giovedì 21 febbraio 2019

Templi a megaron in Sardegna


Premessa

Nonostante l'impossibilità a visionare i dati degli scavi di questo singolare tipo di monumento (laddove esistano1), appare utile, se non necessario, tentare un'analisi che provi a conferire un quadro, culturale e cronologico, razionale e chiaro, nel quale inserire questa particolare struttura architettonica.
La singolarità dei templi a megaron è tanto più evidente in quanto la loro architettura, la loro forma strutturale2, si stacca notevolmente da quella nel cui quadro cronologico e culturale sono inseriti: quello nuragico3. Questo elemento formale emerge con tanta forza se si considera un altro aspetto particolarmente notevole: l'importanza di questo edificio nel panorama insediativo e culturale – e verosimilmente cultuale e religioso – della cultura che lo espresse. I templi a megaron sembrano stare al vertice delle espressioni culturali della società nuragica alle soglie del I millennio e oltre, ma appaiono non preceduti, sembra, da un'evoluzione formale che si concluda, lungo un determinato periodo di tempo, con la forma architettonica dell'edificio oggetto di questo studio4. Ogni verosimiglianza suggerisce la comparsa “improvvisa” di questi edifici, in un dato periodo della storia della civiltà dei nuraghi; e questa evidenza resta valida anche considerando alcune, del tutto verosimili, fasi evolutive interne della forma architettonica, nella cronologia complessiva di questi monumenti. Parallelamente a questo aspetto di “primo piano” dei templi, nella collocazione in seno al panorama socio-insediativo che li vide sorgere, emerge, per contrasto, il loro scarso numero. Ad oggi se ne contano 14 indagati5. Se da un lato è lecito pensare alla scomparsa, nel corso del tempo e per varie ragioni, di molti di questi edifici, d'altro lato è altrettanto congruente considerare che il loro numero, cioè, o quello dei templi scomparsi o quello di quelli rimasti, sia proporzionato al totale originario, e che pertanto questo non dovesse essere comunque particolarmente elevato. Se consideriamo la pressoché netta percentuale dei nuraghi scomparsi rispetto a quelli rimasti (considerando positivamente l'ipotesi dei circa 10.000 nuraghi originari6), un approssimativo 30%, potremmo forse avanzare considerazioni su percentuali analoghe per i templi scomparsi; ma anche considerando percentuali più alte (tra il 50 e il 70/80%), il loro numero originario doveva essere pur sempre notevolmente più basso di quei monumenti che hanno marcato per secoli l'identità culturale della Sardegna. Probabilmente non è da escludersi, nella considerazione di un maggior numero di templi scomparsi rispetto a quelli rimasti, la loro stessa struttura; fragile, rispetto ad esempio alle torri nuragiche, possenti anche negli esempi più elementari. Una struttura meno pesante di quella delle torri nuragiche, come quella dei templi, era maggiormente passibile di distruzioni postume per varie cause, come la necessità di conci già tagliati o comunque di dimensioni ridotte, per altri utilizzi, laddove smontare un nuraghe avrebbe presentato maggiori difficoltà7.
Pochi dunque, ma molto in vista, i templi a megaron appaiono come un marcatore singolare di una fase singolare delle vicende umane dell'isola. Quale sia stata questa fase, che cosa l'abbia caratterizzata sotto l'aspetto sociale, culturale; quale ne siano state le dinamiche di acquisizione, è l'ambizioso proponimento di questo lavoro.
























Status Quaestionis

Bibliografia

I templi a megaron, all'interno del panorama archeologico sardo, occupano uno spazio marginale nell'interesse degli studiosi, i quali evidentemente percepiscono la “secondarietà” di queste strutture rispetto alla vasta ed affascinante problematica rappresentata dall'originalità e complessità delle altre, e ben più imponenti, reliquie materiali della protostoria dell'isola. Nondimeno, questi templi, pochi, marginali anche dal punto di vista cronologico alla cultura che li vide sorgere, meritano e richiedono una soluzione agli interrogativi suscitati dalla loro presenza. La fase cronologica innanzitutto, la loro genesi culturale, la loro funzione, nonché le relazioni territoriali legate alla loro ubicazione. Per contro, è corretto sottolineare come, d'altra parte, l'attenzione concessa a questi edifici sia comunque seria pur nello spazio minore (talvolta di natura poco più che didascalica) accordatogli.

Il tempio di Domu de Orgìa, in comune e territorio di Esterzili8, il più notevole per dimensioni, è descritto in un breve articolo di Ercole Contu, del 19489, non privo di spunti analitici.
Del 1993 è la pubblicazione del volume relativo agli atti del convegno di studi tenutosi ad Esterzili il 13 giugno 1992, nel quale il tema centrale era la tavola bronzea risalente al 69 d.C., contenente l'iscrizione di una sentenza emessa il 18 marzo di quell'anno dal proconsole Lucio Elvio Agrippa. Diversi autori hanno presentato varî temi in relazione all'archeologia, geologia ed economia antica, protostorica non meno che romana, del territorio di Esterzili, descrivendo in particolare il suo monumento maggiormente significativo; il tempio a megaron10. Il livello analitico di questi atti ed interventi, nonostante la loro brevità, supera di gran lunga le successive pubblicazioni, relative alle indagini dei primi anni 2000.
In questi anni, infatti, il tempio è stato oggetto d'indagine da parte della Dott.ssa Maria Ausilia Fadda, della Soprintendenza archeologica di Sassari e Nuoro, la quale ne rende nota in alcuni articoli che sostanzialmente riportano le stesse informazioni, in forma più che altro suntiva, di tipo descrittivo11. In una di queste pubblicazioni12 l'autrice accenna ad un altro tempio a megaron, posto “a monte del villaggio” (un insediamento nuragico), il quale si trova a 1212 mt. s.l.m. nel Monte Santa Vittoria, e circondato da un temenos.

Il megaron di Esterzili, detto Domu de Orgìa (casa di Georgìa, o Urxìa, una maga, una strega o una gigantessa13), fu notato e segnalato in epoche a noi remote, segnatamente nel 1833, dal presbitero e studioso Vittorio Angius, che lavorava all'epoca per il progetto del “Dizionario degli Stati del Re di Sardegna”14. Più tardi, nel 1840, suscitò l'attenzione del generale e studioso eclettico Alberto Della Marmora, il quale, diversi anni dopo, attribuì il tempio ad epoca romana, sulla base della Tavola bronzea di Esterzili, ritrovata nell'abitato romano di Corte di Lucetta nel 186615. Nel 1948, Ercole Contu, visitando il sito ed il tempio, attribuì quest'ultimo ad epoca nuragica16.
Contu descrisse l'area geografica che conteneva l'insediamento, restituendone una raffigurazione efficace, in considerazione della scelta ubicativa di quei sardi nuragici che avevano, con ogni evidenza, un'idea precisa in merito alle loro esigenze: “Pressoché al centro della Sardegna, nella Barbagia Di Seùlo, non lungi dal M. Gennargentu, si estende una zona, ad un dipresso triangolare, racchiusa tra il Rio Flumineddu, il R. de Sàdali o Nuluttu e il Flumendosa (…)”17.
In questa sua annotazione orografica e idrografica, lo studioso riesce a dare un'immagine sufficientemente chiara della scelta ubicativa degli insediamenti antichi, indirizzando così le ipotesi circa questa scelta. Poi elenca i monumenti che ha visto all'interno della zona descritta; tre nuraghi, tre tombe di giganti, due recinti megalitici, un borgo nuragico con pozzo quadrato, una fonte nuragica con falsa cupola, uno strano edificio (sic) ad un dipresso trapezoidale con contrafforte, un probabile (sic) tempio rettangolare e traccia di almeno sei abitati romani. L'attenzione di Contu si concentrò infine sul probabile tempio, del quale, dopo una doverosa descrizione architettonica e metrica, non mancò di notare la rassomiglianza con i megara greci, segnalando, inoltre, che la stessa considerazione fu fatta poco tempo prima da G. Lillìu in merito ai due templi di Serra Òrrios18.
Dal 1990 sono iniziate le indagini in tutto il territorio di Esterzili, nel quale sono emersi una cinquantina di siti archeologici, la maggior parte dei quali (in una stima del 70%), di età nuragica19. Il comune di Esterzili finanziò in seguito gli scavi, nel 2001, condotti dalla Soprintendenza archeologica delle province di Sassari e Nuoro, concentrati proprio nell'area del tempio a megaron.

In località Gremanu, in agro di Fonni, si trova uno dei complessi insediativi nuragici più interessanti ed originali di tutto il panorama protostorico isolano, con un complesso sistema di fonti, pozzi ed un acquedotto. In questo articolato complesso insediativo si trova un'importante area sacra della quale fanno parte tre strutture o ambienti di cui una circolare, una a pianta rettangolare absidata (con andamento piuttosto irregolare), e un tempio a megaron, il tutto all'interno di un tèmenos pseudo-parallelepipedo20 (La struttura circolare si interseca con le mura del c.d. tèmenos, mentre l’ambiente absidato tange uno dei suoi lati lunghi con il muro orientale dell’area sacra che lo contiene).
Le notizie relative al tempio a megaron di Gremanu non risalgono oltre il 1996, anno nel quale fu scoperto, benché l'intero sito abbia visto la luce solo nel 1989. La Soprintendenza archeologica di Sassari e Nuoro ha condotto tutte le indagini su questo importante insediamento. Le pubblicazioni relative non superano la dimensione suntiva e descrittiva, benché (ferma restando la carenza dovuta alla mancata, finora, pubblicazione dei dati di scavo), puntuali circa le informazioni di massima relative alle indagini ed agli elementi indagati.

Nel 1989, dunque, la Soprintendenza diede inizio ad un’indagine d’urgenza dovuta ad una situazione di danneggiamenti gravi a seguito di sterri clandestini, scoprendo così uno dei complessi più singolari di tutta la civiltà nuragica. Emerse un articolato complesso di fonti e pozzi, segnatamente nella parte più alta del passo Caravai, che conduce al passo del Corr'e Boi, che si rivelò essere un vero e proprio acquedotto; una struttura unica nella Sardegna nuragica. Questo sistema di pozzi raccoglieva acque sorgive che venivano poi convogliate a valle. Venne poi alla luce una vasca quadrangolare, di raffinata fattura litica. Dal 1990 al 1991 furono condotte altre due campagne di scavi nelle quali vennero esplorati un secondo ed un terzo pozzo, e si consolidò la struttura danneggiata della vasca quadrangolare.
Gli scavi del 1996, a valle del complesso di fonti e pozzi, mette in luce un recinto sacro, le cui mura intersecano a NE un edificio a pianta circolare, mentre all’interno di questa grande area, e sempre nella sua metà settentrionale, emersero l’edificio absidato e il megaron21.

Ben descritto, ed oggetto di puntuali attenzioni, è il tempietto di Malchittu, in agro omonimo, in territorio di Arzachena. Maria Luisa Ferrarese Ceruti indagò l'area circostante e il tempio una prima volta nel 1962 e poi nel 1964, dedicandogli un'ampia nota22. La studiosa descrisse opportunamente il luogo, ovvero l'ubicazione territoriale dell'edificio e il modo e le vie per raggiungerlo, poi descrisse il tempio, ed infine esaminò ogni sua parte proponendo paragoni puntuali con particolari analoghi o somiglianti, presenti in altri monumenti nuragici dell'isola, come templi a pozzo, tombe dei giganti e nuraghi, nel tentativo di inquadrare una funzione precisa del monumento oggetto della sua indagine. Non propose conclusioni o interpretazioni in merito; lasciò questi elementi con le loro somiglianze a beneficio dei lettori; quasi un catalogo di oggetti da mettere in eventuale relazione funzionale.
Esattamente vent'anni più tardi, nel 1984, venne pubblicata una guida che intendeva mostrare una panoramica delle emergenze archeologiche del territorio di Arzachena23. Guida ottimamente curata e descritta, nella quale l'archeologa Autrice dell'articolo che descriveva il tempio vent'anni prima, ritorna sulle sue stesse tracce descrivendo il tempietto, con l'arricchimento di informazioni dovuto allo scavo che la stessa condusse nel dicembre del 1967.
Del 1992 è una pubblicazione a carattere per lo più divulgativo, nella quale sono presentati i monumenti di Arzachena; nella descrizione del tempietto si mettono in relazione i materiali rinvenuti al suo interno con altri siti nuragici24.
Più recente, del 2013, è un breve excursus di Angela Antona Ruju, nel quale sono presenti alcune indicazioni interessanti sui rapporti geografici tra il tempietto e gli altri monumenti vicini, insieme a numerose e suggestive immagini25. In questa pubblicazione la studiosa informa della presenza di altri due templi, classificabili allo stesso modo di quello di Malchittu, collocati tra Arzachena e Palau, in territori di Monti Canu e in località Funtana di la 'Idda. Nessuno dei due è stato ancora interessato da indagini.

Uno dei siti più interessanti e più studiati fra quelli che presentano uno o più templi a megaron, è S'Arcu 'e Is Forros in territorio del comune di Villagrande Strisaili. Le indagini archeologiche iniziarono solo nel 1984, e furono indagini d'urgenza dovute ai gravi danni causati da sterratori clandestini. L'area archeologica è ricca di strutture non comuni nel pur ampio panorama della protostoria isolana; qui, uno degli aspetti più singolari è rappresentato dall'area sacra nella quale spicca per importanza e dimensioni il tempio a megaron A (accompagnato da un altro di minori dimensioni, il tempio B). Indagini e pubblicazioni furono condotte e firmate da Maria Ausilia Fadda. La prima pubblicazione è del 1992 e riguarda la terza campagna di scavo dei mesi di settembre ed ottobre del 199026, che ha interessato il grande tempio a megaron detto A. Un ricco articolo del 1996 nella rivista “Archeologia Viva” espone, con un tono più discorsivo, una panoramica più ampia ma non meno dettagliata delle indagini dell'area sacra, con riflessioni sulle strutture messe in luce ed indagate27. Un anno più tardi, la stessa archeologa della soprintendenza, pubblica ancora nel Bollettino di Archeologia un articolo che descrive gli scavi dell'insediamento vicino all'area sacra28. A parte un accenno ad alcuni reperti del sito, esposti nel museo archeologico di Nuoro, e presentati in una pubblicazione relativa allo stesso museo29, una pubblicazione estesa e completa, sul sito, sugli edifici e sui reperti di S'Arcu 'e Is Forros, con conclusioni e considerazioni sulle cronologie dell'insediamento, relative all'arco di vita dello stesso, e con belle immagini fotografiche, è del 2012, e sempre a firma della Dott.ssa Fadda30. Di un anno prima è un altro articolo su “Archeologia Viva”, dove è esposta una interessante teoria circa i mutamenti sociali avvenuti alla fine dell'età del bronzo, che avrebbero determinato mutazioni nelle abitudini cultuali e costruttive dei nuragici31.

Serra Òrrios, in territorio dorgalese, è un altro sito di grande pregio, ed uno dei primi ad essere indagati tra quelli qui citati. Il primo a parlare del villaggio in una pubblicazione (se si esclude un articolo nel Bollettino d'Arte, in seguito all'ultima indagine del 1938 condotta da Teodoro Levi, che indagò l'insediamento nel 1936, e che ne scrisse poi nel '43, dagli Stati Uniti), fu Giovanni Lillìu nel 1947. In poche righe uno dei padri dell'archeologia sarda rievoca, letto oggi, suggestioni bucoliche di epoche nelle quali era da scoprire e raccontare anche il villaggio “dietro il monte”, che non vediamo mai ma che, in effetti, è a pochi chilometri da casa nostra. Dentro questa atmosfera arcadica Lillìu descrive la natura del luogo e l'insediamento con pochi rapidi tratti, evocando impressioni da mirabilia pre-rinascimentali. Insieme a queste evocazioni emergono alcune osservazioni non scontate sulle forme architettoniche e sul contrasto tra esse; forme circolari e forme quadrangolari, le prime tipiche della Sardegna e dei sardi, le altre “importate”, ma felicemente inserite in contesti conservativi (e tardi, all'interno della cronologia nuragica), che denunciano “una sorta di accorata nostalgia della linea curva indigena (…)”32.
Del 1980 è un bell'articolo di Maria Luisa Ferrarese Ceruti, nel quale è esposta la storia della scoperta dell'insediamento, una descrizione dello stesso ed un'analisi, nei limiti del possibile, data la citata assenza di dati archeologici puntuali, di eventuali cronologie del sito, oltre a lamentare anche lo stato d'incuria nel quale lo stesso si trovava all'epoca dell'articolo33.
Nella stessa pubblicazione, Fulvia Lo Schiavo analizza i reperti bronzei rinvenuti a Serra Òrrios, anche lei poco soddisfatta dell'impossibilità di un'analisi soddisfacente delle sequenze archeologiche e dunque cronologiche del sito34. Alla parte argomentativa dell'articolo segue un catalogo dei reperti descritti.
I materiali fittili furono oggetto di studio di Donatella Cocco, in un articolo che attraverso la loro analisi mette in luce fasi cronologiche, limiti e periodizzazioni35.
I materiali litici furono presi in esame da Luisanna Usai36.
Nel volume che nel '94 fu pubblicato in omaggio all'archeologo triestino Teodoro Levi, Maria Ausilia Fadda ripercorre le tracce dei suoi scavi degli anni '36 e '37, per poi riprendere la storia delle indagini e degli studi sul sito37.
Di carattere divulgativo è un articolo dell'archeologa nuorese, dello stesso anno, in “Archeologia Viva”38.
Nella guida del museo archeologico di Dorgali del 1998, si può vedere una breve carrellata di immagini di reperti rinvenuti nell'insediamento; la guida è curata da Daniela Pulacchini39.
Un'ampia e dettagliata descrizione di Serra Òrrios, con una completa storia delle indagini dello stesso, la si può leggere in una pubblicazione di Alberto Moravetti per la collana “Sardegna Archeologica”. La prima edizione è del 199840.

Il piccolo complesso di Sa Carcaredda, anch'esso in territorio comunale di Villagrande Strisaili, presenta notevoli caratteri peculiari per la forma del tempietto. Indagato per la prima volta solo nel 1989, ed a seguito di devastazioni ad opera di scavi clandestini, fu oggetto di attenzioni più approfondite nel 1991, in occasione di indagini della Soprintendenza di Sassari e Nuoro. Un resoconto essenziale di queste indagini apparve l'anno successivo nel Bollettino di Archeologia, a firma Maria Ausilia Fadda41.
Del 1992 è una breve nota litologica di Caterinella Tuveri sui materiali coi quali il monumento è stato costruito42.
Una brevissima descrizione del tempio è del 1998 nel volume “Etruria e Sardegna centro-settentrionale tra l'età del bronzo finale e l'arcaismo”43.
Nella già citata pubblicazione per la collana “Sardegna Archeologica” del 2006, relativa al museo archeologico di Nuoro, è descritto il focolare rituale presente all'interno della camera circolare del tempio, ricostruito nelle sale del museo44.

In territorio di Alà dei Sardi, ai piedi di Punta Senalonga, a sud del massiccio del Limbara, e nella sub-regione storica del Montacuto nel Logudoro, sorge il complesso di Sos Nurattolos, che comprende un tempio a pozzo, una capanna e un tempio a megaron. Il complesso è descritto per la prima volta da Antonello Baltolu in un breve studio apparso in seguito alla sua tesi di Laurea del 1969; un articolo pubblicato nel 1973, dove descrive i monumenti degli altopiani di Buddusò e di Alà dei Sardi45. La descrizione inizia con una panoramica paesaggistica e litologica, alla quale segue la localizzazione dei monumenti presi in esame. Dopo la descrizione architettonica del tempietto, l'autore propone paralleli, cronologie, influenze, citazioni, che in generale coincidono con quelle di altri autori ed archeologi che hanno osservato altri monumenti analoghi, come Ercole Contu e Giovanni Lillìu.
Di quest'ultimo è una interessante disamina sulla religiosità nuragica, segnatamente attraverso l'esame formale dei templi a pozzo, cui si affiancano quelli a megaron. Il tempio e l'area sacra di Sos Nurattolos vi sono appena accennati (così come, nelle stesse pagine, si accenna a Malchittu), ma l'intero articolo merita di essere preso in considerazione proprio per l'analisi di una religiosità desunta a partire dalle forme architettoniche dei templi, ed insieme, dagli elementi particolari che possono esservi stati contenuti o che fanno parte integrante delle strutture templari46.
Altro accenno al tempio si trova nello stesso volume ma a firma di altro autore47.
Ancora Lillìu accenna al tempietto di Alà dei Sardi all'interno di una discorso che tocca la fase di mutazione sociale del popolo nuragico allo scorcio del II millennio48. Anche qui è chiamato in causa, come elemento di paragone, il tempietto arzachenese di Malchittu, considerato principalmente per la sua distanza cronologica (stando ai reperti ceramici rinvenuti all'interno e che si riferirebbero ad un orizzonte più alto di quello degli altri templi). Altro termine di paragone, presente in queste poche pagine, è Serra Órrios, considerato nel suo complesso di insediamento – villaggio – con due templi al suo interno. L'autore mette inoltre in evidenza l'estraneità culturale della forma architettonica dei templi a megaron all'interno della cultura nuragica.
Anna Sanna non parla del tempio ma della fonte del piccolo complesso montano di Sos Nurattolos, proponendo paralleli formali con Malchittu, e considerando una stessa fase cronologica per i due complessi49.

