tempo eventualmente
trascorso tra l'edificazione dei luoghi di culto propriamente detti e
le loro strutture di servizio e coadiuvo non dovette essere stato
lungo.
Uno
scenario molto vicino al Fe:1, o addentro a quest'orizzonte, appare
per tanto come il più plausibile.
Un
sito come S'Arcu 'e Is Forros è di difficile interpretazione; la
ricchezza espressa dai rinvenimenti, principalmente quelli
dell'insula
2 e dei suoi ripostigli270,
sembrano trascendere la sola dimensione religiosa e aprono scenarî
legati al traffico ed al commercio, in una dinamica che vede i
protagonisti nuragici di S'Arcu 'e Is Forros come contraenti di gran
peso per una controparte da immaginarsi, dati i due elementi con
iscrizioni, perfettamente addentro ai traffici transmarini levantini.
Conclusioni
Pur
non volendo entrare nelle problematiche relative alla natura dei
traffici marittimi di epoche precedenti alla colonizzazione fenicia,
è doveroso comunque sottolineare quanto già espresso; la
complessità dei vettori di questi traffici, della loro cultura di
provenienza, e della molteplicità delle diverse culture espresse e
delle quali le navi dovevano essere cariche e ricche, non meno che
delle loro merci271.
Dall'ultimo scorcio del XV sec. a.C. i micenei aumentarono
progressivamente la loro presenza nell'isola, e se privilegiarono gli
scali meridionali e occidentali, è innegabile che sperimentarono
anche quelli orientali del Golfo di Orosèi e non solo. La presenza
micenea nell'isola, pur senza forzare gli scenarî, guardandoli
attraverso la lente delle caratteristiche culturali (lente
deformante, dal momento che ad usarla saremmo noi, oggi, a qualche
millennio di distanza272),
deve aver prodotto suggestioni accolte con favore, in seno
all'immaginario isolano; suggestioni che dovevano essere accompagnate
da merci appetite o divenute tali, in cambio di altre merci
altrettanto e più ricercate, come i metalli, alla base di qualunque
altra transazione che doverosamente accompagnava eventuali beni di
uso domestico e alimentare, e tripodi da scambio-dono. E qui entriamo
nel campo fluido ma affascinante dei processi di trasmissione
culturale, nel quale la ricostruzione di una dinamica di trasmissione
deve necessariamente basarsi, se vuole sopravvivere, sul dato di
fatto non controvertibile, che è quello, in questo caso, materiale,
dell'edificio a megaron,
difficilmente spiegabile altrimenti che come una trasmissione da
questa cultura, quella micenea, prima che levantina delle coste
occidentali del Mediterraneo, e che evidentemente riuscì a
ritagliarsi una piccola fetta di territorio, culturale oltre che,
verosimilmente, reale, prima che i fenici riuscissero a costruire il
loro monopolio. Il territorio dominato dal nuraghe Antigòri dovette
rappresentare un avamposto fortunato ma anche tutt'altro che
gratuito,
dal momento che la sua occupazione, o l'occupazione di una fetta di
costa dominata dal nuraghe, passò senza che si accendessero
conflitti, dei quali l'indagine archeologica non trova traccia. La
durata nel tempo della presenza micenea, della quale le ceramiche
rappresentano nulla più che una traccia scheletrica, e un indicatore
temporale preciso, dimostra un pieno accordo e sintonìa d'intenti
fra i due popoli o compagini. Ed è da questa continua reciproca
conoscenza, evidentemente proficua, che nacque un principio di osmosi
fra culture, della quale non conosciamo i risultati dell'altra sponda
dal momento che quella sparì attorno alle fasi centrali del BF, per
la Sardegna, e il TEIIIc:2 per i Micenei, sigle asettiche che, oggi,
adombrano eventi che i micenei hanno certamente vissuto con spavento
nelle loro sedi d'origine. È
il momento del tramonto della civiltà di Micene, Tirinto, Pilo273,
è l'epopea cantata da Omero nell'Iliade, in altri lidi; è la fine
di un mondo, i cui riverberi sulla Sardegna sono ancora tutti da
capire. I megara
non appartengono a questi, tuttavia, bensì ad una delle tante
resistenze endemiche insulari, così serenamente evinte in merito a
materiali ceramici o bronzei, la cui interpretazione dovrebbe forse
cercare vie diverse da quelle della suggestione
esercitata da elementi ed oggetti di prestigio.
Lo scambio-dono era una liturgìa con implicazioni precise; nel
momento in cui un oggetto passava di mano attraverso questa formula,
acquisiva un nuovo padrone, per cui noi oggi vediamo l'elemento di
fascino esercitato da un oggetto, mentre ci riferiamo al passato, ma
il perdurare per decenni, quando non per secoli, della produzione
dello stesso, non ha più nulla a che fare con il prestigio, ma con
il possesso e l'assimilazione; l'oggetto dello scambio-dono acquisiva
ipso
facto
un nuovo proprietario, e da quel momento non era più allogeno.
I
megara,
forse visti solo occasionalmente da genti nuragiche, in terre egee,
da eventuali marinai, imbarcati per avventura o spirito di guadagno
nelle navi dei mercanti stranieri, in modalità occasionali o
sistematiche274,
potevano aver suscitato un'impressione notevole, ma non più che
qualunque altro elemento, architettonico e non, delle città micenee.
Le
forme e gli esiti architettonici, cultuali, quelli relativi al loro
inserimento nelle strutture urbane o santuariali, del megaron
sardo, non parlano di una imitazione diretta, né, e tanto meno, di
una qualche sorta di supervisione da parte di “specialisti”
micenei; la libertà interpretativa espressa nei diversi esempi
relativi al megaron
isolano, denuncia invece una totale padronanza dell'uso del modello,
forse ancora percepito come straniero, ma ormai del tutto assimilato.
La trasmissione del modello deve esser avvenuta in terra isolana, e
con modalità alle quali l'aspetto architettonico doveva essere stato
affiancato, e non in ordine di primaria importanza, ad altri
prettamente concettuali e culturali.
La
distribuzione dei megara,
in una visione verticale della carta della Sardegna, fa emergere un
dato foriero di riflessioni. Questi sono localizzati esclusivamente
(a parte qualche esempio come Oes, poco a S di Sassari, e quelli,
guarda caso non lontani da Antigòri, di Sinnai, Serrenti,
Villaspeciosa e Gonnosfanadiga, distribuiti lungo la piana del
Campidano), nella fascia orientale dell'isola, ma soprattutto lontano
da quell'area dell'Oristanese nella quale si concentrano i centri più
importanti e più numerosi della cultura nuragica sarda. Non solo,
fra le realtà più notevoli, relative al fenomeno
megaron,
si trovano esattamente quelle più vicine al Golfo di Orosèi; l'area
di S'Arcu 'e Is Forros, Gremanu e Serra Òrrios.
Domu e Orgìa si trova più a S rispetto all'area del Golfo, ma non è
da escludersi anche per questa (e per i centri che gravitavano
attorno al complesso del nuraghe Arrubiu), un'influenza da e verso i
movimenti del Golfo, o della costa orientale.
In
una situazione di contatti commerciali, fra centri nuragici, comunque
intercorsi (vedi appunto il piombo di Gremanu), e culturali (il
bronzetto di S'Arcu 'e Is Forros che riproduce i tratti dei giganti
di Mont'e Prama), i centri orientali non dipendevano che da loro
stessi e dalle loro risorse, verosimilmente non altrettanto notevoli
come quelle occidentali ma comunque sufficienti a produrre una
situazione di isolamento culturale autosufficiente, e nella quale,
tramite gli scali del Golfo, dovevano inserirsi realtà allogene,
probabilmente mutate nel tempo (dalla ceramica micenea di Orosèi
all'anfora levantina di S'Arcu 'e Is Forros), ma che non ignoravano
anche questa possibile alternativa commerciale, forse risultato di
una saturazione della via dell'Ovest.
In
attesa di studi che possano chiarire il quadro minerario antico di
queste zone, comunque cariche di indizî,
il commercio di metalli, resta in ogni caso, vista la realtà dei
ripostigli di S'Arcu 'e Is Forros, forse più fortemente attiva
grazie al mercato del ferro, l'unica ragione praticabile di una
realtà che, con una visione di splendido isolamento pastorale (anche
considerando le eventuali coltivazioni iniziate nel BF), non regge
alla prova dell'accostamento con le realtà emerse in quest'area
dell'isola.
I
megaron
furono una realtà cultuale e di aggregazione sia di singolo
villaggio sia cantonale, di lunghissima durata, che giunge almeno al
VII-VI sec. a.C., cosa che, se da un lato dimostra, ancora una volta,
il carattere conservativo della cultura nuragica, dall'altro esprime
e conferma l'assimilazione di un modello di architettura cultuale
che, giunto ad epoche così tarde, e considerate anche le forme,
riviste, reinterpretate in chiave nuragica,
esprimevano ormai il loro totale assorbimento in seno ad una cultura
che poteva utilizzare stilemi e contenitori allogeni, adattandoli e,
principalmente, immergendoli nei propri contenuti.
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1La
seconda campagna di scavo del villaggio di Serra Òrrios,
ad esempio, in agro dorgalese (NU), condotta da Teodoro “Doro”
Levi nel 1937, villaggio che comprende due templi a megaron
indagati, fu condotta con
scarsissima attenzione alla documentazione, pertanto è andata
definitivamente persa la sequenza stratigrafica, inoltre, non si
conoscono i reperti rinvenuti proprio nei due templi scoperti in
quegli stessi anni; A. MORAVETTI,
Serra Orrios e i monumenti
archeologici di Dorgali, in
Sardegna Archeologica – Guide e Itinerari, Sassari 1998, pp.
38-41. Nel 1986 furono compiute delle indagini relative al tempietto
detto A. Nel 1992 e nel 1993 fu condotta l'ultima campagna di scavo
del sito volta, tra l'altro, all'individuazione di eventuali
sequenze stratigrafiche del suddetto tempio. Il quadro complessivo
del sito, a parte l'indagine di una vasta parte dell'insediamento
ancora da scavare, sembrerebbe, dal punto di vista dell'analisi, del
tutto parziale e, finora, insufficiente ai fini di una conoscenza
soddisfacente dell'insediamento.