Il tempio di Oes, in territorio di Giave (antica regione del Meilogu, nel Logudoro, SS), compreso all'interno di un tèmenos di forma a esagono irregolare, si presenta oggi quasi raso a livello del suolo; non ne rimangono, infatti, che i muri di fondazione. Gli alzati, sia del tempio che del tèmenos, sono stati demoliti in epoca moderna durante lavori di spietramento.
Il tempio, col suo tèmenos, sono brevemente descritti da Lavinia Foddai, all'interno di un'ampia pubblicazione relativa a tutte le emergenze archeologiche dell'area, nella quale emerge per complessità ed importanza, su tutte le altre strutture, la torre nuragica 50.
In una breve scheda iniziale, relativa al tempio, spicca la voce “nessuno”, relativa agli elementi culturali rinvenuti51.

Ultimo sito tra quelli indagati è Su Romanzesu, che sorge in località Poddi Arvu (“pioppo bianco”; arvu: albo), nell'altopiano Sa Serra in territorio comunale di Bitti (NU). Altro insediamento di grande pregio ed interesse, nel quale sono emersi (in varie fasi nell'arco del '900), diversi elementi monumentali. Un tempio a pozzo, collegato ad una vasca per abluzioni, un insediamento, tre templi a megaron e un recinto che conteneva un vasto spazio interpretato come luogo cerimoniale.
Dopo la sua (rovinosa) scoperta nel 1919, da parte di Antonio Taramelli, all'epoca Soprintendente alle Antichità della Sardegna, seguirono nei decenni successivi altri interventi distruttivi, che interessarono principalmente il pozzo, volti alla ricerca e ricanalizzazione dell'acqua in periodi di siccità. In seguito ad un ulteriore danneggiamento, nel 1986, sempre durante lavori con mezzi meccanici pesanti, volti alla ricerca d'acqua, la Soprintendenza Archeologica decide finalmente di intervenire con opere di restauro e scavi, e con la tutela dell'insediamento.
Un'ampia descrizione delle strutture dell'insediamento, con fasi costruttive dei templi a megaron e cronologie, è nel volume relativo agli Atti del XXI Convegno di studi Etruschi e Italici, a cura di Maria Ausilia Fadda (1998)52. Il testo è seguito da un'ampia carrellata di disegni dei materiali rinvenuti, specialmente nei due megara.
Dello stesso anno è un articolo, firmato dalla stessa Fadda, in “Archeologia Viva”, dove ripete, benché in tono più discorsivo, le stesse informazioni presenti nella pubblicazione sopra accennata53.
Di otto anni più tardi è un'ampia pubblicazione per la collana “Sardegna Archeologica”, a doppia firma, dove il sito è oggetto di un'accurata descrizione con notizie complete ed analisi altrettanto esaustive, che non si scostano sostanzialmente da quelle già esposte nelle precedenti pubblicazioni54.
Il sito e i suoi monumenti sono ben studiati e le pubblicazioni, pur non numerose, sono a loro volta curate e precise. Anche se non sarà ridondante sottolineare, una volta ancora, la lamentevole mancanza di dati archeologici, i quali avrebbero dato modo ad altri studiosi di formulare analisi e trarre conclusioni, diverse o convergenti da quelle pubblicate, che avrebbero ampliato il quadro delle ipotesi ed arricchito gli studi di una ampia base di discussione. Questa considerazione vale per ognuno dei monumenti presi in esame in questa sede, ad eccezione di quelli per i quali i dati mancano del tutto.

Più in generale, dei templi a megaron, si parla in tutte o quasi le pubblicazioni relative all'epoca nuragica, o più in particolare in quelle relative ai coevi, e più numerosi, templi a pozzo, ma, ad eccezione di alcuni casi, come Serra Òrrios, Gremanu, S'Arcu 'e Is Forros o Domu de Orgìa, non si tratta che di brevi accenni, come è quello, ad esempio, del tempio di Oes nella citata pubblicazione. Oppure è preso in esame l'intero fenomeno di questi monumenti, come in un paragrafo curato da Ercole Contu, all'interno di un ampio volume dedicato alla storia e all'analisi della Sardegna, fino ad età classica55.
All'epoca della sua pubblicazione erano noti solo cinque templi (Malchittu, Sos Nurattolos, Serra Òrrios, Domu de Orgìa). Contu descrive i cinque templi nella loro architettura, per poi riflettere sugli accostamenti alle strutture templari dell'Elladico Antico, Medio e tardo (2600-1580 a.C.)56 e, in epoche molto posteriori, ai templi siciliani del VII, VI secolo a.C., per poi concludere che simili accostamenti, così lontani fra loro, potrebbero essere privi di significato.
Altro aspetto importante, in negativo, che Contu mette in rilievo, è la scarsità di elementi in base ai quali datare i monumenti a megaron; tuttavia non manca di proporre un arco cronologico che abbraccerebbe genesi e vita di queste strutture.

Giovanni Lillìu, in una delle sue ultime pubblicazioni, nella quale espone una lunga descrizione ed analisi della Tomba dei Giganti di Bidistili, in territorio di Fonni, spende alcune pagine a margine del testo per i templi a megaron. Insieme ad una dettagliata descrizione planimetrica, con proporzioni tra i varî edifici, mette in risalto la difficoltà a ricostruirne l'intero alzato data l'altezza residua dei muri degli impianti. Segnala le loro varie fasi costruttive, con ristrutturazioni e modifiche, esamina i materiali restituiti dai templi, denunciando a sua volta l'avarizia di dati ed informazioni di chi avrebbe dovuto pubblicare i dati sui materiali e si fa ancora aspettare, ed in base ai dati comunque disponibili, propone cronologie per i varî edifici, che accomuna in un unico breve ma sostanzioso esame57.

Di natura più analitica è un capitolo curato da Vincenzo Santoni, all'interno di un più vasto volume. È qui presa in considerazione un'intera panoramica di edifici, templi a pozzo, nuraghi, templi a megaron e pozzi sacri, tutti gravitanti all'interno dello stesso arco cronologico – dal Bronzo medio al ferro – e messi in relazione tra loro grazie a comparazioni tra forme e decorazioni ceramiche, forme architettoniche degli edifici, decorazioni in rilievo dei muri. Santoni spinge i suoi paralleli fino a toccare aree non sarde – segnatamente Etruria, Campania e altre località tirreniche – al fine di conferire un quadro cronologico possibile, scavalcando così l'assenza dei dati di scavo. L'aspetto più suggestivo della sua analisi è quello che indaga i culti possibili, praticati nei templi a megaron, optando, e non è il solo, per una cultualità legata all'acqua58.

Si è inteso indagare, in questo lavoro, i soli siti di Domu de Orgìa, Gremanu, Serra Òrrios e S'Arcu 'e Is Forros in quanto ritenuti maggiormente significativi per la loro posizione geografica, per la qualità e particolarità delle strutture, e perché mi pare si assommino in questi quattro siti le diverse varianti importanti dei megara sardi.


Il megaron sardo
Una delle problematiche (e delle suggestioni), legate all'analisi formale di questi edifici è l'ipotesi della loro ascendenza esterna, segnatamente minoica, micenea o post-micenea59, vale a dire quelle culture (della complessa koinè ellenica), che espressero forme analoghe con analoga semantica funzionale. Queste somiglianze, tuttavia, non sembrano di per sé sufficienti a chiarire la natura dei contatti e delle influenze eventualmente esercitate, dal mondo orientale ed egeo, nei confronti dei sardi nuragici. Sarà opportuno pertanto osservare non solo forme e somiglianze quanto, al contrario, le differenze e le assenze rispetto proprio a quel mondo lontano che potrebbe aver seminato in occidente alcuni semi precoci. Assenze relative a strutture urbane ed architettoniche che accompagnino i templi proprio nel loro significato formale.
L'edificio cultuale delle società elleniche ed egee, fin dal Neolitico, ebbe forma rettangolare, spesso inserita in complessi (Palazzi) nei quali erano presenti altre strutture della stessa forma, in relazione centripeta con un nucleo centrale, e con diverse dimensioni e funzioni. Queste testimoniano di una cultura costruttiva profondamente radicata, che sarebbe infine culminata coi maestosi templi eretti dall'età arcaica in poi60, sorti nell'ecumene ellenico del Mediterraneo, e con le pianificate strutture urbane coloniali in Occidente. Nulla di meno di una cultura architettonica così radicata (e complessa) avrebbe potuto influenzare altre compagini, lontane e profondamente diverse da quelle elleniche, come, ad esempio, quella sardo-nuragica. Una eco di questa cultura costruttiva poteva aver influenzato l'immaginario dei sardi dell'epoca, o di alcuni di loro, i quali provarono a dar forma a questa influenza erigendo degli edifici in luoghi e contesti che lasciano emergere alcune delle contraddizioni tipiche di questa sorta di imitazioni. Una contraddizione è relativa ed insita proprio nelle forme dei complessi insediativi; sia nei casi in cui l'insediamento comprenda uno o più templi61, sia che questi ne siano distanti o del tutto isolati, questi si presentano in discontinuità formale con le altre strutture tipiche della civiltà nuragica, ad eccezione parziale dei templi a pozzo, coi quali condividono il vestibolo frontale, i quali tuttavia non mancano di presentare la forma circolare nella loro parte più importante; quella del pozzo vero e proprio. Fra queste forme circolari (capanne, nuraghi, cinte murarie che in alcuni casi circondano i templi stessi), spicca il tempio, rettangolare, in tutta la sua estraneità formale: “La prima cosa che colpisce in queste costruzioni è la loro netta differenziazione dalle comuni case di abitazione, riscontrabile principalmente nella prevalenza della linea retta nel loro sviluppo di pianta. Questi caratteri distintivi appaiono tanto più evidenti quando, nel caso dei due tempietti del villaggio di Serra Òrrios, si ha l'immediato confronto con le vicine capanne circolari nuragiche.62

A meno di scoperte di inequivocabili influenze dirette, ovvero di assimilazione di un modello, provenienti dal mondo egeo, sulla Sardegna, o di prove indubbie sulle stesse, non resta che analizzare gli elementi noti e visibili, ed andare per esclusione; se si assume l'estraneità formale del tempio a megaron, in seno alla cultura architettonica del mondo nuragico, è giocoforza cercare un modello esterno che possa essere stato così importante da imporsi come struttura significante di un culto. Questo modello è il Megaron egeo, il quale, come risulta evidente anche solo osservando una pianta delle strutture palaziali63, da Troia II a Cnosso, è inserito in complessi che trovavano la loro identità nelle forme parallelepipede e rettangolari, così come la cultura nuragica la trovava in quelle coniche e circolari.
Sempre assumendo l'ipotesi di una influenza esterna, ed egea dunque, non è difficile constatare come questo prestito sia stato assimilato con diversi gradi di difficoltà – a volte maggiori a volte minori o quasi nulle – dalle diverse comunità che lo adottarono. Un caso esemplare in quest'ottica, che riassume in sé entrambi i limiti, è, a mio avviso, quello del tempio A di S'Arcu 'e Is Forros, nel cui complesso strutturale si assommano sia la perfetta assimilazione del modello megaron, sia la difficoltà del suo inserimento nelle dinamiche socio-insediative, e religioso-cultuali, della cultura architettonica nuragica. Il tempio ha forma rettangolare (non perfettamente regolare, ma è evidente la volontà di strutturare l'edificio in quella forma), con una corretta ricerca di armonia e simmetria delle sue parti. A fronte di questa ottima assimilazione del modello, il vestibolo esterno, contiguo alla struttura del megaron, è una ellisse irregolare, sovradimensionata rispetto al tempio, strutturata senza alcun senso della simmetria, incrociata con altri due ambienti circolari e relazionata, con ingresso, ad un terzo. Il tutto senza nessuna ricerca di armonia tra forme architettoniche. Questa singolare conformazione del complesso sacro, relativo all'edificio A, non dà adito ad essere giustificato, od interpretato, da particolari esigenze cultuali, dal momento che qualunque interpretazione relativa ai recinti ed agli elementi di disimpegno, subordinati ad un edificio primario, non esprime il bisogno né richiede una determinata e così precisa conformazione. Inoltre, e benché questa sia tutt'altro che una regola esatta della cultura nuragica, la tendenza nella concezione di una struttura complessa, adibita ad offici cultuali (si pensi ai templi a pozzo, o alle tombe dei giganti, od anche, a prescindere dalla cultualità, ai nuraghi complessi come Losa o Santu Antine), è quella della ricerca della simmetria e della specularità delle parti. Sembra evidente dunque, a S'Arcu 'e Is Forros ma non solo, come il modello megaron sia stato assimilato nella sua totalità, ma che non si sia risolto il problema del suo inserimento all'interno di una cultura architettonica ed urbanistica del tutto differente.
Giovanni Lillìu aveva notato una certa stonatura nell'armonia delle parti, nel complesso insediativo nel quale è presente il megaron, ma si tratta di ben più di “una sorta di accorata nostalgia della linea curva indigena”. Sembra piuttosto il contrario; la semantica formale del Megaron egeo è una “scomoda” – benché evidentemente desiderata per la suggestione che dovette aver esercitato – inclusione, in seno ad una possentemente radicata cultura architettonico-urbanistica del tutto diversa.



















Descrizione del territorio e dei monumenti

Domu de Orgìa

Esterzili, piccolo comune della Barbagia di Seùlo sui monti di una delle zone più incontaminate della Sardegna, vero e proprio nido d'aquila fra profonde vallate e altopiani di rocce sedimentarie dove si concentrano i resti degli insediamenti antichi... Le cronache archeologiche dell'Ottocento vi segnalavano già il tempio di Domu de Orgìa e il ritrovamento, in località Corte di Lucetta, di una tavola bronzea di epoca romana.64
Il territorio

Il megaron di Esterzili sorge sul Monte Cuccureddì, non esattamente sulla sua cima ma comunque in posizione elevata, in una sella pianeggiante fra due promontori scistosi a 978 m di quota65. Gli insediamenti, relativi al contesto in esame, sono tutti localizzati sugli altopiani, secondo una evidente scelta ubicativa che si può a buon diritto definire strategica. Un territorio “geologicamente tormentato”, secondo definizione di M. A. Fadda, ma ricco di risorse economiche come le miniere di piombo e zinco del Monte Nieddu, e il corso del Rio Flumendosa, controllate dall'altopiano di Taccu 'e Linu66.
L'intero territorio comunale di Esterzili, nella Barbagia di Seùlo, ha un'alta concentrazione di insediamenti, con otto nuraghi censiti, la cui ubicazione denuncia a sua volta delle precise scelte insediative; ad esempio i nuraghi Corti 'Eccia e Su Casteddu, costruiti nelle parti più alte dell'altopiano; i nuraghi Monti 'e Nuxi e Genna 'e Forru posti a mezza costa e Monti 'e Is Abis e Crasu Orgiu – del tipo a corridoio – impostati su spuntoni di roccia. A fronte di un numero così limitato di torri nuragiche (verosimilmente dovuto alla spoliazione di questi edifici, avvenuta in varie epoche, per il riutilizzo dei blocchi litici67), sono presenti nel territorio ben sedici tombe dei giganti, le quali indicano un'alta concentrazione demografica dell'epoca. Le tombe, inoltre, sono state impiantate a gruppi, formando diverse piccole necropoli, secondo un modo non comune in Ogliastra68; altra scelta precisa che denota, a mio avviso, una libertà d'interpretazione della cultura costruttiva nuragica, in seno a quella che potremmo definire cultura madre, ovvero quella nella quale si riconosce e si riconosceva l'intero territorio isolano.
A confermare l'isolamento sacro dei templi, è doveroso citare quello che si trova in cima al Monte Santa Vittoria, circondato da un recinto costruito a monte di un vasto insediamento, costituito da capanne disposte su piani terrazzati, ed una fonte. Il tempio, ridotto ai muri di fondazione, si trova a 1212 m di quota69.
Il dipresso triangolare nel quale sorge il tempio, secondo la precisa definizione di Ercole Contu, rileva: ”(...) una larga prevalenza di schisti con solo qualche piccolo altipiano calcareo, quale il Taccu di Esterzili e il Taccu Elìnu (…) una zona notevole per il terreno molto vario e accidentato, con forti rilievi che raggiungono il massimo col M. S. Vittoria (Q. m. 1212) e il minimo nel letto dei fiumi (400-300 m.), che scorrono in genere tortuosi, con ripe scoscese, pittorescamente incassati fra le montagne.”70

L'Autore si sofferma per poche righe, nella stessa pagina, a definire la situazione economico-insediativa a lui coeva, segnalando l'uso quasi esclusivamente pastorale del territorio, a causa delle sue caratteristiche geologiche e geografiche e “Scarse sono le risorse agricole71. Questa osservazione potrebbe fornirci un quadro di massima dell'economia insediativa dell'epoca nuragica, in questo territorio, mentre sembra da escludersi una situazione di conflitto endemico tra pastori ed agricoltori, come emerge, ad esempio, dalla tavola di Esterzili. La lettura dell'iscrizione della tavola bronzea rivela quello che, riducendo l'analisi ai minimi termini, altro non è che un conflitto territoriale: “L'atteggiamento dei pastori montanari dell'area povera di risorse contro le popolazioni delle fertili e ricche aree del sud-est dell'isola (…)72.” Questo conflitto, nel 69 d.C., riguardava però genti nuragiche, dedite alla pastorizia in quanto abitatrici di una regione montuosa e poco fertile, del sud-est dell'isola, segnatamente i Galillenses, e una compagine immigrata, i Patulcenses Campani, coloni portati dai romani ed agricoltori delle fertili piane campidane. Il ritrovamento della tavola bronzea in territorio di Esterzili è ritenuto casuale, nel senso che la contesa tra questi due popoli, rivelata dall'iscrizione, non riguarderebbe la sub-regione della Barbagia di Seùlo, ma grossomodo gli attuali Gerrei, montano ed a economia pastorale nomade, e Parteòlla, posto a SO, a ridosso del Golfo degli Angeli, a vocazione agricola e stanziale; tutte aree meridionali rispetto alla Barbagia di Seùlo. Nella zona di Esterzili, inoltre, è da ritenere che la romanizzazione non avvenne che al tramonto dell'Impero, verso la fine del VI secolo d.C.73 Tuttavia, anche considerando l'estraneità geografica nonché, soprattutto, quella cronologica, cioè relativamente ad epoche pre-romane anche remote, rispetto al 69 d.C. degli eventi eternati nella tavola bronzea di Esterzili, proprio grazie ad essa è però possibile abbozzare un quadro della vita di popoli che non hanno lasciato documenti scritti ad informarci sulle loro vicende. Il territorio di Esterzili, d'altronde, ovvero quello sul quale sorgono il tempio e gli insediamenti, è formato da un terreno duro, avaro di prodotti naturali e non naturalmente predisposto alla coltivazione su larga scala. La pastorizia era, verosimilmente, l'unico sostentamento possibile in queste terre alte ed aspre, per quanto riguarda le risorse alimentari e di prodotti legati all'allevamento. Possiamo legittimamente immaginare, per tanto, un'economia pastorale, di consumo e distribuzione, ma anche di scambio, sia interno, ovvero tra i varî villaggi dello stesso circondario, sia esterno, cioè proprio con genti di pianura, coltivatori stanziali. In quest'ultimo caso, eventuali situazioni di conflitto, sporadiche o croniche, del tipo di quelle emerse dalla tavola bronzea del 69 d.C.74, hanno poco interesse in questa sede, ed eventualmente dovessero emergere confermerebbero la vocazione pastorale e l'economia di scambio tra diversi territori. In questo scenario tuttavia, a mio avviso, conflitti come quello raccontato dalla tavola, non erano in atto all'epoca alla quale è riferito questo studio, non solo o non tanto perché quello del 69 AD era un conflitto che coinvolgeva una quaedam gens non sarda, ed inoltre migrata su supervisione altrui; non solo, poi, a causa di questa supervisione altrui, cioè per il dominio “straniero” dei romani sulle genti nuragiche, che toglieva sia spazio decisionale a queste ultime sia, principalmente, perché spezzava equilibri vecchi di secoli, ma perché si può ritenere che nell'arco dei secoli, i nuragici, avessero raggiunto, appunto, un equilibrio di convivenza che, pur non del tutto esente da conflitti, si manteneva comunque entro limiti precisi all'interno dei rapporti tra genti vicine.