2I
templi a megaron,
che compaiono all'interno o agli immediati margini di insediamenti
umani, hanno forma prevalentemente parallelepìpeda
(rettangolare) a differenza delle capanne degli stessi insediamenti,
di forma circolare, nonché del monumento principe della cultura
nuragica, la torre, anch'essa di forme circolari.
3Verosimilmente,
tracciando un quadro ampio, tra il Bronzo Recente (Nuragico III),
Finale (Nuragico IV Protogeometrico), rispettivamente 1350-1200 e
1200-1000 a.C., Prima età del Ferro (Nuragico IV Geometrico);
1000-730 a.C., fino ad oltre l'Orientalizzante in epoca Arcaica,
cioè il VI sec. a.C. Cfr per le età del bronzo lo schema
cronologico proposto da Anna Depalmas e Rita Teresa Melis in A.
DEPALMAS.
R. T. MELIS,
The Nuragic People: Their
Settlements, Economic Activities and Use of the Land, Sardinia,
Italy, in AA.VV. Landscapes
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London-New York 2010, pp. 167-187, con schema cronologico a p. 169;
o Bronzo Recente – Bronzo Finale: 1350-1150 a.C., e Bronzo Finale
– Primo Ferro: 1150-950 a.C. (fino ad età Arcaica VI sec. a.C.)
Cfr. A. DEPALMAS,
Il Bronzo medio della Sardegna,
pp. 123-130, Il Bronzo recente della
Sardegna, pp. 131-140, e Il
Bronzo finale della Sardegna, pp.
141-160, in Id., La Preistoria e la
Protostoria della Sardegna – Atti
della XLIV Riunione Scientifica, Vol. I, Firenze 2009, con schema
cronologico a p. 150. Questi saranno gli schemi cronologici,
relativi all'età del bronzo, ai quali si farà riferimento in
questo lavoro, per quanto riguarda la cultura protostorica della
Sardegna.
4I
nuraghi, elemento fortemente caratterizzante la cultura protostorica
sarda, ebbero, al contrario, un lungo periodo di gestazione, che
produsse un'osmosi culturale diffusa in tutta l'isola. Il numero
stimato, o semplicemente supposto, originario, delle torri
nuragiche, era di circa 10.000; mentre adesso se ne contano circa
7.000. “I circa settemila nuraghi
si sono andati costruendo attraverso molti secoli, fino ad occupare,
dove più dove meno, tutto il suolo della Sardegna.”
G. LILLÌU,
I Nuraghi. Torri preistoriche di
Sardegna, Cagliari 2005, p. 59.
Nuraghi e megara
sardi non ritengo appartengano alla stessa specifica categoria
culturale; il megaron
tuttavia, dal momento in cui è assimilato nella cultura nuragica, è
inserito ai vertici della stessa, in seno alle sue architetture
cultuali. La differenza di fondo è da ricercarsi pertanto nel ruolo
che avevano in strutture sociali, diverse tra loro, e relative a
questi edifici. Se il nuraghe era pertinente a società di villaggio
monadiche, ovvero non in relazioni sistematiche con altri villaggi,
si può definire come struttura che sta da sola al vertice di quella
società, e dunque una struttura primaria
e dominante.
I megara,
invece, stanno anche loro al vertice delle società che li hanno
prodotti, ma si tratta di società diverse, la cui politica è
cambiata, verosimilmente non più monadica ma fatta di abitati che
hanno raggiunto una relazione sistematica tra loro, che possiamo a
questo punto definire politica.
In questa nuova temperie sociale gli edifici importanti, adibiti o
meno a luoghi di culto, edifici che coprono un ruolo collettivo ed
aggregante, sono diversi; tra questi sta il megaron,
che si può dunque definire come edificio primario
ma non dominante.
5Ne
sono stati individuati diversi altri: quello del quale non restano
che muri a raso nel Monte Santa Vittoria di Serri (v. nota n° 10);
due in Gallura tra Arzachena e Palau (v. nota n° 16); altri: ad
Orconale (Comune di Norbello, OR); Monte Cardiga (Comune di
Armungia, CA); Spadula (Comune di Gonnosfanadiga, MC); Sa Tumba
(Comune di Segariu, MC); Bruncu Mogumu (Comune di Sinnai, CA);
Cuccureddu (Comune di Villaspeciosa, CA); Soroeni (Comune di Lodine
NU).
6Il
concetto di “numero originario” dei nuraghi, dato il lungo
periodo che li vide protagonisti del volto paesaggistico dell'isola
(ca. 1700-ca. 1100 a.C.; cfr. A. DEPALMAS
R. T. MELIS,
The Nuragic People: Their
Settlements... op. cit. p. 171.),
è da considerarsi in senso puramente indicativo e non assoluto; è
lecito pensare, infatti, che mentre alcune delle più antiche di
queste strutture venivano abbandonate, quando non decostruite per un
eventuale reimpiego del materiale litico, altre venivano erette. Ne
risulta dunque che parlare di “numero originario” potrebbe
adombrare considerazioni relative a fasi di sviluppo e cambiamento
in seno alla società e civiltà nuragica. Ciò detto, che il numero
dei nuraghi superstiti sarebbe oggi maggiore se non fossero avvenute
distruzioni anche in tempi moderni o sub-moderni è una certezza,
per altro, documentata e documentabile.
7
Queste considerazioni tengono conto
anche dell'eventuale futura scoperta di altri templi della stessa
struttura.
8Informazioni
più precise e dettagliate, circa le località e l'ubicazione dei
templi, si trovano nel successivo capitolo che descrive i monumenti
sotto l'aspetto tecnico, metrico e ubicativo, con analisi legate
proprio alla scelta ubicativa.
9E.
CONTU,
Esterzili (Nuoro). Edificio
megalitico rettangolare di Domu de Orgìa in località Cuccureddì,
in Studi Sardi VIII, fasc. I-III, Sassari 1948, pp. 313-317.
10Si
vedano in particolare: G. ORTU,
Le testimonianze archeologiche di
Esterzili e del suo territorio, pp.
19-26, l'Autrice dell'articolo descrive minuziosamente il territorio
e l'ubicazione nello stesso dei siti d'interesse archeologico,
segnalando tracce di epoche precedenti l'età nuragica, descrivendo
i diversi monumenti e le strutture presenti, tra i quali il tempio
ed un'osservazione sulla viabilità, con infine una conclusione
relativa alla natura insediativa del territorio preso in esame; F.
LO
SCHIAVO, Esterzili:
ipotesi sulle risorse economiche in età nuragica,
pp. 27-34, una disamina sulle risorse metallifere e le relative
possibilità di scambio e sfruttamento; F. PILIA,
Per un volume sulla Tavola di
Esterzili e sulle controversie tribali nella Sardegna antica,
pp. 35-47, articolo che inizia con una spiegazione della Tavola e
continua, da p. 40, con una panoramica sul patrimonio archeologico
del territorio. Il tempio è descritto nelle pp. 41-44; in A.
MASTINO
(a cura di), La Tavola di Esterzili:
il conflitto tra pastori e contadini nella Barbaria sarda: convegno
di studi, 13 giugno 1992,
Esterzili, Sassari 1993; nonché ibidem,
riferimento:
http://eprints.uniss.it/3244/1/Mastino_A_AttiCongresso_1993_Tavola.pdf
11M.
A. FADDA,
Esterzili: La sacerdotessa e la
mosca assassina, in Archeologia
Viva, n° 88, a. 2001, pp. 62-67; Id. I
templi a megaron della Sardegna. Un esempio particolare nel
territorio di Esterzili, in M.
SANGES
(a cura di), in L'Eredità del
Sarcidano e della Barbagia di Seulo: Patrimonio di conoscenza e di
vita, Cagliari 2001, pp. 156-158;
Id. Il Museo Archeologico Nazionale
di Nuoro, in Sardegna Archeologica
– Guide e itinerari, Sassari 2006, pp. 73-75.
12
M. A. FADDA,
Esterzili... op. cit.
p. 63.
13
Ibidem,
p. 64.
14G.
CASALIS
– G. MASPERO,
Dizionario geografico, storico,
statistico, commerciale degli stati di S.M. Il re di Sardegna,
Torino 1856.
15Sulla
Tavola di Esterzili si veda A. MASTINO
(a cura di), La Tavola di
Esterzili... op. cit. con
riferimento di rete in v. supra.
Per una semplice visione del testo della Tavola in latino e in
italiano si veda anche riferimento:
http://it.wikipedia.org/wiki/Tavola_di_Esterzili
16
E. CONTU,
Esterzili (Nuoro)...
op. cit.
17
Ibidem,
p. 313.
18
Ibidem,
p. 316.
19
M. A. FADDA,
Esterzili: La sacerdotessa...
op. cit. p.
62.
20Si
veda in proposito M. A. FADDA,
Fonni (NU). Località Gremanu,
in Bollettino di Archeologia 13-14-15, Roma 1992, pp. 169-170, dove
non si parla, ovviamente, del megaron,
scoperto quattro anni dopo; Id.
Nuovi templi a megaron della
Sardegna nuragica, in Atti del XIII
congresso, 4, Forlì 1996, p. 262; Id. Gli
architetti nuragici di Gremanu, in
Archeologia Viva, n° 63, a. 1997, pp. 70-75, dove del tempio si
parla specificamente solo nell'ultima pagina; Id. Fonni
(Nuoro). Località Gremanu. Complesso di templi nuragici,
in Bollettino di Archeologia 43-44-45, Roma 1997, pp. 242-245, qui
il tempio a megaron
è ben descritto e le informazioni sugli elementi che lo riguardano
– compresi i reperti rinvenuti al suo interno, ma anche
all'esterno, però sempre dentro il recinto che lo contiene – sono
precise e puntuali, benché l'intero articolo non vada oltre un
carattere descrittivo; Id. Operazione
Gennargentu, in Archeologia Viva,
n° 67, a. 1998, pp. 78-79, qui, nonostante la brevità, l'articolo
si stacca dalla pura descrizione e avanza delle tesi relative alla
cronologia dell'impianto e delle attività del monumento; M. A.
FADDA
– F. POSI,
Il complesso nuragico di Gremanu,
in Sardegna Archeologica – Guide e itinerari, Sassari 2008, da p.
37 a p. 49 è ben argomentato e descritto il recinto sacro con i tre
templi che lo compongono – è da notare che il tempio circolare A
è semiesterno al tèmenos,
che invece contiene il tempio a megaron B, mentre il tempio absidato
C ha la parete orientale tangente il muro del recinto – con
riferimenti stratigrafici importanti benché incompleti.
21Le
notizie relative alle indagini sono specialmente esposte nei
Bollettini di Archeologia del 1992 e 1997, citati supra.
22M.
L. FERRARESE
CERUTI, Un
singolare monumento della Gallura. Il tempietto di Malchittu,
in Archivio Storico Sardo XXIX, Padova 1964, pp. 3-25.
23M.
A. FERRARESE
CERUTI, Il
tempietto di Malchittu, in AA.VV.,
Arzachena. Monumenti archeologici.
Breve itinerario, Sassari 1984, pp.
64-71.
24A.
ANTONA
RUJU – M. L. FERRARESE
CERUTI, Il
nuraghe Albucciu e i monumenti di Arzachena,
in Sardegna Archeologica – Guide e itinerari, Sassari 1992, pp.
59-63.
25
A. ANTONA
RUJU, Arzachena.
Pietre senza tempo, Sassari 2013,
pp. 112-119.
26M.
A. FADDA,
Villagrande Strisaili (Nuoro).
Località S'Arcu 'e Is Forros. Il tempio a megaron,
in Bollettino di Archeologia 13-14-15, Roma 1992, pp. 172-173.
27
M. A. FADDA,
Antichi Sardi purificati,
in Archeologia Viva, n° 57, a. 1996, pp. 78-83.
28M.
A. FADDA,
Villagrande Strisaili (Nuoro).
Località S'Arcu 'e Is Forros. L'abitato nuragico intorno al tempio
a megaron, in Bollettino di
Archeologia 43-44-45, Roma 1997, pp. 255-258.
29M.
A. FADDA,
Il Museo Speleo-archeologico di
Nuoro, in Sardegna Archeologica –
Guide e Itinerari, Sassari 2006, pp. 58-60.
30M
A. FADDA,
Villagrande Strisaili, il villaggio
santuario di S'Arcu 'e Is Forros,
in Sardegna Archeologica – Guide e Itinerari, Sassari 2012, una
guida per la quale evito di indicare pagine in particolare perché
l'intera pubblicazione rende merito di un sito e di un insediamento
che, letto e considerato nel suo insieme, può fornire chiarimenti e
risposte che parti espunte e particolari non darebbero.
31
M. A. FADDA,
S'Arcu 'e Is Forros.
Antichi Sardi purificati,
in Archeologia Viva, n° 145, a 2011, pp. 58-60.
32G.
LILLÌU,
Dorgali (Nuoro): Villaggio Nuragico
di Serra Orrios – Impressioni ed Osservazioni,
in Studi sardi, VII, fasc. I-III, Sassari 1947, pp. 241-243 (cit. a
p. 242).
33M.
L. FERRARESE
CERUTI, Il
villaggio nuragico di Serra Orrios,
in AA.VV., Dorgali. Documenti archeologici, Sassari 1980, pp.
109-113.
34
F. LO
SCHIAVO, Il
villaggio nuragico di Serra Orrios: i bronzi,
in AA.VV., Dorgali op. cit.,
pp. 145-154.
35
D. COCCO,
Il villaggio nuragico di Serra
Orrios:i materiali fittili, ibidem, pp.
115-140.
36
L. USAI,
Il villaggio nuragico di Serra
Orrios:i materiali litici, ibidem, pp.
141-144.
37M.
A. FADDA,
Dorgali (NU) – Villaggio nuragico
di “Serra Orrios”, in AA.VV.,
Omaggio a Doro Levi, Ozieri 1994, pp. 85-89.
38M.
A. FADDA,
Serra Orrios. Un villaggio nuragico
già visitabile in territorio di Dorgali,
in Archeologia Viva, n° 48, a. 1994, p.67.
39D.
PULACCHINI,
Il museo archeologico di Dorgali,
in Sardegna Archeologica – Guide e Itinerari, Sassari 1998, pp.
20-29.
40A.
MORAVETTI,
Serra Orrios... op. cit.
Dei templi si parla alle pp. 55-71.
41
M. A.
FADDA,
Località Sa Carcaredda. Scavi 1991,
in Bollettino di Archeologia 13-14-15, Roma 1992, pp. 173-175.
42
C. TUVERI,
I materiali da costruzione,
in Bollettino... op. cit.,
p. 175.
43M.
A. FADDA,
Nuove acquisizioni dell'architettura
cultuale della Sardegna nuragica,
in Etruria e Sardegna centro-settentrionale tra l'età del bronzo
finale e l'arcaismo – Atti del XXI Convegno di studi Etruschi e
Italici, Pisa-Roma 1998, pp. 318, 323.
44M.
A. FADDA,
Il Museo Speleo-archeologico di
Nuoro... op. cit., pp. 54-59.
45A.
BALTOLU,
Alcuni monumenti inediti
dell'altopiano di Buddusò e Alà dei Sardi,
in Studi Sardi XXII, Sassari 1973, pp. 38-98; il tempio è descritto
alle pp. 85-92.
46G.
LILLÌU,
L'oltretomba e gli dei,
in NUR. D. SANNA
(a cura di), La misteriosa civiltà dei Sardi, Milano 1980, pp.
114-116.
47
V. SANTONI,
Il segno del potere,
ibidem,
p. 184-185.
48
G. LILLÌU,
La civiltà dei Sardi dal
paleolitico all'età dei nuraghi,
Torino 1988, pp. 392-395.
49A.
SANNA,
Nuove osservazioni su alcuni pozzi
sacri della Sardegna settentrionale,
in M. BRIGAGLIA
(a cura di), Per una storia
dell'acqua in Sardegna, in La
Sardegna nel mondo Mediterraneo vol. 6, Atti del III convegno
internazionale di studi geografico-storici, Sassari 1990, pp. 11-17.
50L.
FODDAI,
Giave. Testimonianze archeologiche,
in Sardegna Archeologica – Scavi e Ricerche, Sassari 2010, pp.
228-231.
51
Ibidem,
p. 228.
52
M. A. FADDA,
Nuove acquisizioni...
op. cit.
pp. 312-327.
53
M. A. FADDA,
Su Romanzesu: il Villaggio e lo
Stregone, in Archeologia Viva, n°
69, a 1998, pp. 62-67.
54M.
A. FADDA,
Il villaggio santuario di Romanzesu,
in Sardegna Archeologica – Guide e Itinerari, Sassari 2006, pp.
7-49.
55E.
CONTU,
L'architettura nuragica,
par. 1 del cap. 2 Sardegna nuragica
e classica, in G. PUGLIESE
CARATELLI (a cura di), Ichnussa.
La Sardegna dalle origini all'età classica,
Milano-Verona 1981, pp. 129-142.
56Segnatamente
tra Antico Elladico I fino alla metà circa dell'AE III (2800-2500
a.C.). E. LANZILLOTTA,
tavole cronologiche, (insegnamento di Preistoria e Protostoria
Greca, a.a. 2009/2010 Univ. Roma Tor Vergata), riferimento:
http://didattica.uniroma2.it/assets/uploads/corsi/37095/TAVOLE_CRONOLOGICHE_-_27_febbraio_2008-minoici_e_micenei.pdf
57G.
LILLÌU,
La tomba di giganti di Bidistili e i
templi a “megaron” della Sardegna nuragica,
in Sardegna Archeologica – Scavi e Ricerche, Sassari 2010, pp.
165-187.
58
V. SANTONI,
I templi di età nuragica,
in AA.VV. La civiltà nuragica,
Milano 1990, pp. 169-180.
59Un
modello architettonico perfetto per i templi a megaron
sardi è quello del grande megaron
di Troia II, 2600-2250 a.C.; ma questa, come fa notare Ercole Contu
(v. supra),
è una cronologia troppo alta perché abbia un qualche
coinvolgimento coi megara
sardi, per lo meno un coinvolgimento diretto. Tuttavia, se si
accredita un'ascendenza esterna per il megaron
sardo, allora la genesi, a prescindere dai varî
passaggi della trasmissione del modello di questa forma templare,
non può che essere questa. La forma lascia poco spazio a dubbi.
60E.
LIPPOLIS
– M. LIVADIOTTI
– G. ROCCO,
Architettura Greca. Storia e
monumenti del mondo della polis dalle origini al V secolo,
Milano 2007, pp. 1 ss.
61Segnatamente
il villaggio di Serra Òrrios, altopiano del Gollei, Dorgali,
Baronìa, NU; tutti gli altri templi sono staccati
dall'insediamento, anche in quelli nei quali la distanza tra templi,
aree sacre e villaggio è breve, com'è il caso del complesso di
Gremanu (o Madau), Fonni, Barbagia di Ollolài, NU.
62
E. CONTU,
L'architettura nuragica... op. cit.,
p. 129.
63
Qui il concetto è usato nel suo
significato prettamente architettonico-urbanistico e non politico.
64
M. A. FADDA,
Esterzili: La sacerdotessa...
op. cit. p.
62.
65
E. CONTU,
Esterzili (Nuoro)...
op. cit.
p. 315.
66
M. A. FADDA,
Esterzili: La sacerdotessa...
op. cit. p.
62.
67
Ibidem,
p. 63.
68
Ibidem
69
Ibidem
70E.
CONTU,
Esterzili (Nuoro)...
op. cit.
p. 313. Una definizione paesaggistica come questa riesce a dare
un'idea, ed a conferire un'immagine, più esaustiva e completa del
territorio, creandone così una visione più familiare ai nostri
occhi.
71
Ibidem
72
F. PILIA,
Per un volume sulla Tavola di
Esterzili... op. cit. p. 39.