Tornando a considerazioni prettamente territoriali, un confronto geologico e pedologico di questa sub-regione della Sardegna, eseguito su carte pedologiche, geologiche e metallogeniche dell'isola75, permette di tracciare un quadro schematico:
Unità di Paesaggio interessate: 1, 2, 3, 4, 6, 7, 11 (unità di paesaggio e substrati)76, che corrispondono alle seguenti classificazioni:

1 = unità di paesaggio “A1”
Aree con forme accidentate, da aspre a sub-pianeggianti (tacchi), prevalentemente prive di copertura arbustiva ed arborea.
2 = unità di paesaggio “A2”
Aree con forme accidentate, da aspre a sub-pianeggianti (tacchi), con prevalente copertura arbustiva ed arborea.
3 = unità di paesaggio “B1”
Aree con forme aspre e pendenze elevate, prevalentemente prive di copertura arbustiva ed arborea.
4 = unità di paesaggio “B2”
Aree con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sotto di 800-1000 m, con scarsa copertura arbustiva ed arborea.
6 = unità di paesaggio “B4”
Aree con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sopra di 800-1000 m, con scarsa copertura arbustiva ed arborea.
7 = unità di paesaggio “B5”
Aree con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sopra di 800-1000 m, con scarsa copertura arbustiva ed arborea.
11 = unità di paesaggio “C4”
Aree con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sopra di 800-1000 m, con scarsa copertura arbustiva ed arborea.

Le Classi di Capacità d'Uso per questi suoli sono: per l’Unità di Paesaggio 1: VIII–VII; rispettivamente, VIII; suoli che presentano limitazioni tali da precludere qualsiasi uso agro-silvo-pastorale e che, pertanto, possono venire adibiti a fini creativi, estetici, naturalistici, o come zona di raccolta delle acque. In questa classe rientrano anche zone calanchive e gli affioramenti di roccia, e VII; suoli che presentano limitazioni severissime, tali da mostrare difficoltà anche per l'uso silvo pastorale. Per l’Unità di Paesaggio 2: VII–IV; rispettivamente, VII; v. supra, e IV; suoli che presentano limitazioni molto severe, tali da ridurre drasticamente la scelta delle colture e da richiedere accurate pratiche di coltivazione. Per l’Unità di Paesaggio 3: VIII–VII; rispettivamente, VIII; v. supra, e VII; v. supra. Per l’Unità di Paesaggio 4: VII–VI; rispettivamente, VII; v. supra, e VI; suoli che presentano limitazioni severe, tali da renderli inadatti alla coltivazione e da restringere l'uso, seppur con qualche ostacolo, al pascolo, alla forestazione o come ambiente vivibile naturale. Per l’Unità di Paesaggio 7: VI–VII–IV; rispettivamente, VI; v. supra, e VII; v. supra, e IV; v. supra. Per l’Unità di Paesaggio 11: VII–VI; rispettivamente, v. supra, e VI; v. supra.
Le Limitazioni d'Uso sono così descritte per queste tipologie di suolo: 1; Rocciosità e pietrosità elevate, scarsa profondità, forte pericolo di erosione. 2; A tratti; rocciosità e pietrosità elevate, scarsa profondità, forte pericolo di erosione. 3; Rocciosità e pietrosità elevate, scarsa profondità, eccesso di scheletro, forte pericolo di erosione. 4; A tratti; rocciosità e pietrosità elevate, scarsa profondità, eccesso di scheletro, forte pericolo di erosione. 6; A tratti; rocciosità e pietrosità elevate, scarsa profondità, eccesso di scheletro, forte pericolo di erosione. 7; A tratti; pietrosità elevata, scarsa profondità, eccesso di scheletro, pericolo di erosione. 11; A tratti; rocciosità e pietrosità elevate, scarsa profondità, eccesso di scheletro, forte pericolo di erosione77.

La grossa fetta di territorio preso in esame per questo confronto comprende all'incirca l'intera sub-regione della Barbagia di Seùlo, nella quale prevale, con una percentuale approssimativa dell'80% il tipo pedologico 4, che si differenzia dagli altri principalmente per l'altimetria dei luoghi. Solo il tipo 2, tra l'altro, è caratterizzato da una prevalente copertura arbustiva ed arborea, ma si tratta di una minima parte di questo territorio. Il quadro che emerge è dunque quello di un territorio aspro, appunto, avaro di vegetazione, montano, e poco o nulla adatto alla coltivazione se non in piccole zone.
Grazia Ortu descrive la morfologia del solo territorio di Esterzili, di 100,78 kmq, come: “(…) assai aspro, caratterizzato da un paesaggio prevalentemente montuoso con ripidi versanti e profonde valli segnate da fiumi e ruscelli. Circa un terzo del territorio è costituito da altopiani di natura calcarea, le cui forme tabulari addolciscono il paesaggio.78
Le tipologie pedologiche, o dei suoli, suesposte corrispondono abbastanza bene a questa descrizione.
D'altro canto è Fernando Pilia, il quale descrive l'area attorno al tempio: “(…) una zona di alti pascoli apprezzati dai pastori e caratterizzati dall'intenso profumo di timo (…)”79. Laddove si vede come analisi troppo generalizzate non corrispondono che in modo approssimativo alle realtà particolari, ed ai particolari punti di vista.

A ca. 10 km a SSO del megaron si trova il nuraghe Arrubiu, sulla riva destra del Flumendosa, presso le cui mura esterne furono edificati due sili della capacità di 150 quintali ca., atti a contenere graminacee. Questi sili sono l'indizio di una delle trasformazioni avvenute al passaggio al BF, vale a dire un'importante opera di deforestazione volta allo scopo di destinare il terreno a coltivazioni di graminacee ed altre specie nitrofile80.
Le classificazioni di paesaggio del territorio attorno e relativo al nuraghe Arrubiu sono le unità 19 e 20 le quali, senza addentrarsi in definizioni tassonomiche, sono relative a terreni privi delle caratteristiche favorevoli all'attività agricola, ed assomigliano in toto a quelli appena descritti. Se questi territori sono stati dunque interessati da un'attività di coltivazione, è possibile per tanto ipotizzare, per gli insediamenti dell'intera zona fino all'altopiano nel quale sorge il tempio, un altro tipo di economia, che non è da pensarsi come semplice integrazione delle attività pastorali, ma in un ottica più ampia, che comprende una rete di rapporti sistematici (politici) tra comunità di villaggi vicini, ruotanti all'interno di vaste realtà territoriali.

Ancora Pilia descrive il territorio attorno al tempio in modo esemplare, partendo proprio dall'edificio, per chiudere con lo stesso: “Quasi al centro del territorio di Esterzili, sulla propaggine meridionale che dalla vetta del monte Santa Vittoria degrada verso Est, in località Cuccureddì, su un breve spiazzo pianeggiante che si stende a mo' di terrazzo irregolare tra i marcati scoscendimenti di un rilievo abbastanza tormentato, è presente un edificio megalitico rettangolare (…)”81.

Sotto l'aspetto prettamente geologico il territorio della Barbagia di Seùlo si caratterizza per alternanze di metarenarie, quarziti e filladi relative ad età geologica incerta. Queste formazioni corrispondono al n° 47b nella legenda della carta geologica. All'Ordoviciano superiore e al Carbonifero inferiore corrispondono formazioni di metapeliti scure carboniose (Scisti a Graptoliti Autoctoni), corrispondenti al n° 50 in legenda. Questa è, segnatamente, la natura geologica del territorio urbano di Esterzili, compreso in una fascia lunga e stretta che si dipana per diversi km da NO verso SE; questa fascia geologica prosegue, in questa direzione, con formazioni di metaconglomerati, metarcosi, metasiltiti, metagrovacche, con Briozoi, Brachiopodi, Trilobiti, Gasteropodi ecc, corrispondente al n° 51 in legenda; Ad un complesso magmatico e vulcano-sedimentario dell'Ordoviciano (successione vulcano-sedimentaria della Barbagia), corrisponde una formazione di metavulcaniti intermedie o raramente basiche, metagrovacche vulcaniche, metaepiclastiti, metaconglomerati e prevalenti elementi di vulcaniti acide, metarioliti, metaconglomerati poligenici grossolani con prevalenti elementi di vulcaniti (n° 52 in legenda). Queste sono le formazioni prevalenti nel territorio di Esterzili e della Barbagia di Seùlo, fra le quali un approssimativo 40% a testa è relativo alle formazioni 47b e 52, ovvero, in sintesi, Scisti e Conglomerati; si tratta di formazioni metamorfiche e sedimentarie (come anche i calcari, anch'essi presenti nella zona, segnatamente gli altipiani Taccu di Esterzili e Taccu Elìnu82).
Lo scisto è la pietra del Monte Cuccureddì, ed è con questa che è stato edificato il megaron.

La localizzazione degli insediamenti, vista nel suo insieme, li vede concentrati in un'area compresa tra l'abitato di Esterzili e il limite meridionale del suo territorio, dei quali un terzo dislocati sugli altipiani. Del tutto o quasi priva di vita, in epoca nuragica, sembra sia stata la parte opposta, a Settentrione di Esterzili. La morfologia irregolare, che può aver impedito l'insediarsi di centri stabili in quest'area, può essere una spiegazione accettabile ma non l'unica83. L'area meridionale dunque fu quella scelta per gli insediamenti. La conformazione del territorio può aver giocato un ruolo nell'evitare la zona settentrionale, segnatamente dalla valle dei Rio Sadali e fino all'attuale paese omonimo, ma questa scelta, a mio avviso, più che alla “tormentata morfologia”84 dell'area settentrionale, è dovuta invece a due ragioni concomitanti nella zona meridionale; la prima è quella della sua conformazione: “(…) una zona, ad un dipresso triangolare, racchiusa tra il Rio Flumineddu, il R. de Sàdali o Nuluttu e il Flumendosa (…)”85 Dove il Rio Sadali a N e il Flumendosa ad O chiudono il territorio in questione creando una sorta di vasto bastione facilmente controllabile (considerando una distribuzione diffusa degli insediamenti su tutto questo tavolato).
La seconda ragione, la più importante, è il controllo dei giacimenti minerari del Monte Nieddu. Lo sfruttamento delle risorse minerarie e metallifere costituisce, in definitiva, la ragione principale degli insediamenti in un terreno poco ospitale come questo. Il confronto, da farsi sotto molti aspetti, è col territorio ad occidente del Flumendosa, dirimpetto proprio al M. Nieddu (sito a SO di questo vasto tavolato, ovvero sull'altopiano basaltico di Pran'e Muru, sul quale sorge il Nuraghe Arrubiu di cui si dirà più avanti, in relazione proprio all'attività mineraria del M. Nieddu).
Altra cosa che deve essere segnalata, in questa disamina sul territorio di Esterzili, è che la maggior parte dei nuraghi furono edificati sui cigli degli altipiani lungo l'asse litoraneo del Flumendosa, dall'altro lato del quale si trovano molti dei nuraghi del territorio di Pran'e Muru86. Una situazione che sembrerebbe, di primo acchitto, aver a che fare con l'acqua come risorsa vitale.
I minerali essenziali che costituiscono il giacimento di Monte Nieddu sono, in ordine di abbondanza, solfuri di ferro (Pirrotina), solfuri di zinco (Blenda), solfuri di rame e ferro (Calcopirite) e solfuri di piombo (Galena). I primi (pirrotina, calcopirite, blenda) sono presenti nel livello inferiore in giacitura in ammasso o in grosse lenti.87
Questi i risultati di una ricerca effettuata negli anni '50, e riportata da Fulvia Lo Schiavo nell'articolo del volume sulla Tavola di Esterzili88, in merito ad un discorso sulle risorse economiche del territorio in esame.

Ogni considerazione relativa al “controllo” di questo territorio, ovvero delle sue vie di transumanza, da parte delle genti che vi risiedevano, acquista un senso, a mio avviso, solo se il suddetto concetto di controllo è attribuito a vie e territori che si trovano fuori dall'ambito geografico nel quale sono presenti gli stanziamenti; ovvero di zone nelle quali esisteva la possibilità, proprio perché estranee al controllo diretto degli insediamenti, di conflitti con altre genti, conflitti generati esattamente dalla possibilità di transitare in relativa sicurezza verso pascoli pedemontani e pianeggianti, molto lontani dall'area geografica di Esterzili presa in esame in questa sede. Infatti, se si considera soltanto l'aspetto economico legato alla pastorizia, all'allevamento e ai suoi prodotti, od anche alla coltivazione, è sensato pensare ad una comunanza, se non ad una autentica osmosi di forma esistenziale, fra le genti dei villaggi di tutto questo territorio, vario al suo interno ma fortemente accomunato da precisi limiti geografici, come i due fiumi che chiudono il bastione a Settentrione ed a Occidente, dal clima, dalle possibilità di sfruttamento, e non ultimo da una convivenza col più alto grado possibile di produttività. Personalmente ritengo molto improbabili conflitti, all'interno di quest'ambito, che superassero il limite dell'eccezione e dell'episodicità.
Diverso si fa il discorso quando si esce da quest'ambito geografico, ristretto e vasto ad un tempo, e si considerano aree ad economia diversa, segnatamente prevalentemente agricola, pianeggiante, abitata e “controllata” da genti stanziali, con le quali la dialettica poteva incontrare facilmente ragioni di conflitto, anche (ed in qualche caso a causa), nell'ambito di rapporti di scambio di beni e merci. Naturalmente, la ragione maggiore di conflitto, doveva essere rappresentata dall'occupazione di terreni ricchi di pascolo da parte dei “montanari”, ma di proprietà (effettiva o rivendicata, e le cui forme sarebbero comunque tutte da studiare in merito all'epoca di cui si parla), dei contadini stanziali; va da sé che la stanzialità considerata nella sua essenza, implica un immediato concetto di proprietà del territorio (a prescindere dai centri abitati e considerando solo la stanzialità contadina di aree coltivate e non abitate). Un'altra occasione di conflitto poteva, forse, verificarsi con altre genti montane e dedite ad allevamento e pastorizia, ma abitanti aree geografiche estranee, il cui tragitto verso le zone di pascolo pianeggiante coincideva con quelle delle genti del territorio di Esterzili. In questi (eventuali) casi, a meno che non intervenissero lungimiranti ragioni di convivenza e sopportazione reciproca (se non, addirittura, di qualche forma di sudditanza dell'una o altra parte a causa di diverse possibilità economiche), i conflitti potevano essere occasionali e pressoché innocui, oppure abituali e ridotti a scambi ed accordi estemporanei ed episodici, o perfino feroci ed endemici; in questo caso per tanto, parlare di controllo del territorio, assume un senso diverso e pregnante, che può coincidere con fondamentali ragioni e possibilità esistenziali di una popolazione, o di più popolazioni stanziate nello stesso territorio, ed accomunate dalla stessa economia e speranza di vita.
Una suggestione non priva di un certo fascino bucolico, come quella di Maria Ausilia Fadda, che considerando la localizzazione del megaron “(…) in una posizione che permette il controllo del Gennargentu a nord e del Sarrabus Gerrei a sud, alla confluenza di vie di transumanza che favorivano i rapporti sociali, gli scambi e, quindi, la frequentazione del luogo sacro da parte di numerosi pellegrini.89, andrebbe fatta con maggiore prudenza. Un controllo così vasto è tutt'altro che da darsi per scontato, anche considerando una forza d'attrazione di un centro di raduni religiosi, di portata così vasta, come poteva essere il megaron, nella sua posizione isolata e solitaria.
In quest'ottica è utile prendere in considerazione le analisi territoriali fatte dagli autori del citato volume sulla Tavola di Esterzili90, dove, benché il conflitto preso in esame rimandi a temperie storiche ormai riguardanti rapporti politici, economici e sociali, molto diversi da quelli protostorici, le direzioni dei movimenti delle genti delle montagne a Meridione del Gennargentu potrebbero rispecchiare quelle antecedenti la trasformazione sociale della Sardegna operata dai romani, e rappresentare una realtà ancestrale dovuta alla conformazione geografica di questa parte sud-orientale dell'isola.

Questa disamina sul territorio di Esterzili fa emergere una serie di considerazioni assai complesse sulle scelte insediative, che coinvolgono anche le presenze, ben più notevoli per quantità paleodemografica e monumentale, del versante occidentale del Flumendosa nell'attuale territorio di Orròli. Considerazioni che saranno svolte più avanti.


Il tempio

Il megaron di Esterzili è il più grande megaron del Mediterraneo91. Il ché è un elemento a sua volta foriero di riflessioni. Anche se, a mio avviso, sarebbe opportuno classificare correttamente, con parametri culturali dettagliati ma ad ampio spettro, i criteri di definizione relativi al concetto di megaron. La domanda pertanto sarebbe: cosa intendiamo quando definiamo un edificio tempio a megaron? Il termine è in sé chiaro e piano: sala, grande stanza, ed è riferito all'ambiente centrale (o all'unico), di dimensioni doverosamente più grandi di quelle di altri ambienti sia dello stesso edificio templare, eventualmente li avesse, sia di altri edifici contigui o vicini, del tempio ellenico; da Troia alla Grecia coloniale, cioè alla Magna Grecia, e fino alla Grecia periclea.
La sala era il luogo esclusivo di un rituale, o di più rituali, o anche di momenti di altra natura ma sempre caratterizzati dall'elemento della solennità. I rituali che vi si svolgevano rappresentavano l'atto finale di una serie di operazioni preparatorie che potevano anche svolgersi altrove, oltre che nel tempio stesso, e che avevano carattere non pubblico92. L'atto cerimoniale, al contrario, aveva sempre e per definizione un carattere pubblico e ripetitivo (periodico).
Se assumiamo, dunque, che i megara sardi fossero loci sacri, avendo la stessa forma del Megaron ellenico, a prescindere dal tipo e dalla forma di culto ivi esercitato, e che si trattava di luoghi di interesse e partecipazione collettiva, potremmo probabilmente considerarli dei megara alla stregua di quelli ellenici originarî. Questo, tuttavia, non è che un punto di vista; un altro potrebbe considerare in modo esclusivo la cultura d'origine dell'edificio e dei culti, o meglio, della cultualità ad esso associata ed in esso esercitata, ed escludere, da questo insieme “ristretto”, altri edifici, per somiglianti od architettonicamente coincidenti che siano, dal novero del modello. Secondo questa visione dunque, i templi sardi, pur considerando la loro ascendenza da quelli ellenici (ascendenza comunque ancora da dimostrare in modo definitivo, anche se gli indizî sono tali da lasciare poco spazio a dubbi), sono edifici che si trovano in seno ad una cultura del tutto diversa ed estranea a quella ellenica. I megara sardi sembrano essere un elemento acquisito, per ragioni che cercheremo di evincere in questa sede, ed inglobato tuttavia nel ventre di una temperie culturale che ha cercato di assimilarli a sé, estraniandoli a sua volta dalla loro cultura di provenienza. Possiamo qui limitarci a considerare pertanto il megaron di Esterzili come il più grande della Sardegna; quello con le maggiori dimensioni fra i templi consimili dell'isola.

Il rettangolo del tempio è molto regolare e misura nella sua interezza 22,50 m ca di lunghezza, in entrambi i lati lunghi, per 8 di larghezza, alla base, e 7,80 in sommità residua la quale supera i 3 nel punto più alto. Fino a quell'altezza si contano nove filari di massi parallelepìpedi molto regolari (lo scisto per la sua conformazione lamellare permette di essere tagliato con molta regolarità, nel senso della lunghezza delle “lamelle”). La tessitura murale ne risulta per tanto molto ordinata, ed alterna filari composti da lunghi blocchi (due dei quali, posti a SE, misurano 1,50 m di lunghezza per 0,56 di larghezza e 0,40 di spessore, e 1,33 per 0,62 per 0,26) a filari composti da blocchi di minori dimensioni. L'edificio presenta un profondo pronao di 5,15 m di lunghezza per 5 m di larghezza interna; attraversato l'ingresso centrale si accede alla cella, o ambiente maggiore, di 8 m di lunghezza per 4,50 di larghezza massima, mentre l'ambiente finale era di dimensioni ridotte, in lunghezza: 3,50 m per 4,50 di larghezza. L'ingresso che dal pronao porta alla cella centrale (che sarebbe il megaron propriamente detto), ha un'altezza di 3 m ca, una larghezza alla sommità di 1,48 m e alla base di 1,70 ca., con pareti leggermente arcuate. Chiuso in alto da un possente architrave di 1,92 m di lunghezza per uno spessore di 0,37 m e una larghezza di 0,46 m in asse si trova l'altro ingresso, di dimensioni uguali, che apre all'ambiente chiuso in fondo. Un opistodomo con ante che superano di poco il metro di lunghezza chiude la struttura a N-NE. L'edificio è orientato dunque lungo l'asse SSO–NNE, con pronao ed ingresso principale nel primo dei due cardinali.
Sul perimetro dell'ampio pronao si trova una larga panchina sulla quale, durante gli scavi del 2001, furono rinvenute delle statuine in bronzo interpretate come ex voto. Una larga panchina cinge anche il perimetro intero della grande sala interna, interrotto sul lato sinistro – Ovest – da una lastra ortostatica che delimita un piccolo pseudo-ambiente interpretato come ripostiglio e nel quale si è rinvenuta una statuina bronzea di cacciatore che trasporta un muflone a spalla. In questo vano, inoltre si rinvennero forme ceramiche come olle, ciotole, vasi e altri recipienti in miniatura93. Il vano finale, che chiude l'interno del monumento, è anch'esso provvisto di panchina perimetrale.

Al di là delle dimensioni, l'aspetto notevole ed interessante di questo monumento è la conformazione dell'alzato: aggettante, come le strutture murarie dei nuraghi. Osservando la struttura da S, ovvero dal suo ingresso al pronao, si può notare come l'aggetto murario inizî già dalla seconda fila di lastre; se si osserva inoltre la rastremazione verso l'alto delle mura, come da tecnica consueta dei costruttori nuragici, con lo spessore che aumenta mentre si sale, è dunque lecito pensare, quanto meno, ad una volontà iniziale di chiudere l'edificio con una falsa volta esattamente come i nuraghi. Questo aspetto fu ben notato da Ercole Contu94, il quale fu l'unico a trarne le debite conseguenze: quelle di un aggetto che chiudeva l'edificio con la falsa volta del nuraghe. A favore di questa ipotesi, lo stesso Contu, segnala un dato di fondamentale importanza, soprattutto se considerato nel vuoto dovuto all'assenza di dati di scavo; il cumulo di pietre che riempiva gli spazi interni dell'edificio, vera e propria vasca di raccolta, si mostrava di quantità troppo elevata perché quelle pietre potessero far parte nient'altro che del tetto spiovente, retto da travi lignee. Anche Fernando Pilia osservò l'aggetto delle mura e il cumulo di materiale litico: “Il monumento è attualmente ricoperto da macerie e da detriti per un'altezza dal piano di campagna di circa tre metri (…)”95, ma senza trarne alcuna conclusione. L'osservazione di Pilia, tuttavia, è interessante perché descrive come “detriti” e “macerie”, riferendosi, ovviamente, alla parte sommitale visibile, alla sua epoca, del crollo della struttura, senza rilevare nessun ordine nella disposizione dello stesso. Lillìu96 e Fadda97, ipotizzano una travatura centrale alla sommità interna della copertura, con filari di altre travi98 collocate a distanze regolari e a doppio spiovente, sormontate da lastre sulla sommità esterna a completare il tetto. Una soluzione poco probabile in quanto una struttura così conformata non avrebbe retto a lungo il peso, non controbilanciato, della parte terminale dell'aggetto e della copertura. Infatti, o si ipotizza una falsa volta nuragica tipica, senza (inutili in questo caso) strutture lignee coadiuvanti, oppure si teorizza una serie di travature che, al massimo, avrebbero retto un tetto di leggere lastre scistose poste in uno spiovente particolarmente pronunciato (come infatti, e non a caso, viene ipotizzato per i templi di Serra Òrrios, e utile a scaricare sui muri verticali le forze della copertura); soluzione, quest'ultima, smentita dalla citata elevata quantità di lastre formanti l'enorme crollo dei vani, nonché dalla presenza dell'aggetto stesso, a sua volta troppo pronunciato per giustificare una sua interruzione, ad una certa altezza, sì da permettere l'impianto dello spiovente, ligneo o lapideo che fosse. Mentre, infine, entrambe le soluzioni insieme, come sembrano confusamente ipotizzare sia Fadda che, in coda, Lillìu, rappresentano un non senso.
Strutturare un aggetto, per altro molto pronunciato, come è quello del tempio di cui si parla, per poi non concluderlo secondo la sapiente e sperimentatissima tecnica nuragica, ed impiantarvi addosso una struttura lignea (fatta come? tripartita del tipo a capriata?), che avrebbe dovuto reggere una copertura a lastre più sottili di quelle che compongono la parte muraria del tempio, e/o integrarsi con una copertura lapidea semplicemente addossata alla parte lignea, presuppone una incapacità e confusione artigianale della quale, fortunatamente, i costruttori nuragici erano del tutto esenti.
La pur inusitata struttura rettangolare dei megara, una volta assunta, non deve aver rappresentato motivo di confusione costruttiva. I nuragici avevano almeno tre esempi sicuri dai quali trarre un modello strutturale; uno era quello della capanna; ovvero mura dritte (non in aggetto), interrotte ad una certa altezza, e da quella l'impianto ligneo e stramineo a spiovere che formava la copertura. La forma circolare delle capanne, e il cono della copertura, conferiva certamente maggiore stabilità all'intera struttura, anche grazie alle sue ridotte dimensioni rispetto a edifici di grande mole, questa stabilità però era solo leggermente ridotta in un impianto rettangolare come li tempio; per tanto, si sarebbe trattato di un adattamento di scarse o nulle difficoltà costruttive, e di un risultato statico se non eccellente quanto meno soddisfacente. L'altro modello è quello dell'aggetto delle mura, dunque quello della struttura nuragica, dei corridoi e degli ambienti interni, in relazione all'andamento dello spessore murario. Anche in questo caso, la forma circolare della struttura del nuraghe (semplice, monotorre), conferiva un livello altissimo di stabilità alla struttura, mentre la forma rettangolare aveva un grado maggiore di fragilità. Tuttavia, e pur ammettendo un qualche ostacolo concettuale (non manifatturiero), nel concepire e costruire la falsa volta nuragica in linea retta anziché circolare, la desueta conoscenza della tecnica, la sicurezza con la quale veniva messa in opera, e infine l'esperienza della strutturazione dei corridoi a volta in aggetto dei nuraghi complessi, portava senza dubbio a risultati ottimi sul piano della stabilità generale della struttura. Ma un modello ancora più carico di significato è quello rappresentato dalle tombe di giganti del tipo più tardo, a struttura isodoma, nelle quali l'aggetto, perfettamente eseguito, spesso con conci perfettamente squadrati, era elegantemente disteso lungo il corridoio rettangolare interno della tomba.
Con questo non si intende affermare che mancasse un qualche spazio per esperimenti costruttivi, eventualmente suggeriti ed ispirati da una forma nuova ed esotica, com'era certamente il rettangolo del megaron, ma che, al momento di decidere la struttura più efficace e robusta, e dunque più stabile e resistente al tempo e ad altre forze destrutturanti (naturali o meno), l'economia mentale e costruttiva, concetti che possono ben tradursi con quello di esperienza, portava verso scelte più sicure e conosciute, e ben sperimentate.

Ercole Contu, nel chiudere la sua breve disamina, conclude coerentemente le sue formulazioni, benché appena indiziarie, in merito alla struttura templare di Esterzili, proponendo infine tre modelli per la forma di chiusura alla sommità: “(…) Nel nostro edificio l'aggetto notevole dei muri e il quasi completo riempimento dei vani a causa del crollo mi fanno supporre che l'aggetto stesso fosse completo, così che l'edificio stesso venisse a presentare all'interno la falsa cupola propria dei corridoi nuragici, e all'esterno una copertura lapidea semicircolare, come in certe tombe dei giganti, oppure angolare a doppio spiovente o anche a terrazza”.99
Forse, un'attenzione maggiore alla quantità e qualità (in questo caso dimensione e forma dei conci), del riempimento litico dei vani del tempio, avrebbe aiutato anche a formulare un'idea plausibile sulla forma di chiusura della copertura in sommità esterna.

Ancora Contu, infine, fornisce anche un altro dato interessante, benché facilmente reperibile semplicemente prendendo delle misure; quelle, appunto, dello spessore murario alla base (sempre considerando i muri delle ante meridionali, gli unici osservabili dallo studioso, liberi da ostacoli), ovvero 1,32 m in rapporto con quelle in altezza massima residua: 1,60100. Se si considera l'altezza residua dei muri, che superano abbondantemente i 3 m (l'altezza massima di oltre 3,5 m è da considerarsi quella relativa alle due lastre che sormontano l'architrave del primo ingresso da S), misurando l'inclinazione interna dell'aggetto, si può tentare, con un accettabile margine di errore, di ricostruire la curvatura dell'aggetto stesso, e dunque l'altezza della falsa volta interna. Misurando, invece, la curva dell'aggetto esterno, evidentemente meno accentuata di quella interna (con uno scarto di 10/15 cm tra la base e l'altezza residua), è possibile inoltre ridisegnare la forma complessiva del prospetto del tempio, che doveva essere davver singolare nel panorama dell'architettura mediterranea antica.

La quantità di elementi lapidei che riempivano completamente i vani dell'edificio, unita al forte aggetto delle mura, elementi osservati per primo da Ercole Contu quando visitò e visionò il monumento nel 1948, rappresentano l'indizio fondamentale della composizione e della forma della struttura originaria dell'edificio che, ricostruita graficamente nel modo più corretto possibile, può svelare una forma architettonica complessiva, non solo davvero inusitata, ma anche rivelante un incredibile esempio di sintesi e sincretismo culturale, tra forme rette e forme curve, poste in essere attraverso la tecnica dell'aggetto, tra due concezioni costruttive praticamente opposte.

Il megaron era circondato da un recinto sacro, chiamato tèmenos, in concordanza semantico-linguistica col termine megaron col quale è definito il tempio, di forma ellittica, e del quale non sono rimasti che i muri a raso; ha 48,50 m di diametro massimo e 28 quello minimo; si contano 7 m di distanza tra la curva meridionale e il megaron (in corrispondenza del suo profondo ingresso in antis dunque), e 19 dall’opistodomo a N. 14 m dal lato orientale e 12,50 da quello occidentale. Lo spessore murario del recinto non si scosta da 1,50 m ca101.
L'ingresso del recinto è formato dalle mura curve di una capanna pertinente ad un insediamento precedente, abbandonato verosimilmente già molto tempo prima che sorgessero l'area sacra e il tempio al suo interno. Dai resti di questo antico insediamento abbandonato provengono i materiali più antichi presenti nel sito102.





Gremanu

Il territorio

Sulle pendici settentrionali del Gennargentu, in un sistema di colli e valli fluviali ad Oriente di Fonni, il territorio nel quale sorge il complesso di Gremanu non presenta particolari problemi interpretativi, per lo meno non sotto l’aspetto insediativo. L’intero complesso è sito sulla riva sinistra del Rio Gremanu, alla base del colle Caravai, il quale discende dalla montagna poco a Meridione, in un’ampia vallata a quasi sette km e mezzo a ESE di Fonni. La vitale vicinanza e, dunque, il controllo dell’acqua, il suo sfruttamento per tutti gli utilizzi possibili, da quello più quotidiano ed elementare a quello cultuale, rappresentano, con ogni evidenza, il punto centrale di ogni quesito sulle ragioni della scelta insediativa in quest’angolo montano. L’elevata altitudine dell’area insediata può, a sua volta, concernere l’elemento idrico; evitare lunghi periodi di secca era a sua volta un modo radicale per evitare le difficoltà associate ad essa. L’acqua, come vedremo, è l’elemento principe dell’insediamento di Gremanu, e qui ci sarebbe da chiedersi se l’insediamento fosse nato in questa zona, scelta dunque con grande criterio, esattamente per le sue caratteristiche e per la sua quantità d’acqua, tali da soddisfare esigenze cultuali già in atto, o se queste non nacquero proprio a causa di tanta abbondante disponibilità. Il culto delle acque era una delle caratteristiche religiose della civiltà nuragica, ma una simile strutturazione degli edifici e delle infrastrutture del culto deve essere stata concepita qui, sulle rive del Gremanu.
Se consideriamo un triangolo di territorio che parte da Fonni ad Oriente, per chiudere a Meridione col Monte Spada e SE con l’area sacra e il villaggio (risalendo poi a Settentrione lungo il rio), tracciamo un’area paesaggisticamente varia ed omogenea ad un tempo, con colli alternati a brevi vallate, e chiuse ad Oriente dalla linea del rio, che è quella con le minori altitudini, e che in ogni caso non scendono sotto i 900 m di quota. Fonni e tutta l’area a ridosso del Gennargentu a SSE, raggiungono e superano i 1000 m, mentre da questa fascia pedemontana ad Oriente, verso il rio, le quote si situano tra i 1000 e, appunto, i 900 m. Il complesso sacro, dove si trova il megaron, è a 954 m di quota, mentre le fonti, a 264 m di distanza dall’area sacra, leggermente più a monte, ovvero a SSO della stessa, sono a 998/5 m s.l.m., con una quarantina di metri di dislivello dunque, rispetto all’area sacra. Dislivello ben sfruttato per il convoglio delle acque verso l’area sacra stessa ed il villaggio103.

Gettando uno sguardo sulle carte pedo-geologiche, si segnalano per questo territorio le Unità di Paesaggio 3, 6, 7, 11, 12 (unità di paesaggio e substrati), corrispondenti alle seguenti classificazioni:

3 = unità di paesaggio “B1”
Aree con forme aspre e pendenze elevate, prevalentemente prive di copertura arbustiva ed arborea.
6 = unità di paesaggio “B4”
Aree con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sopra di 800-1000 m, con scarsa copertura arbustiva ed arborea.
7 = unità di paesaggio “B5”
Aree con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sopra di 800-1000 m, con scarsa copertura arbustiva ed arborea.
11 = unità di paesaggio “C4”
Aree con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sopra di 800-1000 m, con scarsa copertura arbustiva ed arborea.
12 = unità di paesaggio “C5”
Aree con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sopra di 800-1000 m, con prevalente copertura arbustiva ed arborea.

Le Classi di Capacità d'Uso per questi suoli sono: per l’Unità di Paesaggio 3: VIII–VII; rispettivamente, VIII; suoli che presentano limitazioni tali da precludere qualsiasi uso agro-silvo-pastorale (...) o [da utilizzarsi] come zona di raccolta delle acque. In questa classe rientrano anche zone calanchive e gli affioramenti di roccia, e VII; suoli che presentano limitazioni severissime, tali da mostrare difficoltà anche per l'uso silvo pastorale. Per l’Unità di Paesaggio 6: VII; v. supra. Per l’Unità di Paesaggio 7: VI–VII–IV; rispettivamente, VI; Suoli che presentano limitazioni severe, tali da renderli inadatti alla coltivazione e da restringere l'uso, seppur con qualche ostacolo, al pascolo, alla forestazione o come habitat naturale, e VII; v. supra, e IV; suoli che presentano limitazioni molto severe, tali da ridurre drasticamente la scelta delle colture e da richiedere accurate pratiche di coltivazione. Per l’Unità di Paesaggio 11: VII–VI; rispettivamente, v. supra, e idem. Per l’Unità di Paesaggio 12: VI–VII; rispettivamente, v. supra, e idem.
Le Limitazioni d'Uso sono così descritte per queste tipologie di suolo: 3; Rocciosità e pietrosità elevate, scarsa profondità, eccesso di scheletro, forte pericolo di erosione. 6; A tratti; idem. 7; idem. 11; idem. E 12; idem.
Sintetizzando questi parametri pedologici, emergono suoli poco e nulla adatti all’agricoltura, se non per qualche coltivazione sporadica e non intensiva, e maggiormente adatti al pascolo. Solo alcuni dei suoli qui classificati (segnatamente una parte dell’Unità di Paesaggio nº 3), e che corrisponde ad una piccola fetta del territorio preso in esame (a S dell’insediamento), sembra inadatto, secondo queste classi di suoli, anche al pascolo.

Sotto l'aspetto prettamente geologico il territorio preso in esame si caratterizza per Alternanze di metarenarie, quarziti e filladi relative ad età geologica incerta. Queste formazioni corrispondono al n° 47b nella legenda della carta geologica, ed alla parte meridionale dell’area indagata, segnatamente il Monte Spada. La parte maggiore è occupata da un basamento ercinico, che si estende per un vasto territorio montano interno, occupando tutta la Barbagia di Ollolài e a Settentrione la zona di Nuoro fino a lambire i territori di Benetutti e Nule. Si tratta di un complesso intrusivo, filoniano del Carbonifero Superiore-Permiano; segnatamente Granodioriti monzogranitiche inequigranulari; il granito della Barbagia. Pietra usata, benché non l’unica, per le strutture dell’insediamento di Gremanu. L’esatta porzione geologica, sul cui suolo sorge l’insediamento, che corrisponde al nº 31 nella mappa, è un complesso metamorfico ercinico in facies scisti verdi e anchimetamorfico. Una successione dell’Ordoviciano superiore-Carbonifero inferiore. Le cui rocce sono Metagabbri alcalini, Filladi scure carboniose, metasiltiti, quarziti nere con rare e sottili intercalazioni di marmi. Una sottile fascia a ridosso del rio, esattamente poco più in basso dell’area sacra, nº 1 della mappa, è un deposito quaternario, formato di ghiaie, sabbie, limi e argille sabbiose di depositi alluvionali, colluviali, eolici e litorali, travertini104.

Sul Monte Corr’e Boi sono presenti miniere di piombo, e il piombo è stato largamente usato dagli architetti nuragici di Gremanu; tuttavia, indagini chimiche sui reperti plumbei rinvenuti nelle aree dell’insediamento hanno dimostrato trattarsi di metallo proveniente dall’Iglesiente105. Questa scoperta apre scenarî interessanti e pone alcune problematiche di difficile soluzione; i nuragici non erano carenti di tecnologia e capacità estrattive, nonché di conoscenza degli indizî necessari a riconoscere una presenza di filoni metalliferi; verosimilmente non potevano valutarne la portata se non dopo aver iniziato lo sfruttamento, ma è lecito pensare che gli abitanti di Gremanu avessero individuato le risorse del Corr’e Boi, a poco più di 4 km e 600 m dal loro insediamento (in direzione SSE), alle pendici orientali del Gennargentu e a poco più di 1000 m di quota, ed avessero iniziato a sfruttarle sistematicamente. Allora perché importare piombo dall’Iglesiente? Le miniere del Corr’e Boi furono sfruttate fino agli anni ’50 del secolo scorso106, per tanto non si trattava di giacimenti di scarso valore quantitativo né, evidentemente, qualitativo. “(...) molti filoni sono ancora visibili in superficie.107; questo farebbe scartare anche ipotesi relative a difficoltà estrattive di un’epoca con tecnologia primitiva (a meno che i filoni tutt’ora visibili non siano tali a seguito delle moderne attività di estrazione, e si trovassero, invece, a profondità troppo elevate all’epoca della vita dell’insediamento di Gremanu). Dal momento che, nelle attuali condizioni relative alla conoscenza di questa situazione, cioè sull’antichità delle miniere del Corr’e Boi, sono possibili nient’altro che congetture, è preferibile attendere dati più cospicui, e considerare, d’altra parte, gli scenarî che si aprono di fronte al piombo iglesiente rinvenuto a Gremanu. Una prima riflessione è relativa alle capacità di spesa dei Gremanesi; è chiaro che avessero merci da scambiare con gli Iglesienti (o con loro intermediarî, probabilmente mercanti a loro volta), è meno chiaro quali merci scambiassero, o con quale “moneta” pagassero il piombo proveniente da una zona tanto lontana. Il piombo era certamente un metallo ricercato, duttile, utile a molteplici utilizzi, ma meno prezioso del rame, ad esempio, o del ferro. Esistevano giacimenti sfruttabili, all’epoca, ed in questi paraggi, di questi ben più ricercati metalli? E che potessero costituire, ad esempio, un’adeguata contropartita per il piombo (considerando tuttavia le debite proporzioni quantitative, relative alla differente qualità fra questi metalli)? All’incirca nella stessa area delle risorse minerarie di piombo, la carta metallogenica della Sardegna segnala giacimenti di zinco e rame, tuttavia ben poco in confronto alle risorse minerarie e metallurgiche dell’Iglesiente, per tanto, anche supporre uno scambio in metallo sonante, potrebbe risultare una supposizione di ben poco costrutto. Probabilmente, e considerata una capacità di esportazione di metalli, per l’Iglesiente, molto maggiore che per quasi tutto il restante territorio isolano (e principalmente tutta la metà settentrionale dell’isola; dall’altezza del Golfo di Orosèi a N, e compreso tutto il Campidano), una capacità che doveva essere accompagnata anche da una certa esperienza estrattiva; per gli abitanti di Gremanu doveva risultare più economico, per un qualche intrico di ragioni, comprare il piombo iglesiente, piuttosto che estrarlo con le loro mani a due passi dalle loro case. Assumendo questa ipotesi, emergono altri quesiti. Il primo è relativo al “costo” del piombo. Ovvero al suo valore relativo. L’utilizzo che se ne fa a Gremanu, segnatamente come fissante all’interno di basi litiche per offerte, nei cui fori il piombo è stato ritrovato (all’interno del megaron e dell’edificio circolare dell’area sacra), ed in verghe usate per unire blocchi di basalto e trachite della vasca rettangolare, nel settore a monte (dei pozzi e delle fonti)108, non è particolarmente indicativo nella ricerca del suddetto valore (benché nel secondo caso, l’uso come legante, in una struttura architettonica, potrebbe avere un carattere di urgenza maggiore che quello relativo all'utilizzo come base per stabilizzare spade votive all’interno di blocchi scolpiti per questo scopo). Potremmo parlare, per tanto, di un utilizzo secondario, ovvero di non primaria necessità. Un elemento che non era indispensabile procurarsi, e per il quale non era affatto necessario uno sforzo eccessivo delle capacità di spesa di cui, evidentemente, i Gremanesi, erano in possesso. E tuttavia, risorse di un certo grado, benché difficilmente qualificabile e quantificabile, se ne andavano per questo scopo così sofisticato, senza dimenticare di mettere nel conto anche i costi del trasporto.
Questo particolare utilizzo del piombo, d’altra parte, unitamente alle altrettanto sofisticate e raffinate strutture architettoniche costruite dai Gremanesi, dipingono un quadro di buone, se non ottime, capacità e possibilità economiche. Mentre, il notevole livello di evoluzione tecnologica, rivelato dagli impianti di Gremanu, a sua volta denuncia uno stato di cognizioni e conoscenze che, se devono necessariamente avere, come base, un notevole, se non alto, livello di vita, segnano anche la cifra di cognizioni che, pur tutt’altro che estranee alla cultura nuragica (a prescindere dall’unicità degli impianti idraulici di Gremanu), per essere mantenute e per giungere a determinati livelli evolutivi necessitano di tempi sufficientemente lunghi di benessere e di pace sociale.