73Si
veda in proposito: M. BONELLO
LAI, Sulla
localizzazione delle sedi di Galillenses e Patulcenses Campani,
in A. MASTINO
(a cura di), La Tavola di
Esterzili... op. cit. pp. 49-61.
74E.
CADONI,
La tabula bronzea di Esterzili, in
A. MASTINO (a cura di), La Tavola di
Esterzili... op. cit. pp. 95-96,
considera a sua volta un rapporto fra le due popolazioni non di
conflitto esasperato ed endemico ma compreso in una più pacifica
dialettica di convivenza, salvo poi smentirsi alcuni capoversi più
in là, nella stessa pagina e in quella successiva, dove tuttavia
delinea un quadro di possibilità di analisi dell'uso del
territorio, a partire dalla zona di Esterzili fino alle piane del
Campidano meridionale che, pur relativo ad epoca romana (e specchio
verosimile di epoche recenziori ad essa, fino a tempi moderni), può
fungere da traccia per i movimenti delle popolazioni dedite a
pastorizia, che vivevano negli altipiani del territorio di Esterzili
nelle epoche qui prese in esame.
75La
comparazione è stata condotta sulla base della Carta dei Suoli (o
Pedologica) della Sardegna in scala 1:250.000, a cura del
Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Cagliari
(1989), con relativa tabella per i confronti sulle caratteristiche
dei suoli; della carta Geologica in scala 1:200.000, A cura del
Comitato per il Coordinamento della Cartografia Geologica e
Geotematica della Sardegna (1996); della Carta Metallogenica in
scala 1:250.000 dell'Ente Minerario Sardo (1978).
76L'unità
di Paesaggio è una classificazione sia di tipo tassonomico che
qualitativo di un terreno, considerato secondo una coerenza
morfologica e litologica, nonché geologica. Si tratta di
classificazioni di massima che intendono soddisfare esigenze
conoscitive, a fini di studio, come può essere quello sulle genesi
insediative antiche o, in altri ambiti, per considerare eventuali
possibilità di sfruttamento del sottosuolo, o insediativo (nda).
77
v. supra
78
G. ORTU,
Le testimonianze archeologiche di
Esterzili... op. cit., p. 20.
79
F. PILIA,
Per un volume sulla Tavola di
Esterzili... op. cit. p. 42.
80
A. DEPALMAS,
La Preistoria e la
Protostoria
della Sardegna...
op. cit.
p. 148.
81
F.
PILIA,
Per un volume sulla Tavola di Esterzili... op. cit. p.
pp. 41-42.
82
E. CONTU,
Esterzili (Nuoro)...
op. cit.
p. 313.
83
G. ORTU,
Le testimonianze archeologiche di Esterzili... op. cit., p.
20.
84
Ibidem
85
v. supra
86
G. ORTU,
Le testimonianze archeologiche di Esterzili... op. cit., p.
22.
87
F. LO
SCHIAVO, Esterzili...
op. cit. p. 28.
88
Ibidem,
in A. MASTINO
(a cura di), La Tavola di
Esterzili... op. cit.
89
M. A. FADDA,
Esterzili... op. cit.
p. 64.
90A.
MASTINO
(a cura di), La Tavola di
Esterzili... op. cit. specialmente
M. BONELLO
LAI, Sulla
localizzazione... op. cit. pp.
49-61.
91
M.
A. FADDA,
Esterzili... op. cit. p.
67, sembra essere l'unica a fare
questa considerazione.
92“Non
pubblico”, in quest'ottica, non coincide con “privato”.
Laddove il concetto di privato implica la sfera individuale in senso
esclusivo, ovvero familiare (si pensi ai culti familiari o
casalinghi), mentre, nel caso in questione, la preparazione di un
culto collettivo può definirsi non
pubblica in quanto si tratta di una fase, del culto inteso nella sua
interezza, alla quale la collettività non è ancora
tenuta, né invitata, a partecipare, e che era esclusiva degli
officianti addetti al culto e/o suoi aiutanti.
93
G. LILLÌU,
La tomba di giganti di Bidistili...
op. cit., p. 170.
94
E. CONTU,
Esterzili (Nuoro)...
op. cit.
p. 315, 317.
95
F. PILIA,
Per un volume sulla Tavola di
Esterzili... op. cit. p. 43.
96
G. LILLÌU,
La tomba di giganti di Bidistili...
op. cit., p. 170.
97M.
A. FADDA,
Esterzili... op. cit.
p. 65; e Id. I templi a megaron
della Sardegna. op. cit., p. 157. È
possibile che qui, l'Autrice dell'articolo, non faccia altro che
ripetere acriticamente la teoria di Ercole Contu, prima di formulare
sue riflessioni divergenti. Si tenga presente che sia Contu che
Pilia non videro le operazioni di spietramento dei vani, effettuate
da Fadda più di mezzo secolo dopo che Contu stesso scrivesse le sue
note.
98Ibidem,
L'ipotesi delle travi lignee è poco e mal spiegata: con scarso
senso della coerenza viene prima ripetuta l'osservazione di Contu
(v. supra):
“Un aggetto molto accentuato della
muratura e la notevole quantità di grandi lastre piatte di scisto
crollate all'interno del vestibolo –
e, sic – fanno supporre una
copertura a
doppio spiovente composta
dagli stessi elementi lapidei” e,
poche righe dopo: “(...) lastre di
copertura che originariamente venivano sostenute da travi lignee
collocate a distanze regolari e a doppio spiovente”;
M. A. FADDA,
I templi a megaron della Sardegna.
op. cit., p. 157. La prima
affermazione viene giustificata dal numero elevato di lastre litiche
che formavano il riempimento dei vani, evidentemente non eludibile
in una descrizione della situazione precedente lo scavo; la seconda
è motivata, d'altra parte, dalle impronte delle lastre di copertura
che si conservavano nel battuto pavimentale (Id. Esterzili...
op. cit. p. 64). La probabile
spiegazione viene, dunque, dalla particolare posizione delle lastre
di scisto, cadute in modo singolarmente ordinato sopra il suddetto
pavimento, una sopra l'altra, di taglio, che ricordano la posizione
sovrapposta che avrebbero avuto, stando alla teoria in questione, in
un tetto a spiovente. La composizione delle lastre crollate a terra,
tuttavia, si spiaga molto meglio con la loro posizione originaria
nell'aggetto dei muri che chiudevano la falsa volta, i quali, per
tanto, collassando all'interno, hanno preceduto quelle
dell'eventuale copertura che, qualunque fosse la sua forma
(spiovente o altro), sono crollate per ultime ed in modo meno
ordinato. Giovanni Lillìu, in Id. La
tomba di giganti di Bidistili... op. cit.,
p. 170, si associa a Maria Ausilia Fadda nell'attribuire le impronte
delle lastre, crollate sul pavimento, al tetto spiovente sostenuto
da travi lignee. Questa teoria è talmente contraria alle
osservazioni della realtà e delle conoscenze costruttive dei
nuragici da renderla
impossibile da adottare.
99
E. CONTU,
Esterzili (Nuoro)...
op. cit.
p. 317.
100
Ibidem,
p. 315-316.
101
E. CONTU,
Esterzili (Nuoro)... op. cit.
p. 316.
103
M. A. FADDA,
Gli architetti nuragici... op. cit.
p.73.
104
v. supra
105
M. A. FADDA
– F. POSI,
Il complesso nuragico di Gremanu...
op. cit. p. 31.
106
Ibidem
107
Ibidem
108
Ibidem,
pp. 17, 31.
109Si
veda in proposito C. GIARDINO,
Sfruttamento minerario e metallurgia
nella Sardegna protostorica, in
Reprinted from Studies in Sardinian
Archaeology III – Nuragic Sardinia and the Mycenaean World,
Oxford 1987, pp. 189-219; in particolare pp. 191-192.
110
M.
A. FADDA
– F. POSI,
Il
complesso nuragico di Gremanu... op. cit. p.
25.
111Ma
non l'unico esempio di sapienza ingegneristico-idraulica. Cfr. F. LO
SCHIAVO – L. VAGNETTI,
Alabastron miceneo dal nuraghe
Arrubiu di Orroli (Nuoro), in Atti
dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze Morali,
Storiche e Filosofiche. Rendiconti – Vol. IV, Roma 1993, p. 128,
nota n° 12.
112È
difficile concepire un limite preciso tra sfera sacra e sfera laica
in seno a società pre o protostoriche. I compiti potevano variare,
essere solo temporanei od occasionali, adibiti ad una particolare
classe di adulti (considerati in base ad una qualche particolare
categoria all’interno della società), o cambiare secondo una
sorta di turni periodici come accade, ad esempio, a tutt’oggi, per
le feste paesane; organizzate da una classe di età, o a turni
annuali da alcune famiglie unite da un qualche tipo di vincolo
arcaico.
113
M. A. FADDA,
Operazione... op. cit.
p. 79.
114
M. A. FADDA,
Fonni (Nuoro). Località Gremanu...
op. cit. p. 243.
115
Ibidem,
p. 245.
116
In M. A. FADDA
– F. POSI,
Il complesso nuragico di Gremanu...
op. cit. p. 40, si propende per il
focolare rituale.
117Sia
detto di passata, questo è quello che succede ad Esterzili, dove
l’enorme megaron
troneggia solitario in mezzo ad un nulla circondato da lontano dagli
insediamenti che, con ogni probabilità, ne controllavano il culto;
un tempio quasi monumento di se stesso.
118Un’ipotesi
in contrasto con quella suesposta, valuterebbe l’ingresso
considerando la strettoia che produce, e che si dipana per alcuni
metri, e che costringeva i fedeli ad un certo ordine all’atto
dell’entrata; ordine a sua volta simbolo di religioso
rispetto. Il contrasto è però
solo apparente; intanto perché un ingresso è ipso
facto un invito implicito ad essere
attraversato, e poi perché il religioso
rispetto era già, probabilmente,
nell’animo di chi si accingeva ad entrare in un’area sacra a
partecipare di un rito. Ed infine i due punti di vista sono
complementari. L’invito all’ingresso di un’area sacra comporta
il prezzo implicito del rispetto debito.
119Probabilmente
non è neppure corretto parlare di volontarietà specificamente
mirata o meno; strutturare una simile area di aggregazione è un
fatto volutamente implicito già nel concetto di area sacra e di
contemporanea partecipazione dei fedeli ad un culto, il quale è
collettivo ed aggregante per definizione, dal momento che conferiva
(allora come oggi), significato culturale comune ad una comunità.
L’azione aggregante di quest’area, per tanto (e dell’intero
momento nel quale durava il culto), è implicita tanto nella
struttura quanto nella volontà di edificarla.
120
v. supra
121
M. A. FADDA,
Fonni (Nuoro). Località Gremanu...
op. cit. p. 242.
122
Ibidem,
p. 245.
123M.
A. FADDA,
Gli architetti nuragici... op. cit.
p. 73, e M. A. FADDA
– F. POSI,
Il complesso nuragico di Gremanu...
op. cit. pp. 28-37; qui il focolare
è interpretato come fuoco rituale, tenuto costantemente acceso.
124
G. LILLÎU,
Dorgali (Nuoro): Villaggio Nuragico
di Serra Orrios... op. cit. p. 242.
125
M. L. FERRARESE
CERUTI, Il
villaggio nuragico di Serra Orrios... op. cit.
pp. 109-113.
126Una
visione molto dettagliata degli insediamenti del territorio di
Dorgali la si può vedere in A. MORAVETTI,
Serra Orrios e i monumenti
archeologici di Dorgali... op. cit.
pp. 5-8. Qui, tuttavia, è considerato il solo territorio
amministrativo di Dorgali, mentre un'analisi completa dovrebbe
riguardare anche terreni nei pressi di Lula ed Orosèi a N e di
Oliena e Nuoro a OSO.
127Ibidem,
pp. 26-28. L’Autore mette in relazione questo fenomeno con uno
analogo attestato nel vicino territorio di Oliena.
128
Ibidem,
p. 25.
129
A. DEPALMAS,
La Preistoria e la
Protostoria
della Sardegna...
op. cit.
pp. 15, 141, 147-149.
130Le
considerazioni ipotetiche, in merito a questo dilemma, sono tante;
una è relativa alle torri nuragiche come elemento importante del
controllo del territorio, e dunque verosimilmente relative ad
un’epoca nella quale l’uso primario del nuraghe non era ancora
cessato (ante
BF dunque); un’altra teoria è relativa ad un’epoca che ha già
visto cessare l’uso primario della torre nuragica, insieme alla
sua edificazione, e nella quale il nuraghe veniva destinato ad un
utilizzo diverso da quello precedente ma, data la cessazione della
sua edificazione, non più fondamentale. Difficile dunque, in questo
secondo caso, prendere in considerazione l’ipotesi del nuraghe
come elemento attivo nella difesa e nel controllo del territorio. Un
ruolo di tale importanza avrebbe rimesso la torre nuragica di nuovo
in primo piano, nella cultura insediativa ed anche edificatoria
delle comunità nuragiche del BF ed oltre, e si sarebbe registrata
un’importante attività di rifacimenti, riattamenti e, infine, di
nuove edificazioni, magari con diverse caratteristiche
architettoniche. Cosa che non sembra sia avvenuta.
La teoria di Moravetti, dato
il panorama culturale (prima ancora che cronologico), di comunità
di villaggi non più legati ad un edificio dominante,
com’era il nuraghe, e che sembra essere la caratteristica del
villaggio di Serra Òrrios,
tra gli altri, può a mio avviso funzionare, anzi, sembra la
risposta migliore alla problematica rappresentata dall’insieme
insediativo di questo territorio, ma solo a condizione che il
nuraghe non giochi nessun ruolo chiave in questa organizzazione
territoriale. Un articolato intreccio di relazioni politiche,
invece, tra villaggi e (molto probabilmente) centri di culto
cantonali, renderebbe merito non solo di una situazione insediativa
nella quale un abitato come Serra Òrrios
abbia potuto prosperare senza criteri difensivi di sorta, ma a sua
volta spiegherebbe la fine del ruolo dominante della torre nuragica
come espressione assoluta della comunità di villaggio.
131
In M. A. FADDA,
Dorgali (NU) – Villaggio nuragico
di “Serra Orrios”, in AA.VV.
... op. cit. pp. 85-89.
132
A. MORAVETTI,
Serra Orrios e i monumenti
archeologici di Dorgali... op. cit.
p. 37.
133Da
porsi proprio nel BF, 1200-1100 a.C., cfr. A. DEPALMAS
R. T. MELIS,
The Nuragic People: Their
Settlements... op.
cit. p.171.
134
M. L. FERRARESE
CERUTI, Il
villaggio nuragico di Serra Orrios... op. cit.
pp. 109-113.
135
F. LO
SCHIAVO, Il
villaggio nuragico di Serra Orrios: i bronzi... op. cit. p.146,
151.
136
A. DEPALMAS,
La Preistoria e la
Protostoria della Sardegna ...
op. cit.
p. 147.
137A.
MORAVETTI,
Serra Orrios e i monumenti
archeologici di Dorgali... op. cit.
pp. 35-40; M. L. FERRARESE
CERUTI, Il
villaggio nuragico di Serra Orrios... op. cit.
p. 111.
138
A. DEPALMAS,
La Preistoria e la
Protostoria della Sardegna ...
op. cit.
p. 147.
139M.
L. FERRARESE
CERUTI, Il
villaggio nuragico di Serra Orrios... op. cit.
p. 111; dove l’Autrice individua tre isolati mentre Alberto
Moravetti in A. MORAVETTI,
Serra Orrios e i monumenti
archeologici di Dorgali... op. cit.
pp. 38-44, ne individua quattro.
140M.
L. FERRARESE
CERUTI, Il
villaggio nuragico di Serra Orrios... op. cit.
pp. 111-112. La riflessione qui esposta è relativa al dilemma
dell’evoluzione dei nuclei centripeti, degli isolati e/o gruppi di
capanne dell’abitato, per aggregazioni successive, ovvero pensati
ed eseguiti in un’unica soluzione. La studiosa considera che
questa differenza non implichi necessariamente una “rilevante
articolazione cronologica”, ma,
nel primo caso, un “susseguirsi
ininterrotto di interventi costruttivi
(...) determinati da necessità di
ordine sociale (...), quali
il normale incremento demografico; e
nel secondo caso: (...) si avrebbe
il succedersi di fasi ed episodi edificatori distinti, conseguenti
ad una diversa concezione di occupazione del suolo e di tessitura di
rapporti socio-economici.
Tralasciando le problematiche dei rapporti cronologici che queste
due diverse evoluzioni insediative possono comportare, e che saranno
sviluppate più avanti, e pur apprezzando lo scrupolo analitico di
Maria Luisa Ferrarese Ceruti, a mio avviso quanto esposto può
considerarsi un non-problema.
È chiaro
che un qualunque momento evolutivo, di cambiamento, deve essersi
prodotto, prima o durante la fase di vita di Serra
Òrrios, e
che questo momento, qualora si possa evincere in seno a questo
contesto insediativo, ha comunque avuto come risultato urbanistico
l’articolazione presa in esame, ma è altrettanto chiaro che,
appunto, questo è stato il risultato, evidentemente voluto se non
addirittura cercato. In quest’ottica le due visioni possono
persino convivere e coincidere. Tanto più se, come la stessa
Ferrarese Ceruti considera, non deve necessariamente esservi stata,
nel processo evolutivo della conformazione urbana di Serra Òrrios,
una “rilevante articolazione
cronologica”.
141
A. MORAVETTI,
Serra Orrios e i monumenti
archeologici di Dorgali... op. cit.
pp. 35-40.
142
I dubbi di Maria Luisa Ferrarese
Ceruti, v. supra,
derivavano esattamente da questa situazione.
143
A. MORAVETTI,
Serra Orrios e i monumenti
archeologici di Dorgali... op. cit.
p. 40, ed altre.
144
Ibidem,
p. 39.
145
Segnatamente quelli condotti nel 1986
da Maria Ausilia Fadda.
146A.
MORAVETTI,
Serra Orrios e i monumenti
archeologici di Dorgali... op. cit.,
e M. L. FERRARESE
CERUTI, Il
villaggio nuragico di Serra Orrios... op. cit.
147
A. DEPALMAS,
La Preistoria e la
Protostoria della Sardegna ...
op. cit.
p. 147.
148
Op. cit.
pp. 43-50.
149
M. A. FADDA,
Dorgali (NU) – Villaggio nuragico
di “Serra Orrios”, in AA.VV.
... op. cit.
p. 88.
150A.
MORAVETTI,
Serra Orrios e i monumenti
archeologici di Dorgali... op. cit.
p. 44.
151
Cit. da Ibidem
152Ovvero
dal XVIII sec. a.C., periodo d’inizio del BMI, e il 950 ca. a.C.
momento d’inizio dell’età del IFe, ma per tanto anche più
addentro a quest’ultimo periodo, dal momento che si parla di
materiale ceramico di età del ferro e non dell’ultimo periodo del
BF. Il BM, inoltre, è suddiviso in tre periodi, significati da
diverse e relative forme e decorazioni ceramiche; a quale di questi
periodi si riferisce esattamente Fadda? (Per le datazioni v. supra;
in particolare A. DEPALMAS,
La Preistoria e la
Protostoria della Sardegna ...
op. cit.
pp. 123-130). Un’informazione, questa relativa alle due capanne e
alla stratigrafia a loro interna, talmente lacunosa da doverla
tenere in considerazione nient’altro che come indizio relativo
alle presenze materiali di Serra Òrrios.
Quanto alla “sequenza
stratigrafica”; una volta resi
noti i dati di scavo sarà presa in considerazione secondo le
corrette forme dello studio archeologico; fino a quel momento anche
questo dato sarà poco meno che un elemento indiziario da inserire
in un più vasto argomento di analisi.
153
A. MORAVETTI,
Serra Orrios e i monumenti
archeologici di Dorgali... op. cit.
p. 45 con pianta di questa zona a p. 49.
154
Le dimensioni delle capanne, in diametri
esterni ed interni, ed in mq, si possono leggere in Ibidem,
p. 42.