Il piombo poteva avere, dunque, un valore economico medio (quando non basso), per lo meno rispetto a metalli più nobili (rame e ferro), date anche le sue limitate possibilità d’uso, ed era anche tutt’altro che indispensabile, a differenza di questi. Se immaginiamo una comunità nuragica che per qualche ragione avesse avuto ridotte capacità di spesa, è facile immaginare che facesse comunque uno sforzo di qualche tipo per acquistare il metallo, segnatamente il rame o il bronzo in panelle o pelli di bue, o il ferro, non lavorato, utile a fabbricarsi i propri utensili, o addirittura (forse meno probabilmente), il prodotto finito (armi, oggetti di culto). E questo sforzo supponeva, d’altra parte, la rinuncia ad elementi non strettamente indispensabili, come ad esempio il piombo per scopi simili a quelli segnalati a Gremanu.
In quest’ottica, il valore medio del piombo, è relativo ad un elemento utile ma non indispensabile, la cui presenza, per scopi secondari come quello di Gremanu (ma non solo di Gremanu), denuncia un surplus di capacità di spesa, ovvero uno status, un tenore economico elevato, o comunque ben al di sopra del livello di sopravvivenza.

Un altro utilizzo di questo metallo grigio ed opaco, era quello di coadiuvo nella lega di rame e stagno per la fabbricazione del bronzo. E questa considerazione riporta il problema al punto di partenza; di quali risorse erano in possesso gli abitanti di Gremanu per sostenere il loro tenore di vita? In assenza del piombo iglesiente la risposta sarebbe facile (benché tutta da dimostrare in ogni caso): il piombo del Corr’e Boi. Magari venduto a genti esterne, non sarde. Ma i Gremanesi erano importatori, a quanto pare (o lo divennero ad un certo momento), e non esportatori di piombo. È probabilmente da escludersi, ad esempio, che la merce di scambio avesse a che fare con prodotti dell’allevamento (benché si possano considerare, magari come prodotti d’accompagno, legati alla pratica dello scambio-dono). Anche considerando che alcuni di questi (ad esempio le pelli conciate), fossero dotati di una lunga resistenza al tempo e capacità di conservazione, è difficile credere che gli abitanti dell’Iglesiente esportatori di metallo non avessero possibilità di approvvigionamento da aree a loro contigue, o non soddisfacessero essi stessi questo fabbisogno.

Capovolgendo il punto di vista, in merito alle capacità economiche dei Gremanesi, si può anche a buon diritto pensare ad una sorta di autosufficienza, relativa alle risorse alimentari ed ai prodotti dell’allevamento e della pastorizia. Il territorio montano, ricco di sorgenti idriche e di pascoli, forniva l’ambiente ideale per una sorta di felice isolamento. I contatti con l’esterno, come ad esempio quello con gli Iglesienti, direttamente o per tramite di altre genti, poteva avere una natura non necessaria alla sussistenza, pur potendo essere, eventualmente, un rapporto continuo, anche se non sistematico. L’approvvigionamento del loro piombo, in questo scenario, poteva perfino rientrare in un ampio e complesso sistema di rapporti commerciali e politici, le cui dinamiche sarebbero, eventualmente, tutte da studiare, tra diverse aree della Sardegna nuragica, e che non comportasse per forza un rapporto diretto ed esclusivo fra contraenti109.

Il villaggio di Gremanu, a ridosso dell’area sacra negli immediati pressi del rìo, conta un centinaio di capanne110, che anche non fossero tutte abitazioni familiari, rendono merito di un insediamento numeroso e florido.


Il sito e il megaron

Non si può parlare del tempio a megaron di Gremanu senza parlare, anche in una breve panoramica, dell’intero complesso insediativo.
Il sito di Gremanu si dispone su due settori distinti ma connessi; in quello più a monte si è sviluppato lo straordinario sistema di captazione dell’acqua, e dunque di fonti, pozzi e un acquedotto ipogeico che univa queste strutture, e poi convogliava l’acqua a valle, nel secondo settore, quello dell’area sacra. L’acquedotto è l’unico esempio conosciuto, di età nuragica, nell’isola111. Uno degli aspetti più apprezzabili – uno dei tanti – in seno a questa eccezionale opera di ingegneria, è la scelta oculata del materiale litico impiegato; accanto al granito locale, usato principalmente per le strutture esterne dei pozzi, si trovano elementi in basalto e steatite, usati segnatamente per le canalette di convoglio dell’acqua tra un bacino di raccolta e un altro, perfettamente incastrate in un’opera di raffinato artigianato. Una vasca quadrangolare, adiacente al terzo bacino, è delimitata da conci in basalto a ”T”, con superfici lisciate a scalpello; questi blocchi erano legati tra loro con verghe di piombo ed altre in legno. Il pavimento della vasca era in trachite e tufo, in conci anche questi perfettamente legati fra loro. L’uso di rocce vulcaniche, come la trachite e il basalto, per le canalette sulle quali l’acqua doveva scorrere ininterrottamente, e il pavimento della vasca, presupponeva una conoscenza pregressa delle qualità di resistenza alla corrosione dell’azione idrica, e questa conoscenza portò gli ingegneri di Gremanu a spostarsi, probabilmente verso la media valle del Tirso, per procurarsi questa pietra, assente nel loro territorio.

Il secondo settore è quello del villaggio e dell’area sacra.
L’elemento protagonista dell’area sacra, sotto l’aspetto monumentale e semantico, è il recinto. A differenza di quello che circonda altri megara in altre località, questo impone solennemente la sua presenza come elemento derimente le competenze pubbliche e private, sacre e profane. Il recinto è il luogo sacro, al suo interno stanno le varie competenze, ma non in primo piano. A Gremanu, il recinto è l’edificio sacro.
Ha una forma irregolare; semi-parallelepìpeda per quasi tutta la sua lunghezza (cioè un lungo rettangolo irregolare), da N per due terzi verso S, che è la direzione pressoché esatta del tèmenos. Da lì si diparte un’ellissoide incompleto che si apre al centro con un ingegnoso ingresso, il tutto per una lunghezza totale di 70 m ed una larghezza massima di 20 m ca. Le proporzioni tra le parti sono comunque simmetriche benché non regolari, e benché la simmetria sia spezzata, quasi all’angolo NE, dal primo edificio, circolare, il quale interseca il muro del recinto ma rimane fuori da questo per la sua totalità.
Questo grande recinto è diviso in tre parti, o mega-ambienti; da Meridione, sulla parte conformata ad ellisse, si apre un ingresso con ante curvate verso l’interno, dal quale si accede ad uno spazio ampio marginato all'interno da un sedile. Questo particolare, che fa pensare ad un appoggio per offerte votive, o forse, più probabilmente, ad un semplice sedile collettivo, porta ad interpretare questa platea come un luogo pubblico, al quale era dunque permesso l’ingresso alla popolazione del villaggio, le cui capanne stanno intorno al recinto, oggi nascoste dal bosco di roverelle. Questo grande ambiente aperto è delimitato a N da due capanne, alle quali si accede da questo stesso spazio, cosa che fa pensare, anche per questi due ambienti, ad un uso o “permesso” pubblico. Fra queste due capanne rotonde si stende un breve muro aperto al centro, apertura dalla quale si accede allo spiazzo centrale, rettangolare e vasto, che fa supporre essere stato un altro spazio di raduno, la cui relazione con il primo ambiente resta tutta da valutare. Da qui si accede all’ultimo grande spazio, a Settentrione, tramite due stretti ingressi, di cui uno centrale ed uno posto all’estrema sinistra per chi si dirige in questa direzione, adiacente al muro perimetrale occidentale del recinto. Un terzo ingresso porta direttamente all’interno del primo edificio che si incontra procedendo sempre verso Settentrione; un ambiente rettangolare absidato, di 10 m di lunghezza, il cui lato occidentale coincide con quello del muro del tèmenos, e con due ante murarie interne. Questo è il c.d. “tempio C”, rinvenuto nel 1997. La particolarità di questo ambiente sta nella pavimentazione della parte di fondo, absidata, dove i conci in granito sono disposti a cerchio e degradano verso il centro a formare una conca, verosimilmente adibita alla raccolta dell’acqua. Le due ante, solo parzialmente conservate, sembra potessero servire a chiudere questa vasca, che si può interpretare come ambiente per abluzioni rituali. Il fatto che questo edificio sia l’unico al quale era (ed è) possibile accedere direttamente dal secondo ambiente del tèmenos, e benché sia fisicamente inserito nel terzo, in realtà, e proprio per il suo ingresso, è da “assegnare”, per così dire, a questo spiazzo centrale, del quale forma una sorta di prolungamento carico di significato: un significato – o una semantica – duplice; il tempietto con vasca rotonda si trova, fisicamente, tutto all’interno del terzo ed ultimo grande ambiente a N del tèmenos, ovvero un ambiente ad alta valenza sacrale, come è evidente dalla presenza dei due maggiori edifici sacri (templi A e B). Questa sistemazione conferisce anche al tempio C una particolare valenza sacra. Il suo solo ingresso, tuttavia, si trova nell’altro ambiente del tèmenos, quello adiacente, a Meridione, come se questo fosse il primo ambiente sacro al quale si accedeva, per una prima fase del culto, propedeutica a quelle più importanti. Un lavaggio rituale? Una purificazione previa ad azioni da compiersi in condizioni esclusive di purezza? Immaginando un culto (un’azione cultuale, meglio, o rituale), vediamo dei fedeli, singolarmente o a piccoli gruppi, dirigersi verso un bagno rituale nella vasca dell’edificio. Da lì in poi, nel terzo ed ultimo grande ambiente settentrionale del tèmenos, gli offici ed i culti entravano nella loro fase conclusiva. Che quest’area fosse appannaggio esclusivo di una qualche casta sacerdotale è ipotesi praticabile ma non esclusiva; nulla esclude di pensare, infatti, allo stato attuale delle conoscenze, che i compiti sacri fossero praticati da esponenti della comunità privi, tranne in questa occasione, di qualsivoglia ruolo sacerdotale, o che questo non fosse disgiunto da altri nella vita “laica” della comunità112. Il concetto di recinto sacro, tèmenos appunto, separato, sacer, resta valido in quanto considerato come luogo separato dal villaggio abitato, nel quale gli ambienti (le capanne), erano vissute ogni giorno. Ma stabilire lo stesso criterio categorico per gli abitanti di una comunità risulta molto meno facile.

Pressoché al centro di quest’ultima parte del grande recinto sta il megaron.
Si tratta di un rettangolo irregolare, di 11,50 m ca. di lunghezza per 5,50 m ca. di larghezza. Con opistodomo e pronao ma non a doppio antis (presente solo sul retro), anche se la chiusura verso l’interno (a formare un ingresso) delle ante anteriori, può esser vista come una locale interpretazione dell’ingresso aperto del tempio ellenico. Dal punto di vista strettamente architettonico non si può parlare, in questo caso, di doppio antis, ma è da ritenersi che la chiusura verso l’interno dei lati del pronao sia da attribuire ad una deriva pregressa di un dato modus aedificandi più che ad una precisa volontà di non strutturare le due ante d’ingresso. La struttura è costruita con filari irregolari di granito, e l’intero edificio ebbe una scarsa cura in merito alla regolarità delle sue parti. Il pronao è dunque un ambiente, di 2 m di lunghezza per 2,60 di larghezza, con ingresso rettangolare e rettilineo di meno di un metro di larghezza. L’altezza massima residua dell’intero edificio è di 2,35 m. Un altro ingresso rettangolare e rettilineo, delimitato da due ante di misure irregolari (85 per 70 cm), immettono ad un ambiente di 4,80 m di lunghezza e 2,80 di larghezza. Di un’ottantina di cm sono le due ante posteriori esterne.
All’interno del vano grande del megaron è emerso un muro di blocchi di trachite rosa, ben modellata, appoggiato al muro di fondo lungo 3,30 m, con 30 cm residui d’altezza e con andamento obliquo. In corrispondenza del muro di fondo restano 4 filari mentre solo 3 e poi 2 verso la parte opposta, con blocchi frammentari a causa dell’azione del calore e delle escursioni termiche. I blocchi di questo singolare muro interno erano tenuti insieme da verghe di legno, fissate con argilla fluida colata, infisse all’interno di solchi scolpiti nel senso della lunghezza al centro del blocco trachitico, in contiguità col blocco adiacente. Altre verghe ritrovate negli incastri erano in piombo. Lo stesso muro di fondo presenta tracce di azione ignea, così come il pavimento; in questo si conservano resti di terra carboniosa mentre le pareti del muro hanno le superfici calcinate. Sempre dall’interno del tempio a megaron (detto tempio B), si rinvennero numerosi frammenti della stessa trachite rosa, con le superfici esterne incise con un motivo geometrico che disegna tanti angoli inscritti, concentrici, e formante una base circolare troncoconica, a blocchi sovrapposti, interpretata come altare da chi ha scavato il tempio113. Le pareti presentano ancora resti di intonaco che sembrerebbe averle ricoperte per intero; la sparizione dell’intonaco ha evidenziato una cura, nel comporre il tessuto murario, nettamente inferiore a quella posta per le strutture idrauliche summenzionate, o anche rispetto al muro in trachite interno al tempio. Basi in trachite dall’interno del tempio erano usate per contenere spade, con fori appositi, e altri fori più grandi per contenere statuine. All’interno di queste basi era colato il piombo perché fungesse da elemento di stabilità per gli elementi inseriti. Diverse spade frammentarie furono rinvenute nei crolli del tempio e fuori, nel recinto. Altri frammenti di spade sono ancora inglobati nelle basi trachitiche tenute ben fisse dal piombo. Un concio a “T” conserva la lingua da presa e una parte di lama di una spada del tipo Allerona, le cui condizioni di ritrovamento non permettono di ristabilire una sicura collocazione originaria all'interno del tempio114.

Questo megaron, a differenza di quello di Esterzili, presenta più problematiche per quello che ha restituito al suo interno che per la struttura in sé. Mura in conci sub-quadrati e sub-rettangolari in granito, legati con un sottile strato di argilla tra le facce combacianti dei blocchi sovrapposti115. Mura dritte, le cui differenti altezze residue sono minime (a prescindere dai restauri) e fanno pensare, data anche la scarsissima quantità di blocchi murari ritrovati all’interno e intorno alla struttura, ad una copertura straminea, verosimilmente a spiovente, sul modello delle capanne; anche se questa soluzione potrebbe contrastare, a causa del materiale infiammabile di un tetto in travi di legno, con l’attività ignea che si svolgeva all’interno del tempio nel lato occidentale del vano interno. Questa è di natura ancora da definire; sembrerebbe fusoria e rituale insieme, ma che certamente, nel focolare e nell’area che lo conteneva, doveva raggiungere temperature molto alte, dal momento che ha danneggiato i blocchi trachitici ed anche, fondendone le parti in silice, il muro di fondo in granito. In ogni caso, l’edificio, doveva aver avuto una copertura che non impedisse al fumo di uscire, e che impedisse al fuoco di bruciare oltre la zona nella quale era confinato. L’elemento singolare è che il focolare, qualunque fosse la sua natura116, era situato in posizione asimmetrica, cioè non centrale, a ridosso della parete occidentale dell’ambiente maggiore del tempio. La singolarità riguarderebbe proprio la copertura, che avrebbe avuto, stando così le cose, un’apertura laterale e non centrale per lo sfogo dei fumi e, in qualche caso, delle fiamme. Un accorgimento che permettesse questa soluzione non è comunque in contrasto con una forma simmetrica della copertura, come quella a doppio spiovente.

Il megaron di Gremanu non è un edificio che spicca per importanza rispetto a quelli adiacenti; anzi, sembra certamente “minore” rispetto, ad esempio, a quello circolare sito subito ad Oriente, ma soprattutto, come già affermato, rispetto all’intero tèmenos. Se si vuole analizzare il megaron di Gremanu si deve analizzare il grande e complesso recinto sacro che lo contiene.
Anche in questo i Gremanesi si sono mostrati particolarmente originali; al momento di concepire un’area sacra, è il complesso dei rituali, con la loro relativa importanza e, certamente, ciclicità, il fattore guida che ha mosso le loro azioni per la strutturazione delle varie parti dell’area, tenendo conto, contemporaneamente, della connessione tra queste. Gli elementi che compongono l’area sacra non hanno nessun carattere di protagonismo singolo, non spiccano, presi in sé, rispetto a nessun altro; l’eventuale maggiore importanza di uno rispetto ad un altro (per altro non celata), un’importanza relativa dunque, è palesemente espressa unicamente dal compito e dal ruolo che è chiamato ad effettuare, piuttosto che dall’edificio in sé, per forma o dimensioni117.
L’elemento protagonista, all’interno dell’intera area sacra, è la dinamica che questa esprime, e che suggeriva a chi partecipava, sacerdote o laico astante che fosse, al culto – o ai culti – che si svolgevano al suo interno. Altro elemento preponderante è la forte capacità di aggregazione che l’area suggerisce, e che gli architetti che la progettarono dovevano avere ben presente nelle loro intenzioni. È questa la semantica globale di questa iper-struttura, all’interno della quale stanno le diverse e specifiche semantiche parziali.
La prima è quella dell’ingresso principale (che poi è anche l’unico), al tèmenos. La forma allungata e curva delle ante, quasi arricciate verso l’interno dell’ambiente al quale immettono, invita ad una fluidità nell’entrare, che se si considera un’architettura essenziale, fatta solo di strutture ridotte al minimo indispensabile di utilità, risulterebbero del tutto superflue e ridondanti. Qui, al contrario, il simbolismo delle forme è più importante della loro pura essenza. Un ingresso, per tanto, non deve solo marcare l’assenza di un divieto di transito, con una semplice apertura, ma deve principalmente invitare al passaggio. Solo questo – per altro semplice – simbolismo delle forme, può giustificare la conformazione dell’ingresso al tèmenos di Gremanu118.
Altro elemento carico di semantica è il grande spiazzo, cintato all’interno dalla panchina, che si apre una volta passato il breve corridoio dell’ingresso. La sua sola forma, ellittica, è il simbolo universale del contenitore, in questo caso, di fedeli. La fugace ed implicita iniziazione simbolica che si era espressa all’atto dell’entrata, è ora attiva nel disporsi in questo vasto piazzale, dove non ci sono angoli nei quali appartarsi. La sua forma fa pensare precisamente ad un luogo di riunione libera e di attesa insieme. Gli atti rituali veri e propri non hanno ancora avuto inizio, ma si è già dentro una condizione di sacralità che allontana, per un tempo debito e controllato, i compiti quotidiani. Il momento di aggregazione e di coesione sociale doveva esprimersi, in questa platea, al suo massimo grado. Voluto o sottinteso che fosse, era questo il suo autentico scopo119.
Da qui in poi entriamo nell’area degli atti rituali veri e propri, che probabilmente ci sfuggiranno per sempre. Tutto quello che possiamo razionalmente tentare è provare ad individuarne una dinamica di massima, osservando le strutture che li ospitavano.
Prima di entrare nell’area centrale del recinto, conformata a rettangolo, è necessario considerare i due ambienti circolari, perfettamente eseguiti e forse gli unici dell’intera area ad esprimere una certa cura nell’esecuzione (ad eccezione dell’ultimo ambiente a NE). L’ambiente occidentale è di dimensioni maggiori di quello orientale, e si aprono entrambi sull’area ellittica, cosa che legittima a considerare un loro uso da parte dei fedeli; probabilmente due aree adibite a servizi di qualche tipo; forse vi erano depositati o solo momentaneamente lasciati degli oggetti, o al contrario contenevano oggetti da utilizzarsi per il culto. La bibliografia relativa agli scavi non riporta nessuna informazione circa eventuali rinvenimenti in queste due aree chiuse.
Questi due ambienti sono divisi da un muro che parte dal centro dei loro cerchi (considerato l’asse S-N), e li separa fisicamente, per una buona metà, dall’area ellittica. Questo muro è aperto al centro, e in questo caso sì che l’apertura non è nient’altro che quello che si può definire assenza di divieto di transito; una semplice apertura, come tutte quelle che seguiranno.
L’area centrale, un rettangolo irregolare, è a sua volta uno spiazzo aperto e pressoché vuoto, ovvero privo di strutture architettoniche qualificanti, che sembra avere come unico scopo quello di immettere i fedeli ad una avanzata fase del culto. Nel lato N-orientale di quest’area si apre un ambiente; il tempio C, del quale si è già parlato120.
A lato del muro occidentale di questo tempio, o vasca per abluzioni rituali, si apre un ingresso; all’angolo occidentale del muro che chiude questo mega-ambiente centrale rettangolare, sta un’altra apertura. Entrambe immettono all’ultimo spiazzo del recinto, chiuso a Settentrione in forma rettangolare. Due aperture dunque, a differenza che nell’ingresso alla seconda area del recinto. La lettura semantica è quella di uno spazio (il secondo, l’area centrale), nel quale si entra da un solo ingresso perché è un’area dalla quale si esce solo a rito compiuto. Mentre le due aperture verso la terza area, segnatamente quella dei templi, indicano due diverse direzioni di traffico, quasi a turni regolari, verso la zona dei templi; ingresso e uscita. La lettura indica un ingresso, il compiersi di un’azione rituale, in uno o in entrambi gli edifici, ed un’uscita una volta concluse le azioni rituali. Due aperture sembrano indicare che mentre chi ha compiuto l’atto rituale esce, altri entrano per compierlo a loro volta.
In quest’area, più o meno al centro, sta il megaron.
Un ingresso, posto pressoché a metà del lato orientale, immette in un altro edificio, che sembra essere il più importante dell'intera area sacra. Si tratta di una struttura circolare, innalzata con mura semplici (vale a dire non in aggetto), in blocchi granitici molti dei quali cuneiformi, formanti un muro a sacco legato con malta121. L’altezza massima residua, al momento del ritrovamento, era di 3,25 m. Il lato murario del tèmenos si addossa al muro della struttura circolare, fatto che denuncia due fasi edilizie differenti, ma l’omogeneità dei materiai rinvenuti nei due edifici A e B denuncia la coevità dell’attività che vi si praticava122. L’interno, di 9 m di diametro, era pavimentato a sua volta in lastre granitiche, unite ad altre di scisto ed era diviso in due ambienti emiciclici da un singolare muro simile a quello rinvenuto all’interno del megaron. Questo muro ha un ingresso in posizione decentrata, che permette l’accesso ad una zona adibita a focolare123, nel quale veniva fuso il piombo che costituiva la base delle spade e dei bronzetti votivi. Il muro è un altro piccolo gioiello degli artigiani di Gremanu: lungo quasi 4 m (3,95 m), alto 94 cm e largo 46, aveva una base in 3 file di basalto e calcare, alternanza di pietre il cui unico scopo è la ricerca di una valenza estetica, dal momento che non ne traspare nessuno funzionale. Sopra queste file di basalto e calcare si impiantavano 4 filari in trachite rossa (la quale aumentava notevolmente il valore estetico, e dunque simbolico, del muro), dei quali il primo con cornice estroflessa, il secondo semplice ma con protomi di ariete in altorilievo, il terzo presentava delle profonde incisioni lungo tutto il senso della lunghezza, a forma di cuneo con punta verso l’alto, e il quarto con cornice decorata a zig-zag, sulla sommità del quale erano praticati dei fori atti a contenere e sostenere delle spade votive bronzee. Anche questo edificio, che può definirsi cultuale a tutti gli effetti (l’attività fusoria praticata all’interno aveva, evidentemente, un fine ed una valenza legata al culto), terminava in alto con un tipo di copertura difficilmente definibile a causa del focolare interno che, anche qui, si presentava decentrato. All’interno, negli strati di crollo la cui scarsa quantità è coerente con le mura non in aggetto, furono rinvenuti dei blocchi calcarei, dei conci conformati a cuneo, interpretati come coronamento della sommità del tempio, il cui diametro era di 4,70 m.
Una torre di fattura raffinata, all’interno della quale era praticata un’attività che, qualunque essa sia stata (cultuale comunque), sembra non molto diversa da quella praticata nel megaron. In entrambi gli edifici troviamo un muro in trachite, ovvero in materiale che sembra sia stato scelto più per il suo valore estetico che per particolari qualità intrinseche e funzionali (a meno di non considerarne la facilità con la quale è modellabile); l’immissione di oggetti votivi all’interno dei blocchi trachitici, spade in particolare, per le quali i fori in sommità di questi blocchi erano praticati; il piombo, verosimilmente gettato fuso all’interno di questi fori, fanno pensare ad un’attività gemella che pone alcuni problemi di interpretazione. Unico elemento derimente è quella che sembra essere una fase precedente relativa all’edificio circolare, fase che, quand’anche non sia stata significativamente più antica di quella del megaron (e, a quanto pare dell’intero tèmenos), ha preceduto quello che sembra delinearsi come un periodo di monumentalità, di grande volontà monumentale delle attività cultuali, ma potremmo definirle anche culturali, di una comunità. Probabilmente si è sentita l’esigenza di non spegnere il fuoco, ovvero l’attività fusoria-cultuale dell’edificio circolare (forse davvero mai interrotta), e di riproporla in un nuovo edificio all’interno del grande recinto. Questa moltiplicazione dell’attività fusorio-cultuale all’interno di un edificio sacro, potrebbe forse denunciare una crescita del tenore di vita della comunità e dunque, per conseguenza, della demografia.

La forma complessiva del santuario di Gremanu può leggersi, inoltre, gettando uno sguardo alle forme circolari o curve in contrapposizione a quelle rettilinee. Un confronto che acquista un senso se questa dicotomia è osservata sotto l’aspetto qualitativo più che quantitativo; ne emerge una familiarità ed una desuetudine con la linea curva che sconfina quasi nel virtuosismo; lasciando alla linea retta, e agli angoli precisi, le parti di chiusura, come il fondo del santuario, a Settentrione; le parti di separazione all’interno, con aperture semplici, ed il megaron; elemento architettonico estraneo.

Il tèmenos di Gremanu esprime una cultura forte, all’interno della quale il megaron è inserito come elemento importante ma tutt’altro che dominante e significante nulla che non fosse nuragico. Un elemento che esprime una funzione nient'affatto estranea alla cultura che lo ha adottato; un contenitore nuovo per un contenuto antico ed ancora ben vivo. Assimilato come si assimilano concetti e suggestioni prestigiose, o comunque esprimenti un certo grado di attrazione, ma senza che queste influenzino o intacchino la cultura d’arrivo.












Serra Òrrios

Risalta, del resto, anche in queste forme miste, una sorta di accorata nostalgia della linea curva indigena, nella parte posteriore della costruzione, che gira formando una abside, in funzione strutturale e decorativa insieme, internata nello spessore della muraglia.124

Il territorio

Il villaggio di Serra Òrrios sorge su di uno zoccolo basaltico al centro dell’altopiano del Gollei (sub-regione della Baronìa), a poco meno di 7 km a ONO di Dorgali, ed a 190 m di quota s.l.m. Sito inoltre a 950 m ca. di distanza da un’ansa del Cedrino, sulla sua riva sinistra. La valle fluviale, prossima al villaggio, è a ca. 150/155 m s.l.m. Il mare, nel suo punto più prossimo, dista ca. 10 km e 360 m, verso Cala Gonone, in direzione ESE ed in linea retta.
Per questo territorio l’unica Unità di Paesaggio da segnalare è la nº 18, corrispondente alla seguente classificazione:

18 = unità di paesaggio “E1”
Aree con forme da ondulate a subpianeggianti, a tratti fortemente incise, prevalentemente prive di copertura arbustiva ed arborea.

Le Classi di Capacità d'Uso per l’Unità di Paesaggio 18 è: VIII–VII; rispettivamente, VIII; suoli che presentano limitazioni tali da precludere qualsiasi uso agro-silvo-pastorale e che, pertanto, possono venire adibiti a fini creativi, estetici, naturalistici, o come zona di raccolta delle acque. In questa classe rientrano anche zone calanchive e gli affioramenti di roccia, e VII; suoli che presentano limitazioni severissime, tali da mostrare difficoltà anche per l'uso silvo-pastorale.
Le Limitazioni d'Uso sono così descritte per questo suolo: 18; Rocciosità e pietrosità elevate, scarsa profondità, eccesso di scheletro, a tratti idromorfìa dovuta al substrato impermeabile.

Una prima classificazione geologica del territorio di Serra Òrrios è relativa ad una Copertura sedimentaria e vulcanica; più specificamente classificabile come Ciclo vulcanico ad affinità alcalina, transizionale e subalcalina del Plio-Pleistocene. Si tratta infine di Basalti alcalini e transizionali, basaniti, trachibasalti e hawaiiti, talora con noduli periodotilici; andesiti basaltiche e basalti subalcalini; alla base, o intercalati, conglomerati, sabbie e argille fluvio-lacustri.
Basalto, in sintesi, la roccia con la quale il villaggio è stato edificato.

La descrizione dei suoli è quella di una roccia affiorante, in un contesto paesaggistico non adatto alla coltura intensiva, e nel quale il pascolo doveva essere l’attività dominante quando non l’unica (fra le attività di sussistenza alimentare), in un vasto circolo territoriale che va dal Monte Ortobene ad Occidente, fino al mare ad Oriente (il Golfo di Orosèi), per un raggio di 23 km ca. A 14 km ad Oriente dell’Ortobene sta il villaggio di Serra Òrrios. Poco ad O del villaggio inizia un territorio geologicamente diverso, prevalentemente granitico, ma con caratteristiche d’uso coincidenti con quelle del tavolato basaltico sul quale sorge l’insediamento. A parte la cima del Monte Ortobene, a 4,7 km a Oriente di Nuoro, che misura 955 m di quota, tutto il territorio delimitato poco sopra, con Serra Òrrios più o meno al centro, si alterna in un paesaggio di colline, valli fluviali, con altitudini che variano dai 50 m ca. del fiume Cedrino fino ai 470 ca. dei colli a 7,5 km ca. a NO del villaggio nuragico.

I giacimenti minerari del territorio di Dorgali, secondo la carta metallogenica, sono scarsi se non nulli, almeno considerando le immediate vicinanze: un giacimento di argille o altre rocce industriali, nei pressi della Località Canales, a ca. 4,5 km a SSO di Serra Òrrios. Più lontano si trova un altro giacimento simile, a ca. 12,5 km a NE, presso Orosèi, in una zona con insediamenti nuragici e pre-nuragici (sono presenti il nuraghe Panatta, e delle domus de janas). Ad una quindicina di km a N, ad E di Lula, sulle pendici sud-orientali del Monte Albo, si trovano, invece, giacimenti di ferro e piombo. Non lontano da questi, a meno di 2 km a NE, si trova il nuraghe di Littu Értiches (in comune di Irgòli ma più prossimo a Lula).
In una delle analisi più accorte fatte su Serra Òrrios (in quella che è una delle più disperate storie archeologiche della Sardegna), fatta da Maria Luisa Ferrarese Ceruti125, si auspica un’analisi comparativa, a partire dallo studio dei materiali del villaggio, con i centri e gli insediamenti dell’intero territorio di Dorgali, prendendo in considerazione l’intero microcosmo di insediamenti126 per provare a ricostruirne le relazioni, sincroniche o diacroniche, e i rapporti economici e sociali tra le varie comunità circonvicine. Uno studio di questo tipo sarebbe utile a chiarire, tra l’altro, la portata delle possibilità di sfruttamento minerario degli abitanti di Serra Òrrios. Una prima visione, in quest’ottica, è quella esposta da Alberto Moravetti, nella quale un dato ed un’analisi chiave è quella relativa al cospicuo numero di villaggi rilevati nel territorio (77), in relazione al fatto che ben 63 di questi non presentano una stretta relazione con un nuraghe127. Questo fenomeno è interpretato alla luce di una sorta di unità politica fra i diversi insediamenti che, se fosse comprovata dai dati archeologici, renderebbe una visione della dinamica territoriale ed umana nella quale, a questo punto, un’ipotesi di sfruttamento congiunto delle risorse minerarie alle quali si è accennato, acquisterebbe un peso non indifferente.
Sfortunatamente, contro questo studio stanno i dati archeologici del villaggio di Serra Òrrios; troppo lacunosi, confusi e di difficile interpretazione quelli (pochi) a disposizione. Proseguendo tuttavia in questo lacunoso tentativo analitico, l’ipotesi di Moravetti di un complesso insediativo multiplo, territoriale, politicamente coeso, allarga i già notevoli problemi di attribuzione cronologica (il quale Autore, infatti, non accenna ai giacimenti metalliferi e, segnatamente, alla presenza del ferro a 15 km a N di Serra Òrrios).
Nella visione di Moravetti i nuraghi (42 censiti rispetto ai già citati 77 villaggi128, sempre considerando il solo territorio amministrativo di Dorgali; visione a mio avviso limitativa), risultano essere elementi ancora attivi in un quadro di difesa e controllo del territorio. Una simile visione non può essere successiva agli inizi del BF, ovvero alla fine del XIII sec. a.C. Non perché dopo quest’epoca non sia possibile ipotizzare un’eventuale continuità d’uso dei nuraghi, ma perché considera gli stessi all’interno di una concezione integrata del controllo del territorio, mentre se si considera l’abbandono dell’attività di edificazione delle torri nuragiche e, di conseguenza, una cessazione del loro ruolo originario (qualunque esso sia stato), insieme ad una relativa emersione del villaggio come elemento caratterizzante questo periodo129, senza il nuraghe, allora la tesi del controllo congiunto del territorio, coi nuraghi come elementi comuni e strategici, viene a cadere. Il controllo congiunto del territorio è una tesi molto valida, forse l’unica che spieghi l’esistenza di villaggi privi di sistemi di difesa o di stretto controllo del territorio immediatamente circondante l’insediamento, ma in un’ottica simile sono proprio le torri nuragiche a perdere un eventuale ruolo attivo di controllo territoriale130.
Moravetti non propone cronologie se non tramite citazione testuale di tesi altrui (segnatamente di Maria Ausilia Fadda131), e all’interno della storia degli scavi del villaggio132.
Nella visione di Ferrarese Ceruti invece, che parte da considerazioni di tipo urbanistico-architettoniche relative al villaggio, la studiosa conclude che la fase di vita di questo potrebbe coincidere con l’epoca di abbandono dell’attività edificatoria dei nuraghi133, pur non escludendone una qualche continuità d’uso. Questa ipotesi porrebbe, in ogni caso, l’edificazione stessa dell’abitato ben all’interno del BF, ovvero a partire dal XII sec. a.C., e spiegherebbe l’isolamento del villaggio e la sua lontananza da sistemi di controllo e difesa rappresentati, appunto, da muraglie e torri nuragiche. Un controllo congiunto, tra villaggi di uno stesso territorio (da definire con precisione), ovvero una unione politica complessa fra insediamenti, non è presa qui in considerazione134.

Tra i reperti metallici rinvenuti a Serra Òrrios è presente un braccialetto d’argento, per il quale, chi si è occupato dello studio dei reperti metallici restituiti dall’area del villaggio135, propone una provenienza dell’argento dalle miniere di Sos Enattos, a poco più di 14 km a NO, in territorio comunale di Lula (sfruttate fino ad oggi), in considerazione anche di altri bracciali d’argento rinvenuti in territorio di Dorgali.
La situazione dei reperti restituiti da Serra Òrrios è talmente disperante da lasciare spazio nient’altro che ad ipotesi; tuttavia è possibile tracciare un quadro generale che prenda in considerazione, appunto, il territorio tutto, con le sue possibilità di sfruttamento e le sue risorse.

Serra Òrrios sembra rispondere pressoché esattamente al quadro insediativo proposto per il BF da Anna Depalmas: “Il progressivo indebolimento del concetto di nuraghe come punto di riferimento della società riflette una reale trasformazione che si concretizza anche nel contemporaneo affermarsi, con forme rinnovate e consolidate, del sistema insediativo dei villaggi.136




Il villaggio e i templi

Il villaggio

Nonostante la carenza di informazioni relativa alle stratigrafie ed alle relazioni architettoniche ed urbanistiche dell’insediamento137, gli indizî rimanenti indicano che la direzione da seguire è quella appena descritta. “Gli abitati di questo periodo sono costituiti oltre che da edifici circolari, da vani di varia forma accessibili attraverso un cortile centrale che li raccorda così da dare corpo a strutture ad isolati.138
Maria Luisa Ferrarese Ceruti individua la conformazione ad isolati nella struttura urbanistica dell’abitato139, articolati, alcuni, attorno ad un cortile centrale nel quale si trova un pozzo o cisterna, elemento di pubblica utilità opportunamente situato in una posizione non esclusiva. Il dubbio circa la contemporaneità o meno di questa conformazione, rispetto alle singole capanne (dubbio creato ed alimentato dalle citate carenze di dati relativi alle indagini), non modifica il quadro culturale comparato con i villaggi del BF, articolati secondo i criteri summenzionati; è plausibile, infatti, un’evoluzione anche in tempi non significativamente lunghi, e che abbia portato a completa maturazione questa razionale distribuzione dell’area abitata140.
In questo quadro, i due megara di Serra Òrrios si trovano perfettamente integrati, nel senso che non appaiono come corpi aggiunti in seno ad un organismo non strutturato per accoglierli, ma il contrario. La loro posizione è quella del luogo sacro rispetto all’area abitata, nessuna struttura vi si addossa, il loro spazio è correttamente rispettato e “riconosciuto” dalla conformazione dell’abitato. Questa è una breve lettura semiologica dell’aspetto urbano; lettura che, pur bisognosa di essere incrementata, potrebbe già considerarsi così una sintesi compiuta. Purtroppo lo stato in cui fu rinvenuto l’insediamento e le successive, infelici, azioni di scavo e di sterro, nonché di “restauro”141, possono aver apportato cambiamenti tali da distorcere la lettura del disegno urbano, soprattutto in considerazione delle eventuali fasi cronologiche da evincersi da possibili superfetazioni murarie142; vandalismo, incuria, abbandono143; sono tutte voci che si ripetono al momento di affrontare la sola descrizione del villaggio, senza nemmeno accennare ad eventuali analisi, quando invece si parla di scavi frettolosi e scarsamente documentati...144, fra i quali si devono aggiungere anche quelli più recenti145.
Preso atto di questa situazione, che si ripete al momento di prendere in esame i reperti al fine di trarre una sequenza cronologica dell’insediamento, è comunque possibile (e doveroso), avanzare alcune considerazioni di base, riguardanti ad esempio proprio la lettura urbanistica dell’abitato. In questa, l’elemento di maggiore importanza è la suddivisione in isolati, evinti per Serra Òrrios da studiosi diversi in tempi diversi146, ed evinti più in generale all’interno di un quadro cronologico riguardante l’intero mondo nuragico nel Bronzo Finale e nelle sue fasi di passaggio dal Bronzo al Ferro147.