155
Ibidem
156
Ibidem,
pp. 51-54.
157In
Ibidem,
pp. 53-54, l’Autore discute l’interpretazione di questo vano
come “tempio”, così interpretato da Fadda, per la sola presenza
del vestibolo che, secondo Moravetti, non sarebbe sufficiente a
conferirgli una simile attribuzione. Concordo con Moravetti nel
vedervi, invece, un edificio politico-cultuale, di riunioni, nelle
quali, o previamente alle quali, veniva praticato un culto. (Tutte
le informazioni relative alle dimensioni degli ambienti di Serra
Òrrios,
con relative carte dell’abitato e degli isolati, le si può
trovare in Ibidem,
pp. 38-54).
158
Ibidem,
p. 57.
159Ibidem,
pp. 66-67, 70; le pp. 70-71 sono occupate da una complessiva e
suggestiva ricostruzione dell’intero abitato, nella quale si può
notare l’interpretazione come luoghi di rimessa e di servizio
degli ambienti 10a e 10b dell’isolato C, nonché degli ambienti 73
e 74 dell’isolato A e 67 e 66 dell’isolato B (dal disegno,
assonometrico, non si intuisce se anche l’ambiente 56 dello stesso
isolato B sia interpretato come rimessa o servizio);
l’interpretazione si evince dal fatto che gli ambienti non
considerati capanne (ovvero abitazioni), sono privi di copertura, e
ci sarebbe qui da discutere sul perché degli ambienti adibiti ad un
qualche tipo di servizio non dovessero essere coperti (a meno ché
questa soluzione grafica non sia semplicemente simbolica, e a meno
ché non li si consideri come recinti per il ricovero di animali,
interpretazione forse più plausibile ma, a mio avviso, comunque non
corretta, anche a causa delle dimensioni troppo ridotte di questi
ambienti per un simile compito). La copertura delle capanne,
straminea, era di forma conica, ovvero spiovente, così come si
suppone siano stati i megara,
ovvero con copertura lignea, con pali orizzontali a sostenerla, e a
doppio spiovente, lungo il rettangolo della struttura. Moravetti,
considerando questa bella ricostruzione grafica, conferisce così il
ruolo di abitazioni alle capanne circolari, di medio-grandi
dimensioni, e lascerebbe agli ambienti più piccoli (e raccolti) un
ruolo non abitativo. A parte la considerazione di cui sopra,
relativa ad ambienti di servizio comunque da pensarsi coperti,
considerare le capanne circolari, di medio-grandi dimensioni, come
abitazioni, si spiega perfettamente con l’esigenza di maggiore
spazio vitale, mentre spiega meno l’esigenza di strutturare parti
dell’abitato, con tanto ordine urbanistico, solo come luoghi di
servizio da lasciarsi, per giunta (almeno alcuni), non coperti.
In
queste due diverse visioni della struttura urbana, si esprimono due
concezioni opposte della vita, ovvero del sistema di vita, che
doveva svolgersi in questo villaggio. Dalla visione di Moravetti
emerge un sistema nel quale l’abitazione “privata” era il
fulcro della vita, e dunque una concezione nella quale la cellula
abitativa assurgeva a maggiore importanza rispetto, ad esempio, alle
attività socializzanti (il lavoro; fusione e modellazione dei
metalli, la concia delle pelli ecc.). L’isolamento di alcune di
queste capanne, inoltre, sancirebbe questa visione intimista.
Gli ambienti raccolti, di dimensioni minori, potrebbero dunque
interpretarsi come luoghi di aggregazione professionale, o di
semplice rimessa, per i quali sarebbe interessante capire se
l’utilizzo fosse esclusivo (di alcune categorie o addirittura
famiglie), oppure comune. Questi due elementi – abitazioni isolate
e luoghi di lavoro in comune – sembrerebbero contrastare tra loro;
una tendenza all’isolamento esclusivo della vita famigliare
potrebbe aver esercitato una forte influenza anche verso l’attività
lavorativa, portando anche questa a qualche forma di esclusivismo. È
tuttavia possibile che in un’economìa di villaggio protostorico,
le forze aggreganti, vitali per la
sopravvivenza stessa della comunità,
compensassero eventuali derive
isolazioniste.
Un’altra visione potrebbe
essere la seguente: gli ambienti minori e maggiormente raccolti,
principalmente quelli che si affacciano sulle piazze coi pozzi (gli
ambienti 19, 20 e 39, 40 dell’isolato B; 56, 67, 66, 64
dell’isolato C; ed anche 10, 10a e 10b dell’isolato D), sono da
vedersi come luoghi di ritiro, di riposo, quasi poco più che
dormitoria,
mentre le capanne più isolate, con dimensioni relative, adibite ad
un qualche tipo di attività di pubblica utilità. Questa lettura
presuppone una visione di un tipo di vita opposto a quello poco
sopra descritto; una intensa vita sociale ed aggregata, nella quale
lo spazio (o meglio, il tempo), per la vita intima e ritirata, era
ridotto a poche ore durante l’arco giornaliero, ed a spazi
ritirati ma uniti tra loro da elementi comuni, come le piazzole, le
strade e i pozzi per l’approvvigionamento idrico quotidiano.
Questa visione è quella che, a mio modo di vedere, giustifica
meglio lo sforzo di strutturare parti compatte dell’abitato, come
ad esempio quelle dell’isolato C, e di unirne altre, come negli
altri isolati.
Tuttavia, a favore della prima
visione stanno le insule di S'Arcu 'e Is Forros (di cui parlerò più
avanti), che si sono rivelate essere delle officine per la fusione e
la forgiatura, e la cui somiglianza architettonica con questi
isolati così singolari fanno supporre non solo coevità ma anche
una stessa semantica funzionale.
160
A. MORAVETTI,
Serra Orrios e i monumenti
archeologici di Dorgali... op. cit.
p. 61.
161
Ibidem
162
Ibidem,
p. 65.
163
Ibidem
164
v. supra,
p. 48; G. LILLÎU,
Dorgali (Nuoro): Villaggio Nuragico
di Serra Orrios... op. cit. p. 242.
165Durante
i lavori del 1986 gli fu aggiunto un artistico architrave ricurvo.
Si veda in proposito A. MORAVETTI,
Serra Orrios e i monumenti
archeologici di Dorgali... op. cit.
pp. 63-65.
166
“(...) che
mostra un’opera muraria di tipo più arcaico.”;
in Ibidem,
p. 69.
167
Ibidem
168
Ibidem,
p. 65; e G. LILLÎU,
Dorgali (Nuoro): Villaggio Nuragico
di Serra Orrios... op. cit. p. 241.
169I
dati esposti da Maria Ausilia Fadda, in quest’ottica,
contribuiscono più a confondere che a risolvere i quesiti in
questione; Id., Dorgali (NU) –
Villaggio nuragico di “Serra Orrios”,
in AA.VV. ... op. cit.
pp. 85-89, e specialmente p. 87, dal momento che le informazioni ivi
contenute, del tutto incomplete, non sono accompagnate da nessun
dato archeologico oggettivo e verificabile.
170
Fatti salvi i diritti di uno studioso
di avanzare qualunque ipotesi ritenga corretta.
171
v. supra
172
A. MORAVETTI,
Serra Orrios e i monumenti
archeologici di Dorgali... op. cit.
p. 69.
173Considerare
alcune capanne come considerevolmente più antiche della fase
complessiva villaggio-aree sacre,
non cambia il quadro, dal momento che sono state ben inglobate
nell’abitato successivo; così come non lo cambiano eventuali fasi
precedenti di alcune altre strutture come, ad esempio, il vano B1
dentro il tèmenos B v. ibidem,
per le stesse ragioni. Ambienti particolarmente anteriori al
villaggio così come appare, con la sua coerenza urbanistica,
potrebbero, al limite, rendere merito di elementi materiali relativi
a fasi molto antiche della cultura nuragica, come le ceramiche
Bonnanaro segnalate da Fadda, o quelle del BM non meglio spiegate
dalla stessa. Ma nulla più. Sempre che non abbiano provenienza
esterna all’abitato. Probabilmente l’intuizione più corretta fu
quella di Maria Luisa Ferrarese Ceruti, quando considerava non vi
fosse una “rilevante articolazione
cronologica” tra le parti
dell’abitato, tra gli isolati; la stessa considerazione è da
farsi, a mio avviso, anche per l’area sacra B in relazione al
resto del villaggio, o quanto meno della sua parte maggiore.
174Una
certa irregolarità ed asimmetria delle forme e dunque
dell’estetica, può indurre ad errori d'interpretazione noi
osservatori odierni, abituati all’ossessione della simmetria e
dell’aspetto. Questa irregolarità può apparire, pertanto, come
un chiaro indizio di primitivismo delle forme, mentre probabilmente
appartiene ad una visione (anche qui non senza un qualche grado di
ossessione opposta), prettamente utilitaristica delle stesse. Nel
disordine formale di certe strutture nuragiche, a ben guardare, non
si coglie un solo elemento che non abbia crismi di funzionalità;
per questo, probabilmente, le due ante dei megara
(in opistodomo specialmente, ma anche in pronao – S’Arcu ‘e Is
Forros, Gremanu), hanno faticato a trovare un loro spazio nel
razionalismo costruttivo dei nuragici e, nel caso del tempio B di
Serra Òrrios,
sembra sia stato interpretato ed usato, implementandolo di materiale
(e formando un elemento curvilineo, concavo), come elemento di
maggiore stabilità ed equilibrio statico. Il caso di Domu de Orgìa
a sua volta riflette, nel suo sincretismo architettonico,
l'evoluzione di questa forma allogena: un elaborato aggetto in
lastre di scisto, sulla pianta del megaron.
177Altri
giacimenti di questi metalli sono presenti nell'arco di meno di una
decina di km dall'area sacra.
178M.
A. FADDA,
Villagrande Strisaili, il villaggio
santuario di S'Arcu 'e Is Forros... op. cit.
pp. 23-25.
180
M. A. FADDA,
Villagrande Strisaili, il villaggio
santuario di S'Arcu 'e Is Forros... op. cit.
pp. 6-8.