Consideriamo dunque la suddivisione in quattro isolati proposta da Moravetti148; l’isolato A, che si sviluppa verso l’estremità N-orientale, è costituito da otto ambienti, o capanne, ed aveva un primo accesso direttamente a N, condiviso con l’isolato B, e poi un altro in direzione NO che immetteva direttamente all’interno della corte dell’isolato. Le capanne dell’isolato A sono numerate dal 70 al 77, e quest’ultima è l’unica ad avere l’ingresso esterno alla corte (segnatamente aperto a SO), rendendola in questo modo funzionalmente slegata dall’isolato, benché fisicamente annessa ad esso. Moravetti spiega (dubitativamente) questa particolarità, con un’annessione successiva al resto dell’isolato, ovvero una costruzione della capanna in una seconda fase edilizia; cosa che però non spiega affatto l’apertura avulsa dalla vita dell’isolato, dal momento che nulla impediva di aprire un ingresso, a questa capanna, dalla parte della corte. Dal punto di vista della funzionalità, invece, leggendo una possibile dinamica elementare delle azioni quotidiane (o anche di una periodizzazione meno frequente), degli abitanti dell’isolato, la capanna 77 sembra più un ambiente di servizio, di disimpegno, nel quale riporre attrezzi od oggetti non funzionali alla vita “casalinga” dell’isolato. O addirittura un ambiente di lavoro, relativo ad un qualche tipo di produzione, non necessariamente legato a chi condivideva le sue giornate nel microcosmo dell’isolato A.
In questo isolato si inciampa in uno dei problemi interpretativi connessi alla documentazione lacunosa e vaga relativa a Serra Òrrios: Fadda qui accenna a due capanne149, da lei numerate 22a e 22b, probabilmente situate in questo isolato150, ma non identificabili perché non presenti in nessuna pianta. All’interno di queste due capanne Fadda afferma di aver individuato un “(...) deposito archeologico con una sequenza stratigrafica che va dal Bronzo Medio alla prima età del Ferro151, vale a dire un arco di vita di 800 anni circa152. Fossero anche la metà, cioè 400 anni ca., ovvero dalle fasi finali del lungo periodo di durata del BM (fino al IFe), si tratterebbe comunque di uno straordinario bacino stratigrafico, la cui presenza meriterebbe uno studio particolare e parallelo ad ogni altra parte o ambiente dell’insediamento. Tanto più che al momento di redarre la documentazione relativa, Fadda afferma che durante lo scavo di queste capanne non si era comunque arrivati al piano di calpestìo delle stesse.
La stessa non accenna a situazioni stratigrafiche analoghe, relative ad altri ambienti.
L’articolazione di questo isolato è molto varia e, in apparenza, poco funzionale (se ammettiamo il concetto di “funzionalità” relativo a parametri più moderni, ma ampiamente discutibili se applicati a questo periodo ed a questa temperie culturale della Sardegna); potremmo definire la conformazione di questo isolato disordinata, in relazione ad altre parti dello stesso abitato, ma a ben guardare non priva di una sua funzionalità interna.
Le capanne più orientali: 73, 74, 75, sono ben unite tra loro, hanno l’ingresso che si apre verso la stessa direzione (O), e sono a loro volta isolate dal resto; la capanna 73, che ha una conformazione rettangolare, continua il suo lato settentrionale verso O, con un lungo muro che, dalla parte opposta alla capanna, forma un lungo corridoio d’ingresso insieme ad un muro ad esso parallelo, posto a N, più lungo del primo e che diparte dalla capanna 70, il cui ingresso è opportunamente situato sulla piazzola centrale dell'intero isolato. Su questa stessa piazzola, dalla forma molto irregolare, ed esattamente di fronte all’ingresso della capanna 70, si apre l’ingresso alla capanna 71. Queste cinque sono le capanne dell’isolato che si aprono sulla piazzola centrale; la 72 e la 76, hanno l’ingresso uno di fronte all’altro, discosto dalla piazzola e aperto verso un curioso spazio diviso da un muro nel senso della lunghezza, che forma due vicoli ciechi di dubbia o nulla funzione (siamo ormai nella zona della capanna 77) , ma che fanno pensare effettivamente ad una serie di fasi costruttive diverse. La capanna 72 è la “gemella” della 71, con dimensioni simili, quasi attaccate l’una all’altra, ma con gli ingressi situati dalle rispettive parti opposte; impossibile, qui, non ravvisare una voluta diversa funzionalità in questa conformazione; aggiunta a quella delle tre capanne 73, 74, 75, si può a mio avviso ravvisare una programmazione della strutturazione di questa parte dell’abitato, anche considerando fasi strutturali diverse. È possibile evincere alcuni probabili ambienti adibiti a servizi di qualche tipo nelle capanne 72 e 76, dentro l’isolato, e nella 77, come si è già detto, al di fuori di questo.

Adiacente, e ben legato urbanisticamente all’isolato A, subito ad O, si trova l'isolato B, sito sempre nella parte settentrionale dell’abitato. Otto ambienti raccordati con muretti, a piccoli gruppi, con la capanna 21 isolata verso E. Le capanne sono numerate dal 18 al 20, nel lato S dell’isolato (potremmo considerarlo un primo gruppo), e le capanne 36, 37, 39, 40, a NO, che potremmo considerare un secondo gruppo anche se le capanne 36 e 37 formano in realtà un piccolo gruppo e le altre due un altro, separati da una sorta di corridoio che conduce a NO fuori dall’abitato (o immette allo stesso, secondo la direzione considerata). Questa conformazione racchiude uno spazio centrale, di forma irregolare, sul quale si aprono tutte le otto capanne, e nel quale si trova un pozzo o cisterna; tra la capanna 20 e la 21, a SE dell’isolato, si apre un patio comunque aperto a N verso il grande spazio centrale. Un patio di estensione ridotta si trova al lato opposto, a OSO, tra le capanne 18 e 36. Nell’angolo meridionale del patio orientale (tra le capanne 20 e 21), si apre un ingresso all’isolato; un altro è aperto a SO tra le capanne 18 e 19; e un terzo è quello a cui si è già accennato, a NO tra le capanne 37 e 39, mentre oltre la capanna 40, a N, una situazione incerta, con cumulo di pietre, non consente di identificare la conformazione di quest’area.
A parte la capanna 21, che appare come elemento di dimensioni più importanti delle altre dell’isolato (dimensioni simili a quelle delle capanne 76 e 77 dell’isolato A), oltre che più in disparte dal resto dell’insieme di ambienti di questo isolato, le altre capanne formano un gruppo coerente per dimensioni, posizione ed apertura verso una piazzetta con un pozzo al centro. Abitazioni, dunque.

Isolata a N dell’abitato, di medie dimensioni, si trova una capanna (27), la cui utilità non risulta chiara né si è ritrovato nulla (che si sappia), al suo interno che sveli la ragione della sua esistenza.

Fuori dall’isolato B, segnatamente ad Occidente di questo, furono rivelate altre strutture legate a sistemi di raccolta e canalizzazione dell’acqua, pozzetti e condotte utili all’approvvigionamento idrico. Queste si trovano in concomitanza di un gruppo di capanne che non viene considerato fra gli “isolati” con i quali si è voluto suddividere l’abitato; ma questa esclusione andrebbe fatta con una certa prudenza. Dalle piante ricavate emerge l’assenza dei muri di raccordo fra ambienti, ma non fra tutti; le capanne 32 e 59 (nella parte più occidentale di questo insieme non classificato), sono unite infatti da un breve muro. Le due capanne, di dimensioni diverse, sono allineate all’incirca nell’asse EO, come l’intero gruppo, ed hanno l’ingresso in direzione pressoché opposta; a SE si apre l’ingresso alla 32 e a NE quello della 59. Ad E della capanna 32 si trova la 31, non collegata da mura con nessun altra, ma delle stesse dimensioni della sua adiacente 32, e con ingresso orientato all’incirca nella stessa direzione, a S. Ancora ad Oriente di questa si trovano due muri, forse residui, e per tanto non facilmente interpretabili; segnalano, tuttavia, una ricerca di razionalizzazione anche di questo gruppo di capanne, meno o diversamente leggibile rispetto agli altri isolati. A S di queste mura, per altro non legate a nessuna struttura, oltre che non legate fra loro, si trova, appena leggibile sul terreno, un circolo di pietre che doveva essere stato una capanna a sua volta, e che non ebbe il privilegio del battesimo numerale. Ancora a S di questo circolo a raso si trova, isolata da tutto, la capanna 33, di dimensioni simili alle capanne 31 e 32 (ed alla 58), i cui residui muri a raso, che sembrano dipartirsi da questa, sia verso N, per unirsi alla capanna senza nome, e verso S, suggeriscono un’originaria congiunzione di questo ambiente ad un insieme oggi non più leggibile con chiarezza. A N delle capanne 31 e 32 si trova la capanna 58, isolata, e con ingresso orientato ad O. Al suo fianco, ad E, la 57, di dimensioni minori ed ingresso a S. Ad E di questa, poco discosto, un curioso ambiente quadrangolare, molto irregolare; la capanna nº 30. A N di quest’ultima, un residuo ambiente a sua volta quadrangolare, del quale non restano che la parete S e una minima parte della parete O, leggibili; questo residuo pare formasse un ambiente, numerato 29. I pozzetti e le condotte di canalizzazione furono rinvenute in prossimità dell’ambiente non numerato e della capanna 30153.
Ancora una volta, la carenza di dati di scavo non permette di analizzare degli elementi che, alla luce di quanto è visibile anche dalla sola osservazione delle piante, appare come un “isolato”, pur meno leggibile degli altri. A mio avviso è qui visibile un tentativo di organizzazione in un solo gruppo di ambienti, non diversamente dagli altri; la forma della capanna 30 e quella che si evince leggendo i due muri superstiti della c.d. 29, il muro che unisce le capanne 59 e 32, la presenza del pozzetto e delle canalizzazioni, e l’insieme urbanistico di questa zona, ne fanno un isolato a tutti gli effetti, la cui unica differenza tra gli altri consiste in una maggiore difficoltà di lettura ed interpretazione. A prescindere da eventuali fasi particolarmente vetuste, in seno a questo “quartiere periferico”, la forma e le strutture residue, oltre che il numero delle capanne o ambienti rimasti (sette leggibili e due incerti), ne fanno un isolato da considerarsi non da meno degli altri.

L’isolato C è il più notevole fra tutti. Un “complesso residenziale” vero e proprio, con 11 ambienti (12, 13, 15, 16, 17, 55, 56, 60, 64, 66, 67), una piazza, centrale e ben delineata, con pozzo (ambiente 65), preceduta da un cortile a N (ambiente 63) nel quale era presente un focolare con coppelle, oggi scomparso. Altri corridoi di disimpegno ed altri spazi con la stessa funzione di passaggio sono il 68, il 69 e il 14.
Questo isolato si trova al centro dell’abitato, immediatamente a S dell’isolato B, con un andamento e una forma pseudo-rettangolare (molto compatta dunque), ed una direzione NNO-SSE.
La forma dell’intero isolato è tale da far pensare ad una sua strutturazione in un’unica fase costruttiva e secondo un progetto unitario; certamente è evidente la volontà di unificare i diversi ambienti di questo isolato in un unico complesso, evidenza che legittima a considerare la stessa fase, o contemporaneità, costruttiva per ognuno di essi; considerazione rafforzata dalla quasi totale assenza di mura di raccordo tra ambienti, i quali sono uniti da mura divisorie in comune. L’insieme degli ambienti gira intorno alla piazza centrale, per lo meno dal punto di vista planimetrico, ma non sotto l’aspetto funzionale. Sulla piazza centrale (l’ambiente 65), si aprono infatti solo tre ambienti, o capanne (da S a N: 56, 67, 66), per altro di piccole dimensioni154; le uniche che hanno accesso diretto alla piazza con pozzo per la raccolta dell’acqua. La capanna 64, la più esterna a N dell’intero isolato, si apre sul cortile adiacente (63). A NO della piazza centrale si snoda un micro-complesso composto da un corridoio cieco (69), e quattro capanne (15, 16, 17, 60), delle quali la 60 e la 15 si aprono sul suddetto corridoio, la 16 sullo spiazzo adiacente e la 17 sulla parte esterna all’intero isolato a N. Un ingresso aperto a SO, che forma un piccolo ambiente (14), immette alla parte meridionale dell’isolato, nella quale si aprono, da O verso E, le capanne 13, 12, 55, su uno stretto spiazzo ricavato tra i corridoi d’uscita delle capanne e il muro meridionale di chiusura della piazza centrale. L'ingresso a questa parte forma a sua volta un piccolo ambiente (14). Un altro ingresso si trova poco più a N del 14; lungo la stessa via centrale del villaggio, e che separa l’isolato C da quello D ad Occidente, ed immette al corridoio 69.
Così come è agevole stabilire un’unica fase di costruzione per questo isolato, nella sua interezza, è parimenti complicato evincerne le varie parti funzionali. Si possono individuare tre diversi “distretti”, uno a S, composto dalle capanne 13, 12, 55, con la stretta piazzola chiusa a N dal muro meridionale della piazza centrale, che costituisce l’elemento centripeto del secondo “distretto” altrimenti composto dalle tre capanne disposte a raggio, verso E della piazza, 56, 67, 66 da S verso N. Un terzo distretto, meno regolare degli altri due, è quello formato dalle capanne 60, 15, 17 da S verso N, e la 16 ad E. Nessuno dei tre comunica direttamente con gli altri. Queste ultime quattro capanne, con la 13, sono le più grandi di tutto l’isolato, e delle stesse dimensioni approssimative delle 70, 76, 77 dell’isolato A, e la 21 dell’isolato B. Le capanne più piccole, in tutti gli isolati, sono anche quelle più concentrate tra loro, le meno isolate; al contrario delle capanne più grandi che sono invece più libere da vincoli e contatti con le altre capanne. Come interpretare questo dato? Le capanne più piccole e raccolte erano le abitazioni? Nulla più che semplici luoghi di riposo? E le altre, ambienti collettivi di lavoro? Qual è stato il criterio col quale si sono isolati alcuni “distretti” rispetto agli altri, in seno ad un solo isolato (specialmente nell’isolato C)? Erano luoghi – ambienti – pertinenti ad una sola famiglia o gruppo familiare (ad esempio quelli relativi alle capanne 13, 12, 55 a S dell’isolato C)?
Pur considerando quest’ultimo isolato preso finora in considerazione, secondo l’ipotesi di Alberto Moravetti, ovvero come l’unico edificato secondo un piano prestabilito e in un’unica fase edilizia, gli elementi in comune con gli altri isolati sono importanti; come quello su accennato, relativo alla coincidenza tra dimensioni dei vani e relativo raggruppamento od isolamento. Un’interpretazione per tanto, che si potrebbe definire di apertura al tema, o anche preliminare, considererebbe alcune delle capanne più grandi ed isolate come più antiche, relative a fasi cronologiche anteriori a quelle delle capanne più piccole e raggruppate, evidentemente nate insieme, in qualunque isolato si trovino (il gruppo 73, 74, 75 e forse anche i vani 71 e 72, dell’isolato A; i gruppi 19, 20, con la 18 solo separata dall’ingresso S al centro della piazza, e 36, 37 e 39, 40 dell’isolato B). Così come, su questa stessa linea preliminare, è possibile considerare le capanne o vani più grandi ed isolati come ambienti di lavoro o di servizio (magari non tutti), e quelle più piccole, raccolte e “recenti”, come le abitazioni vere e proprie, in una sorta di partizione tra otium et negotium delle diverse parti e cellule dell’abitato.

L’isolato D è più somigliante agli isolati A e B; disposto ad Occidente dell’isolato C, è privo di una piazza o spazio centrale comune, e le dieci capanne (5, 6, 7, 8, 9, 10, 10a, 10b, 34, 52, più un ambiente a N della 34, aperto ad O e di problematica interpretazione anche se potrebbe essere un vano parzialmente distrutto, comunque numerato col 35), si aprono su vie e stradine, anzi, su un’unica via centrale, curva, direzionata EO, e cieca ad O, chiusa in fondo dal piccolo vano 52. Le capanne 5 e 6 sono le più occidentali dell’isolato ed anche le uniche due non legate a nessun’altra struttura (capanna o muro). L’isolamento di queste capanne, tuttavia, sembra intenzionale; nulla vietava, infatti, agli urbanisti di Serra Òrrios, di legare ed unire anche queste due capanne, qualora fossero più antiche di altre parti dell’isolato, alle altre, congiungendole con mura o addossandogli altre capanne ancora.
Il corpo centrale dell’isolato, ad E delle due capanne 5 e 6, lo si potrebbe descrivere in questo modo: due semi-corpi direzionati EO, di cui uno settentrionale e l’altro meridionale, entrambi formati da capanne adiacenti o raggruppate. Il semi-corpo N, dunque, inizia ad E con un muro che si lega ad O con la capanna 9 (la più grande dell’intero abitato155), che a sua volta si lega, ma in corpi del tutto separati, alla piccola capanna 54 che è quella sul cui ingresso si chiude la strada centrale dell’isolato. Questa si lega allo stesso modo, cioè con mura attaccate ma indipendenti (probabile segno, in entrambi i casi, di due fasi edilizie diverse), alla capanna 7, centrale rispetto alla strada e ai due semicorpi. Da qui inizia l semi-corpo meridionale, con ad O la capanna 8, legata al muro del vano 10b, un rettangolo irregolare, legato con muro divisorio in comune al vano 10a, un parallelepipedo ancora più irregolare perché “investito” a N dall’ambiente o capanna 10, di forma mista, circolare e angolare. Il gruppo di capanne – da O verso E – 8, 10b, 10a, 10, formano, al loro esterno, ovvero a S ed a E, due strade perpendicolari; una a S in direzione EO, e l’altra ad E in direzione NS. Le aperture, ovvero gli ingressi degli ambienti summenzionati si aprono tutti nella strada interna al corpo centrale di questo isolato appena descritto. Altro segno di pianificazione urbanistica.
La piccola capanna 34, a N dell’isolato, è legata ad un muro che a sua volta si lega ad altri che portano infine alle capanne 15 e 17 a N dell’isolato C, ma legata comunque, per il gioco degli ingressi, all’isolato D. Dalla capanna 5, verso N, si dipanano due muri che si interrompono dopo alcuni metri, e che formano un vicolo cieco verso S, ovvero verso la capanna. A S del corpo centrale dell’isolato si trova una strada il cui muro opposto è una sorta di muraglia non ben identificabile, probabilmente diruta, e che sembra a sua volta funzionale all’urbanistica del villaggio. Le capanne 5 e 6 hanno entrambe l’ingresso aperto a S, mentre la capanna 7, l’unica finora tra quelle osservabili nell’insediamento, ha due aperture, una ad E e l’altra a OSO, che mettevano in comunicazione la strada interna del corpo centrale con la parte esterna dell’isolato verso le due capanne solitarie (5, 6). Anche in questo isolato si ripete la dicotomìa – del tutto ipotetica – tra ambienti comuni, di lavoro, e ambienti familiari, intimi, di ritiro e riposo.

All’estremo S dell’abitato si trova un altro isolato senza dignità onomastica, adiacente al recinto B. Questo è del tutto scollegato e lontano dal resto del villaggio. È composto da sette capanne e da una struttura muraria di non chiara utilità (ma potrebbe essere stato un recinto per il ricovero di animali). Due capanne a S (53 e 62), sono isolate e scollegate dal corpo centrale dell’isolato, così come la più grande capanna 54, anche se questa è più vicina allo stesso. Tutte e tre queste capanne hanno l’ingresso rivolto a ESE, cioè verso l’esterno rispetto all’isolato e rispetto all’insediamento tutto.
Un lungo muro occidentale, che corre a N del vano 54 in direzione EO, contribuisce a chiudere il corpo centrale dell’isolato. L’estremità occidentale di questo muro forma, insieme al muro circolare della capanna 3 sita a N del muro, un ingresso, ad O, a questo corpo centrale. Questo muro finisce ad E con la capanna 38; da questa verso SE si dipanano delle articolate strutture murarie di ardua comprensione funzionale, che vanno, in linea curva, da O verso E e da E verso N, chiudendo ad Oriente l’isolato. Ad E di queste mura si trova un grande cumulo diruto di pietre. Ritornando verso il corpo centrale dell’isolato, a NE, troviamo la capanna 61, isolata, ovvero non legata ad altre strutture di nessun tipo, ma ben funzionale urbanisticamente a chiudere l’isolato a NE. L’ingresso di questa capanna è tuttavia rivolto all’esterno dell’isolato, verso E. Ad O della 61 si trova la capanna 4, legata con un breve muro alla 3. Questo complesso, che presenta caratteristiche di elementi accorpati in fasi edilizie diverse, ha come unica caratteristica differente dagli altri (a parte il celebrato isolato C), il suo isolamento dal resto dell’abitato. Questa posizione, unita alla sua vicinanza col recinto del tempio B, potrebbe farlo interpretare come una sorta di isolato di servizio, vale a dire non abitato ma adibito ad ambienti di lavoro magari relativi alle funzioni sacre che si svolgevano nel tempio vicino.

Parimenti isolata dall’abitato è una grande capanna (battezzata 49), che si trova ad una quarantina di metri ad O dalla capanna 6 dell’isolato D. La struttura è quella di un grande vano (meno grande comunque di altri dell’abitato), di forma vagamente ellittica, ma molto curato nella sua composizione: pavimento in lastre con sedile adiacente alla circonferenza interna. Costruito in grandi ortostati, presenta un vestibolo esterno del quale rimane visibile solo la parete N. L’ingresso è aperto ad E, ovvero verso l’abitato. L’interpretazione di questo singolare ambiente è quella di un edificio pubblico, di riunione. Moravetti, basandosi sulle dimensioni delle lastre che formano le pareti, propone un periodo di costruzione di questa capanna anteriore a quello dei tempietti156. Nessun materiale eventualmente reperito all’interno di questo ambiente è giunto fino ad oggi a chiarirne funzione e cronologia157.