186In
attesa dei dati di scavo, che chiariranno certamente meglio
l'attribuzione dell'altare a questa seconda fase, è lecito
prendersi la libertà di contestare questa sequenza di lunghe fasi
per un'abside ed un altare che pare si sia fatto attendere a lungo
dalla prima, e considerare non tanto la semplice coincidenza delle
fasi edilizie per l'altare e lo spazio nel quale ha trovato posto,
ma la contemporanea progettazione di questo piccolo complesso,
integrante struttura architettonica e cultuale-votiva. Cfr. Ibidem,
pp. 26-35.
188Una
descrizione dettagliata di quest'insula
e dei reperti ivi rinvenuti, nonché della sua strutturazione
architettonica, la si può trovare in M. A. FADDA,
Villagrande Strisaili, il villaggio
santuario di S'Arcu 'e Is Forros... op. cit.
pp. 36-49.
189L'insula
è stata interpretata anche come
luogo d'abitazione, segnatamente per un gruppo familiare,
probabilmente in base al fatto che una struttura così chiusa
potesse essere pertinente solo ad un gruppo legato da stretti legami
di parentela; in M. A. FADDA,
Villagrande Strisaili... op. cit.
p. 37, personalmente però ritengo improbabile questa attribuzione
abitativa dell'insula, in quanto non è coerente con l'assenza di un
villaggio abitato all'epoca delle attività cultuali dei templi,
nonché per il fatto che i materiali rinvenuti al suo interno
rimandano ad un'attività incompatibile con una vita domestica.
190Studiata
da Giovanni Garbini; G. GARBINI,
I Filistei, gli antagonisti di
Israele, Brescia 2012, p. 296, in
M. A. FADDA,
Villagrande Strisaili, il villaggio
santuario di S'Arcu 'e Is Forros... op. cit.
pp. 54, 103. L'anfora è classificata come cananea in Ibidem,
ma la sua tipologia, considerando l'assenza del collo con il solo
bordo, riporta ad orizzonti fenici, e dunque più tardi.
191Ibidem
192È
stata ipotizzata, per l'intera
isola, e per un'epoca non precisata (in merito alla descrizione del
santuario di Gremanu), una situazione di siccità, che avrebbe
portato gli abitanti dei varî villaggi a cercare acque ipogeiche ed
a costruire santuarî
legati al culto di un liquido che vedevano via via sparire dalla
loro vista. In M. A. FADDA
– F. POSI,
Il complesso nuragico di Gremanu...
op. cit. p.
39. Un simile scenario contrasta fortemente non solo con l'ipotesi,
documentata da dati paleobotanici, della messa a coltura intensiva
anche di terreni precedentemente non interessati da questa attività,
si veda A. DEPALMAS,
La Preistoria e la
Protostoria
della Sardegna...
op. cit.
p. 148, laddove la carenza delle precipitazioni difficilmente
avrebbe potuto permettere queste nuove attività agricole, ma
contrasta anche, e principalmente, con l'esistenza stessa di un
insediamento complesso e ricco come Gremanu (e non solo di Gremanu).
Il culto delle acque, anziché essere indice di carenza d'acqua
appare, al contrario, come indicatore di abbondanza di questa. Un
sito come S'Arcu 'e Is Forros lo conferma; a meno di vene
sotterranee, l'acqua era usata, negli offici cultuali e nella
fortemente documentata attività della lavorazione dei metalli, in
un contesto nel quale erano presenti dei corsi d'acqua che,
evidentemente e per lungo tempo, dovevano essere ben carichi. In M.
A. FADDA,
Villagrande Strisaili, il
villaggio santuario di S'Arcu 'e Is Forros... op. cit.,
non è presente nessun accenno a questa precedente considerazione.
194Benché
proprio l'attività delle insule, testimoniata dalla ricchezza dei
reperti che hanno restituito, lasciano aperta la porta ad ipotesi di
una presenza costante ed assidua, se non addirittura quotidiana, di
lavoratori del metallo, di fabbri fusori e forgiatori, magari
adibiti a questo scopo e per questo “pagati” e ricompensati,
anche se, stando così le cose, questi fabbri-sacerdoti, a meno di
non ipotizzare una sorta di celibato sacro, è verosimile che
vivessero lì con le loro famiglie e non da soli, o che, infine, una
presenza costante avesse finito per creare un nucleo abitativo,
forse non del tutto da escludere ma che non pare documentato dai
resti archeologici. Comunque stessero le cose, l'attività
testimoniata dalle insule,
oltre che dai megara
e dai tèmenoi,
denunciano una frequentazione quantitativamente importante.
Personalmente propendo per la frequentazione assidua ma non
continua; un nucleo familiare avrebbe finito per creare necessità
che in breve avrebbero portato ad un popolamento, e dunque ad un
insediamento a tutti gli effetti. Cosa che non si è venuta a
creare.
197P.
BERNARDINI,
Le torri, i metalli, il mare. Storie
antiche di un'isola mediterranea,
in Sardegna Archeologica – Scavi e Ricerche, Sassari 2010, pp.
16-17.
202F.
LO
SCHIAVO – L. VAGNETTI,
Alabastron miceneo dal nuraghe
Arrubiu di Orroli (Nuoro)... op. cit. p.
137.
205Ibidem,
p. 135. In merito alla ceramica micenea del nuraghe Antigòri di
Sarroch si veda P. BERNARDINI,
Le torri, i metalli, il mare... op.
cit. pp.
13 ss., il quale interpreta la presenza nella costa occidentale del
Golfo degli Angeli, dei mercanti levantini, in funzione di attività
commerciali legate ai metalli dell'Iglesiente.
206E.
LANZILLOTTA,
tavole cronologiche... op. cit.
pp. 2-4. Cultraro in Id., I
Micenei... op. cit. p.
18, propone la stessa cronologia per l'ambito miceneo.
207F.
LO
SCHIAVO – L. VAGNETTI,
Alabastron miceneo dal nuraghe
Arrubiu di Orroli (Nuoro)... op. cit. p.
135.
211Nella
ricerca di luoghi nei quali poteva ubicarsi un porto, in ambito
protostorico e non solo, non bisogna dimenticare che qualunque costa
che avesse una spiaggia, ovvero un fondale controllabile, era adatto
all'approdo. Le spiagge fluviali, come se ne trovano poco a S di
Tertenia, ben prima della foce del Flumendosa (formate dal Flumini
Durci a N e dal Flumini Pisale a S, senza dimenticare che il profilo
della costa, e per tanto anche gli sbocchi a mare di corsi d'acqua a
carattere torrentizio, come sono questi due rìi,
poteva essere, allora, molto diverso), o nei pressi di Orosèi dove
si trova un lungo arenile formato dal Cedrino, o in altre latitudini
dello stesso Golfo di Orosèi e a S dello stesso, rappresentavano
dei punti d'arrivo sicuri, nei quali era comodo arrivare, sbarcare,
eventualmente ricoverare le barche a riva e poi ripartire al momento
di farlo. Questa condizione è clamorosamente documentata nel
medioevo, quando Barcellona era una potenza mercantile senza porto,
senza nessuna struttura d'approdo, il “porto” di Barcellona, tra
XIV e XV secolo, era la ribera,
la spiaggia. Si veda: P. F. SIMBULA,
I porti del Mediterraneo in età
medievale, Milano 2009, pp. 74-78.
212Rispettivamente
il Flumendosa e il Cedrino.
214F.
LO
SCHIAVO – L. VAGNETTI,
Alabastron miceneo dal nuraghe
Arrubiu di Orroli (Nuoro)... op. cit. p.
131.
219Ibidem
220v.
supra.
Questa cronologia è adottata anche da Massimo Cultraro; v. Id., I
Micenei... op. cit.
p. 229.
226M.
CULTRARO,
I Micenei... op. cit.,
p. 18. Per la cronologia nuragica: una fase già addentro al BR,
Nuragico III (1350-1200), fino alle ultime fasi del BF,
Protogeometrico (1200-1000); A. DEPALMAS
R. T. MELIS,
The Nuragic People... op. cit. p.
169.
227Il
TEIIIb:1, compreso tra 1340 e 1250, vede l'inizio di una situazione
di instabilità, con le prime distruzioni, in Grecia, seguite da
ricostruzioni. Il TEIIIb:2, 1270/1180; esattamente l'epoca della
distruzione definitiva dei palazzi e del sistema palatino. Il
TEIIIc:1, 1180/1140, che vede una ripresa economica ma non la
ricostruzione dei palazzi, e dunque secondo altri sistemi. TEIIIc:2,
fino al 1100, epoca caratterizzata dalle conseguenze di eventi
sismici. Ed infine il TEIIIc (o d?),
fino al 1060/50, epoca sub-micenea e già dentro il Protogeometrico.
v. M.
CULTRARO,
I Micenei... op. cit. pp. 18,
57-64.
228La
letteratura in merito è vastissima; continuiamo a segnalare qui
Ibidem,
p. 229: “(…) l'articolata
sequenza stratigrafica [del nuraghe
Antigòri] permette di elaborare una
griglia di cronologia relativa nella quale fissare lo sviluppo della
ceramica locale in rapporto alle importazione egeo-micenee. Le
produzioni micenee si collocano nell'ambito del TEIIIb-IIIc:1 e
comprende due differenti classi: una di importazione e l'altra di
produzione locale, come è stato confermato dalle analisi
archeometriche. La ceramica d'importazione include prodotti
provenienti da officine del Peloponneso (Argolide?), ma la
percentuale più alta è quella delle fabbriche egeo-levantine e
cretesi del TMIIIb (…)”; e P.
BERNARDINI,
Le torri, i metalli, il mare... op.
cit. pp.
15 ss.
229A.
MORAVETTI,
Serra Orrios e i monumenti
archeologici di Dorgali... op. cit.
p. 23; il quale attribuisce la provenienza di resti ceramici di fase
Bonnanaro (2300-1700 a.C.), alla vicina tomba dei giganti. Si tratta
di una “tazzina
d'impasto
e di un vaso
carenato
d'impasto”,
cfr. D. COCCO,
Il villaggio nuragico di Serra
Orrios... op. cit. pp.119,
122.
230M.
A. FADDA,
Gli architetti nuragici... op. cit.
p. 75; Id., Località Gremanu... op.
cit. pp. 169-170; Id.,
Operazione... op. cit.
p. 79; e M. A. FADDA
- F. POSI,
Il complesso nuragico di Gremanu...
op. cit. pp. 9 ss. Le
interpretazioni delle ceramiche contenute in questa bibliografia, in
relazione alla loro cronologia, non coincidono esattamente con
quelle proposte da Anna Depalmas nelle opere citate, v. supra,
e sono per tanto da prendersi con salutare margine di dubbio; sono
tuttavia relative, grosso modo, al
quadro cronologico che è emerso per il presente studio. Risulta
invece molto più chiara la documentazione relativa a S'Arcu 'e Is
Forros.
232A.
DEPALMAS,
La Preistoria e la
Protostoria della Sardegna ...
op. cit.
pp. 131 ss., ma Ibidem,
p. 144.
236Le
ciotole carenate rimandano fino ad orizzonti del BR; A. DEPALMAS,
La Preistoria e la
Protostoria della Sardegna ...
op. cit.
pp. 133 ss.
238D.
COCCO,
Il villaggio nuragico di Serra
Orrios... op. cit. p.115.
L'Autrice dell'articolo considera questa classe ceramica come
appartenente ad un arco cronologico amplissimo, sulla base delle
datazioni al C14 dello stesso materiale rinvenuto nel nuraghe
Albucciu di Arzachena, e sui limiti fissati da Contu, fra il 1400 e
l'800 a.C., Ibidem;
Anna
Depalmas in Id,.
La Preistoria e la
Protostoria della Sardegna ...
op. cit.
pp. 131 ss., 144, considera la ceramica “a pettine” come
pertinente all'ambito delle due ultime fasi del BR, pur con
persistenze nel BF1.
239Ascrivibili
già ad un orizzonte relativo al BF1; A. DEPALMAS,
La Preistoria e la
Protostoria della Sardegna ...
op. cit.
p. 143.
240Fermo
restando un ampio margine di dubbio in considerazione dei numerosi e
scriteriati rifacimenti delle strutture delle capanne, effettuati
all'epoca della scoperta dell'abitato di Serra Òrrios, negli anni
'30 del secolo scorso. v. supra.
243Oltre
a quelle descritte, unite in isolati, v. supra,
se ne trovano diverse altre non ancora indagate.
248F.
LO
SCHIAVO – L. VAGNETTI,
Alabastron miceneo dal nuraghe
Arrubiu di Orroli (Nuoro)... op. cit. p.
124. Depalmas, in Id.,
La Preistoria e la
Protostoria della Sardegna ...
op. cit.
pp. 132-133, 142, segnalano una presenza relativa al BF, in una sua
fase iniziale, in una capanna ne pressi del nuraghe Gasoru-Orròli,
nello stesso ambito territoriale. Nello stesso territorio sono
segnalate altre presenze riferibili a questo orizzonte, Ibidem.
250Benché
l'ambito del sacro fosse spesso il luogo di operazioni che
richiedevano l'uso di svariati strumenti, anche coincidenti con
l'ambiente domestico e lavorativo. Questi materiali e strumenti sono
stati comunque riportati a cronologie ampie, dal BR al BF, cioè,
secondo l'Autrice dell'articolo (Ibidem),
dal XIV al X sec. a.C., che, a volerle considerare così come
vengono riportate, rendono una volta ancora merito di una lunga
frequentazione, la quale però contrasta con la sovrapposizione
delle strutture del santuario sull'insediamento sottostante.
251M.
A. FADDA,
Esterzili: La sacerdotessa...
op. cit. pp.
65-66; Id., I templi a megaron della
Sardegna... op. cit. p.
158.
252Ibidem
253P.
BERNARDINI,
Le torri, i metalli, il mare... op.
cit. p.
21; A.
DEPALMAS,
La Preistoria e la
Protostoria della Sardegna ...
op. cit.
p. 149; Id., R. T. MELIS,
The Nuragic People... op.
cit. p.
171. G. LILLIU,
Società e Cultura in
Sardegna nei periodi Orientalizzante e Arcaico. Rapporti tra
Sardegna, Fenici, Etruschi e Greci,
in Atti del I Convegno di Studi “Un millennio di relazioni fra la
Sardegna ed i Paesi del Mediterraneo, Selargius CA, 29/30 Nov. '85,
Cagliari 1985, pp. 81-82.
256La
definizione conferita a questi vasi è “a forma aperta”;
M. A. FADDA,
Villagrande Strisaili... op. cit.
p. 18, datate al XIII-IX sec. a.C., Id.,
S'Arcu 'e Is Forros... op. cit. p.
81.
257M.
A. FADDA,
Villagrande Strisaili... op.
cit.
pp. 16-19; e Id., S'Arcu 'e
Is Forros... op. cit. p.
81.
2611535°
C, contro i 1084° C del rame e i 1020° C del bronzo.
262Non
risultano dati di avvenuta indagine della capanna.
263M.
A. FADDA,
Villagrande Strisaili... op. cit.
pp. 41-43; Per le brocche
piriformi v. supra;
se queste sono cronologicamente da associare alle brocche askoidi
con decorazioni geometriche non meglio specificate (dipinte o
incise?), allora anche quella del vano A del megaron principale è
da ascriversi all'orizzonte cronologico espresso dalla brocca
piriforme, cioè il Fe:1.
266La
statuina fu recuperata presso il canale di scolo che parte dal vano
B del Megaron principale. M. A. FADDA,
Villagrande Strisaili... op. cit.
pp. 19-22.
269Non
evinte o semplicemente non documentate. M. A. FADDA,
Villagrande Strisaili... op. cit.
pp. 37-49.
270Tripodi
e armi in ferro, un martello da calderaio in bronzo, riferito
all'VIII sec. a.C., una navicella bronzea con protome bovina,
brocche bronzee con anse decorate e orlo estroflesso riferite al
VII, un'oinochoe
in bronzo con ansa ad incastro, bacini ed altri vasi in bronzo. Un
amuleto in forma di Tanit,
un'ascia in ferro, fibule a sanguisuga, uno scarabeo in faïence
egitizzante riferito all'VIII sec. a.C. Matrici in pietra per lance
e per falcetti, un elemento in bronzo, ricurvo, a sezione quadrata
con lettere fenice incise, frammentario, un'ascia a lama semilunata,
grandi quantità di frammenti di bronzo e di piombo, probabilmente
tesaurizzazioni finalizzate alla rifusione. Nonché un ariete
bronzeo. Senza dimenticare i frammenti d'anfora interpretata come
cananea (probabilmente fenicia), con iscrizioni filistee, ma
proveniente dal vano 2 dell'insula 2. M. A. FADDA,
Villagrande Strisaili... op. cit.
pp. 49-83.
271Si
veda P. BERNARDINI,
Le torri, i metalli, il mare... op.
cit.;
Id., Micenei e Fenici.
Considerazioni sull'età precoloniale in Sardegna,
Orientis Antiqui Collectio – XIX, Roma 1991; Id., Considerazioni
sui rapporti tra la Sardegna, Cipro e l'area egeo-orientale nell'età
del Bronzo,
Quaderni. Ministero per i BB CC e AA, Soprintendenza Archeologica di
SS e CA, Cagliari 1993, pp. 29 ss.
272Concordo
con Bernardini in P. BERNARDINI,
Le torri, i metalli, il mare... op.
cit. pp.
21 ss., nella
sua diatriba su una certa stantìa mentalità antica e moderna, o
sub-moderna, improntata alla visione del buon
selvaggio (o anche del cattivo
selvaggio), sardo, che incontra i
civilissimi egei, ma non concordo con le sue spiegazioni e i suoi
scenarî, fatti di incontri tra capi (o tra capi mandatarî,
lontani, e capi locali), nei quali lo scambio era posto in essere
fra uguali. Una visione come questa (e della quale Lillìu fu primo
portavoce; G.
LILLIU,
Società
e Cultura in Sardegna... op. cit. p.
81.), finisce per confermare quella mentalità dalla quale si cerca
giustamente di fuggire, perché si sforza di vedere un'analogìa,
quella di una società verticale nell'isola, che si contrapponga
alle società gerarchiche egee e levantine di sicura attestazione.
Nelle righe citate è evidente lo sforzo di raggiungere il risultato
della visione di una società gerarchica nel mondo nuragico, ma è
evidente anche il fallimento di questo sforzo. Non si evince nulla,
nelle società nuragiche, che abbia anche solo una minima
somiglianza con strutture verticali fatte di capi ed aristocrazìe.
Anzi, mi pare emerga esattamente l'opposto. Ma comunque sia, non è
da questo che deriva la dignitas
dei nuragici di fronte agli egei o i levantini, bensì da una natura
di rapporti nei quali lo scopo era il
raggiungimento
di un guadagno e di una convenienza, la cui natura di reciprocità
era la base della riuscita; cosa che, evidentemente, i mercanti
viaggiatori stranieri e i sardi avevano ben inteso. Addirittura lo
intesero altrettanto bene i viaggiatori nel loro reciproco rapporto,
se, come afferma lo stesso Bernardini, ben coadiuvato in questo da
altri studiosi; S.
BAFICO,
Lo
scavo,
in AA.VV. Il
villaggio nuragico di Sant'Imbernia ad Alghero (SS) nota
preliminare,
in Actes du IIIe Congrès International des Études Phéniciennes et
Puniques, vol. I, Tunis 1995, p. 89, nota n° 5, fenici ed euboici
si accompagnavano senza entrare in conflitti, evidentemente visti
come inutili e dannosi. Questi, i conflitti, sarebbero poi arrivati,
ma in una situazione ed in una temperie ormai matura per il salto di
qualità; dal commercio all'occupazione. Nel frattempo la pratica
dello scambio-dono, vista come simbolo della sanzione del prestigio
trasmesso, continuava senza che nessuna rigidità verticale dovesse
determinare la condizione di base per la buona riuscita della
transazione.
274
Evito, in questa sede, di entrare
nell'affascinante e fumoso tema delle navigazioni dei nuragici.