I templi

Al margine meridionale dell’abitato, segnatamente a SO, si trova il recinto detto B, con omonimo tempietto; mentre molto più discosto, ad O di questo, si trovano il recinto ed il tempietto A. Quest’ultimo fu il primo ad essere scoperto da Teodoro Levi nel 1936.
Il tempio A, dunque, è circondato da un ampio recinto, di forma irregolare tra circolare e semi-quadrangolare; m 50,20 per 42,50, con spessori murari tra m 1,80 e 1. L’ingresso architravato, alto 1,80 m e largo 80 cm, è preceduto da un andito ovalòide di 6 m di profondità, la cui larghezza massima è di 4,20 m e minima di 3 (lo spessore murario delle due mura di quest’andito è di m 1). Ad 8 m a destra dell’ingresso, appena entrati all’interno del recinto, ed a 3 m di distanza dal muro N dello stesso, si trova il megaron; in posizione del tutto decentrata rispetto al recinto che lo contiene.
Il rettangolo leggermente irregolare del tempio misura 8,36 m di lunghezza, per 4,56/4,40 di larghezza, con spessori murari che vanno da 1,10 m ad 80 cm L’orientamento dell’edificio è lungo l’asse S-N, con ingresso a S. La struttura del tèmenos è caratterizzata da scarsa cura per la simmetria, mentre il tempio è un rettangolo quasi regolare.
Le ante d’ingresso misurano 1,26 m quella N e 1,24 m quella a S, e formano un breve spazio, pavimentato con lastre di basalto, che solo pro forma si può chiamare vestibolo ma del quale è evidente l’assenza di qualunque utilità che non sia solo simbolica, date le dimensioni ridotte. Un ingresso molto irregolare, di 90 cm di profondità e di larghezza diversa tra esterno e interno, immette al megaron propriamente detto, ovvero alla sala centrale dell’edificio. La sala è caratterizzata dalla presenza del bancone-sedile posto lungo le pareti lunghe, e misura 4,18 m di lunghezza per 2,64/2,50 di larghezza e 80 cm di altezza residua (tre filari di blocchi litici rimasti). L’opera complessiva dell’edificio è pseudoisodoma. Le ante dell’opistodomo misurano 70 cm a N e 75 a S. L’intera area che circonda il tempio è lastricata in grandi elementi lapidei di forma irregolare, e che compongono una pavimentazione che intendeva conferire particolare privilegio al tempio. Il fatto che di questo siano rimasti solo pochi filari dell’alzato, mentre il recinto è praticamente intatto (salvo alcune parti), in una condizione praticamente opposta a quella di Domu de Orgìa, è spiegato da Moravetti come il prodotto di spoliazioni in epoche sub-recenti, data la cura con la quale furono modellati i blocchi del megaron, mentre il recinto fu lasciato al suo posto per la sua utilità come recinto, appunto, dove ricoverare bestiame158. Ipotesi di tutta plausibilità, a fronte della quale ritengo inutile formularne altre. Si aggiunga l’assenza di indizi archeologici che possano indirizzare le analisi in un senso oppure in un altro.
I pochi filari rimasti dell’alzato del megaron permettono tuttavia di constatare, considerando soprattutto l’opera muraria, ben visibile, che la struttura non fosse a falsa volta come in un nuraghe, ma ad alzato semplice come le capanne. Moravetti propone una ricostruzione con tetto stramineo a doppio spiovente, in alcuni disegni molto ben eseguiti159. Anche in questo caso si può accettare questa soluzione, dal momento che, qui come altrove, le soluzioni possibili per la strutturazione di una copertura, erano ben note alla cultura nuragica che non abbisognava di insegnamenti (ferma restando l’ipotesi dell’assimilazione di modalità diverse ed allogene, allo stesso modo col quale potrebbe esser stato assimilato lo stesso megaron, ed insieme a questo), e che questa del doppio spiovente ligneo e stramineo fosse una soluzione logica per mura dritte non in aggetto.

Il tempio B, all’interno di un recinto molto più piccolo di quello che circondava il tempio A, è, invece, di dimensioni maggiori di quest’ultimo.
Tempio e recinto si trovano a ridosso dell’abitato, segnatamente nella periferia meridionale, verso Occidente, e ad O dell’isolato anonimo più meridionale. Il recinto è aperto ad E ma si sviluppa sull’asse SN, così come il megaron, che ha l’apertura a S. Un lungo corridoio circolare, curvo, porta all’interno del recinto e all’ingresso al tempio. Il recinto ha dunque una forma di rettangolo molto irregolare, e misura 19 m per 12. Ha due ingressi; oltre a quello citato, conformato anche da un curioso ambiente emiciclico, ha un ingresso a metà muro del recinto, nel lato orientale. Questo curioso ambiente, di forma insolita, è interno al recinto, ha forma convessa piena verso S, un ingresso ad E, cioè dall’esterno del recinto (o tèmenos), ed uno a N, dall’interno. I due ingressi al vano emiciclico sembrano esser stati aperti in tempi diversi, data la diversa opera muraria160. Questo ha pavimento in lastre basaltiche con piano irregolare, ribassato, che ha fatto pensare ad un bacino per raccolta di acque lustrali o cultuali161.
Il rettangolo del megaron è piuttosto irregolare; misura 10,20 m di lunghezza per una larghezza variabile di 5,26 m a N e 4,50 a S, dalla parte dell’ingresso. Il doppio antis è a sua volta irregolare, in pronao è curvilineo, a chiudere verso l’interno, largo 2 m all’entrata e 1,60 ca. nella parte più profonda; la profondità stessa è di 1,60 m. Anche il pronao, come l’interno della cella, ha un bancone che lo incornicia, interpretato da Moravetti come sedile162, ma che ricorda piuttosto l’appoggio per offerte di Domu de Orgìa. L’antis in opistodomo forma un vero e proprio semicerchio (corda m 3,20, saetta m 1,70163), con parti molto irregolari (m 1,20 di spessore ad E, e 94 cm ad O), per il quale una spiegazione è racchiusa nella frase di Lillìu che apre il tema di Serra Òrrios164.
L’ingresso è largo ca. 75 cm, profondo 1 m ed alto, nei cinque filari residui, 1,70 m ca.165; immette alla sala o megaron, di forma trapezoidale, la cui lunghezza massima, nel lato orientale, è di 5,10 m, e largo 2,32 all’estremità S e 2,68 a quella N. Il bancone che circonda la parete ha larghezze che vanno dai 41 ai 38 cm e manca di un concio al centro del lato E; si solleva dal piano di calpestìo 40 cm ca. Il pavimento era costituito da lastre di varie dimensioni e solo parzialmente conservatosi.
L’altezza massima residua è di 2,10 m, nella parte posteriore del tempio, e quella minima di 1,70 nell’ingresso “archivoltato”; rispettivamente di 7 e 5 filari residui. Lo spessore varia da 1,15 ad 1,10 ca. nelle pareti e 1,30/0,95 sulle ante.
L’opera muraria è pseudoisodoma, con conci sub-quadrati, disposti a filari orizzontali regolari. Mura dritte, non in aggetto. L’ipotesi della copertura è la stessa del tempio A; straminea, con travi orizzontali, a doppio spiovente.
Qui nessuna spoliazione, come nel tempio A, è avvenuta a rendere l’edificio quasi una pianta di se stesso.

Moravetti è l’unico che avanza delle ipotesi circa la sequenza di fasi edificatorie che avrebbe visto nascere prima l’ambiente emiciclico (detto B1166), poi il tempio B con relativo recinto di ridotte dimensioni, al quale, secondo lo stesso, avrebbero avuto accesso solo gli officianti il culto, ed infine tempio e recinto A, motivato da una crescita di importanza del villaggio, rispetto ad altri centri circonvicini, nonché da una relativa crescita demografica dello stesso167. Altra interpretazione è quella che vede il tempio A, col suo grande recinto, pensato e costruito per raduni cultuali cantonali, mentre il tempio B aveva una valenza ed un uso prettamente locali168. La seconda considerazione è in buona concordanza logica con la prima, ma si tratta di teorie per le quali ritengo doveroso sottolineare la base genuinamente ipotetica, dal momento che, anche in questo caso, se ne potrebbero proporre diverse altre con lo stesso grado di verosimiglianza; sia perché i dati materiali non consentono di tracciare cronologìe relative certe169, sia perché le dinamiche sociali del villaggio, insieme a quelle che lo vede in relazione con gli altri abitati della regione, meritano uno studio ben più approfondito e che non può ridursi a poche righe all’interno di pubblicazioni cariche di dubbi ulteriori (benché perfettamente legittimi), su questo come su altri aspetti170. In merito a questa seconda considerazione ritengo possibile avanzare alcune brevi ipotesi, buone (eventualmente), nient’altro che come basi ipotetiche di studio; i due edifici di culto, in relazione anche ai due diversi recinti che li contengono, sembrano avere funzioni diverse e complementari; se ammettiamo l’ingresso al recinto sacro (il tèmenos B), di esclusivo appannaggio di una classe sacerdotale, o anche di semplici officianti non appartenenti ad una casta religiosa171, e, invece, il recinto A come atto a contenere masse di fedeli (provenienti da varî villaggi; e dunque non già un tèmenos), evinciamo già due fasi diverse di un culto, o addirittura due culti diversi. In questa visione non è neppure difficile immaginare, appunto, due diversi avvenimenti cultuali, che si compivano in tempi diversi e magari anche con frequenze diverse. Una gran massa di genti riunita in nome di un qualche avvenimento periodico, ciclico, che abbisognava di un momento cultuale per essere sancito; il culto, in questo caso, è coadiuvante e, per certi versi secondario, in seno alle ragioni del raduno. Dall’altro lato, al contrario, il culto è elemento primario, dominante ed aggregante; espressione della specifica cultura del villaggio. E qui prende corpo la considerazione di Moravetti relativa allo spiazzo, volutamente non interessato da strutture abitative (o d’altra natura, ma sempre legata alla vita laica e quotidiana del villaggio), da intendersi come spazio di riunione durante i cicli cultuali esclusivi degli “Òrresini”, che si stende tra l’ultimo isolato all’estremo S dell’abitato, e l’isolato D172 (in questo caso dunque, da N verso S).
Se così fosse, dovremmo pensare logicamente ad una strutturazione, almeno di questa parte dell’abitato (cioè gli isolati D e il suo dirimpettaio anonimo meridionale), edificati in fase, secondo un progetto unitario, al recinto e, dunque e verosimilmente, al megaron B; ovvero in seguito a questo (almeno l’isolato meridionale). Quest’ultimo, in quest’ottica, rappresenta un ulteriore problema interpretativo; se ammettiamo una sua strutturazione in fase o in seguito alla costruzione del complesso sacro B, quale doveva essere la sua funzione? Oppure si deve pensare ad una nuova fase insediativa che non ebbe seguito? Tralasciando quest’ultima suggestione, probabilmente non verificabile, può forse acquistare un qualche senso la prima. Una zona legata alle attività religiose? Tralasciando anche quest’altra suggestione, verificabile quanto la prima, restiamo con il problema di conferire un quadro di omogeneità urbanistica ad un gruppo di capanne non solo molto isolato dal resto dell’abitato, ma adiacente nient’altro che ad un luogo di culto. Il problema, in questa occasione, è quello di trovare delle fasi edilizie in quest’area dell’insediamento, che possano chiarire dei rapporti urbanistici volti a compensare, nei limiti del possibile, le forti lacune stratigrafiche e dei rinvenimenti materiali, particolarmente caratteristiche di questo villaggio.
Alcuni dati non controvertibili: lo spazio tra i due isolati (ca 30 m in profondità e ca. 15 in larghezza, ovvero rispettivamente nell’asse EO e NS), è effettivamente sgombro da strutture o da resti di queste. Ad Occidente, questo spazio, è chiuso dalla contorta conformazione del tèmenos. Se non esistesse l’isolato anonimo all’estrema periferia S dell’abitato, si penserebbe nient’altro che ad un’area sacra fuori da questo, a prescindere dalle fasi edilizio-urbanistiche relative. Tuttavia, la presenza dell’ultimo isolato, così ben “posizionato”, a chiudere uno spazio di accoglienza, incastra, per così dire, queste parti dell’abitato a fasi molto vicine tra loro, se non coincidenti.
L’ingresso principale al tèmenos (a SE; ma anche quello laterale ad E), si apre verso questo spiazzo, ben sottolineato dal muro ricurvo a S. La volontà di dirigere la dinamica relativa ai movimenti concernenti il recinto sacro è piuttosto evidente; e questa dinamica ha le sue due direzioni (EO e viceversa, ovvero entrata ed uscita), da e verso questo spiazzo.
La forma del tèmenos, tuttavia, con quel muro che gira verso lo spazio di accoglienza, sembra correggere una posizione inizialmente prevista per un’altra direzione, che sembra in effetti quella dell’ingresso stesso del tempio, cioè a Meridione. Tuttavia è difficile immaginare l’edificazione di un tempio a megaron in fasi significativamente anteriori all’edificazione del tèmenos che lo contiene.
Il complesso sacro fu edificato, dati i rapporti urbanistici (tra i quali quello fondamentale resta lo spazio di accoglienza di cui si è parlato), opportunamente fuori (appena fuori) dall’abitato. Ovvero l’abitato è stato altrettanto opportunamente edificato (e in alcune sue parti, progettato), a ridosso del complesso sacro, senza inglobarlo. In quest’ultimo caso si deve considerare l’isolato adiacente all’area sacra come al più recente dell’intero complesso insediativo.
Ipotesi da scartare, quella di un insediamento successivo all’area sacra, dati i rapporti urbanistici, specialmente significati dalla forma del tèmenos, la quale è in stretto rapporto con lo spazio urbano circostante.

Questi intricati giochi di rapporti semiotici tra strutture architettoniche ed urbanistiche, tra spazi, vuoti e pieni, portano ad una sola conclusione: la contemporaneità degli edifici del villaggio, degli isolati, e dell’area sacra B173.

In questo quadro, una successiva (ma anche qui non rilevante), fase edificatoria relativa all’area sacra A, risulta perfettamente coerente benché non certa. L’importanza del villaggio, ad esempio, avrebbe potuto essere già in nuce al momento della sua stessa edificazione, e il recinto cantonale essere previsto fin dall’inizio in base ad un qualche particolare ruolo politico di Serra Òrrios, in relazione agli altri insediamenti della regione. O anche, addirittura, il complesso A avrebbe potuto non riguardare affatto altre popolazioni ed essere integrale alla popolazione stessa di Serra Òrrios, in relazione ad una complessità religiosa e di atti e di momenti cultuali come la si è vista, benché in una situazione architettonico-dinamica diversa, a Gremanu. Nulla esclude che gli Òrresini avessero bisogno di due templi e di due aree diverse per le varie fasi del loro evento religioso ciclico, o anche di più eventi religiosi accadenti in tempi diversi.

Un'ipotesi interessante sarebbe considerare il complesso A come precedente l’area sacra B, e magari anche il resto del villaggio; ferma restando la considerazione di intervalli cronologici comunque non particolarmente importanti fra quelle che si possono definire nient’altro che fasi edilizie o edilizio-urbanistiche. Un eventuale indizio di anteriorità del tempio A rispetto al suo omologo di Serra Òrrios, è la sua fattura; molto più regolare, e dunque verosimilmente relativa ad un momento più recente dell’assimilazione del modello architettonico del megaron, mentre nel tempio B si notano già importanti elementi di reinterpretazione dello stesso, come, maggiore fra tutti, l’arco concavo che sostituisce il canonico spazio quadrangolare dell’opistodomo, e che appare come una sorta di deriva verso la cultura architettonica della società d’arrivo. Il resto è dato dalla maggiore compattezza ed irregolarità della pianta, in una visione evidentemente non compresa (o non ritenuta utile), della simmetria tra le parti di un edificio. I nuragici non disconoscevano la simmetria delle forme rettilinee, non solo in pianta ma, quel che più conta, in alzato; le tombe dei giganti ne sono un esempio perfetto; è perciò considerabile che l’asimmetria delle linee rette del tempio B, più che da derive o nostalgìe possa generarsi da riflessioni prettamente architettonico-statiche, che hanno portato gli architetti Òrresini a privilegiare la stabilità e la compattezza a discapito della forma e del suo disegno (altri elementi ai quali i nuragici non erano comunque insensibili, come hanno dimostrato segnatamente a Gremanu, e a Domu de Orgìa)174.
Un elemento a sfavore di questa ipotesi è rappresentato dal tèmenos del tempio B, troppo raccolto attorno al tempio sì da far pensare a un culto privilegiato rispetto ad altre attività aggreganti, suggerite invece come primarie rispetto al culto nell'area sacra A.




S'Arcu 'e Is Forros

Il territorio

Il complesso templare si trova nel territorio comunale di Villagrande Strisaili, a ca. 7 km a NO del paese, in un non esteso altopiano chiamato Inter Abbas (in mezzo alle acque), perché chiuso a S dalla confluenza dei due affluenti del Flumendosa: il Rìo Baccu Alleri e il Rìo Isera Abbatrula; il primo discende ad Occidente (in direzione S), ed il secondo ad Oriente nella stessa direzione. Il complesso dista a ca. 300 m da entrambi i corsi d'acqua, rispettivamente a OSO dall'Isera Abbatrula e ad ENE dal Baccu Alleri. A ca. 7,5 km a S scorre il Flumendosa. Tutta questa fetta di territorio ha un'altezza molto omogenea, che rimane intorno ai 990 m, mentre scende verso gli 870/840 nel corso del Rìo Isera Abbatrula e tra gli 890/840 del Baccu Alleri.
Il complesso si trova inoltre a poco meno di 7 km a ENE da Punta La Marmora, la cima del Gennargentu.
Questo quadro territoriale è pressoché identico, dal punto di vista della scelta insediativa, ai tre finora presi in esame (a prescindere dalle altimetrìe di Serra Òrrios, molto minori, sotto i 200 m di quota); ovvero, in una visione sintetica, un territorio aperto, (altipiani), non difeso naturalmente, ad esempio in conche tra montagne, o vallate riparate da sistemi collinari che ne preservino bene la vista, o da altri modi insediativi che potremmo definire, genericamente, “difensivi”. Una situazione aperta dunque, che apre a sua volta ad interpretazioni, sull'elezione degli insediamenti, che rientrano nel quadro già accennato del BF esposto da Moravetti175 per Serra Òrrios, con sistemi integrati di villaggi ed insediamenti in un dato territorio, e da Depalmas176, col sistema insediativo dei villaggi.
Se i templi di Gremanu e, soprattutto, di Serra Òrrios erano integrali ad un villaggio, il complesso sacro di S'Arcu 'e Is Forros somiglia piuttosto al quadro monumentale di Domu de Orgìa, ovvero con caratteristiche cantonali, di luogo sacro appartenente e relativo a più comunità di villaggi. Una strutturazione, questa, per la quale non sarebbe da escludersi una connotazione di relazioni sociali che vadano oltre il solo fatto religioso, e che confermerebbe i quadri del BF suesposti.

La carta pedologica disegna una situazione abbastanza varia in merito al territorio descritto, con quattro unità di paesaggio coinvolte; 4, 7, 11, 12. Gli ultimi due sono paesaggi di rocce intrusive, come graniti e granodioriti, formatisi nel Paleozoico, e che comprendono l'area santuariale di S'Arcu 'e Is Forros, segnatamente l'unità 11, che presenta classi di capacità d'uso VII e VI, rispettivamente: VII; suoli che presentano limitazioni severissime, tali da mostrare difficoltà anche per l'uso silvo pastorale. VI; suoli che presentano limitazioni severe, tali da renderli inadatti alla coltivazione e da restringere l'uso, seppur con qualche ostacolo, al pascolo, alla forestazione o come habitat naturale. Le classi di capacità d'uso dell'unità di paesaggio 12 sono le stesse della 11. Le unità 4 e 7 fanno parte di paesaggi su metamorfiti, vale a dire scisti, scisti arenacei, argilloscisti, formatisi anche questi nel Paleozoico. Le classi di capacità d'uso dell'unità 4 sono anche queste le stesse: VII e VI, mentre quelle della 7 sono VI, VII e IV; suoli che presentano limitazioni molto severe, tali da ridurre drasticamente la scelta delle colture e da richiedere accurate pratiche di coltivazione. Un quadro molto omogeneo sotto l'aspetto paesaggistico e della capacità d'uso dei suoli, a prescindere dalla natura geologica di questi.
Le classificazioni dei suoli di questo territorio sono:

4 = unità di paesaggio “B2”
Aree con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sotto di 800-1000 m, con scarsa copertura arbustiva ed arborea.
7 = unità di paesaggio “B5”
Aree con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sopra di 800-1000 m, con scarsa copertura arbustiva ed arborea.
11 = unità di paesaggio “C4”
Aree con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sopra di 800-1000 m, con scarsa copertura arbustiva ed arborea.
12 = unità di paesaggio “C5”
Aree con forme da aspre a sub-pianeggianti al di sopra di 800-1000 m, con prevalente copertura arbustiva ed arborea.

Il territorio nel quale sorge il complesso sacro è occupato al 70, 80% dall'unità 11, un terreno nel quale era possibile solo un uso pastorale e di pascolo, e nel quale l'agricoltura sembrava essere pressoché impraticabile, per lo meno in forma intensiva. Neanche in questo caso sono presenti indizî che lascino intravvedere la possibilità di un utilizzo del suolo a scopi agricoli, previa deforestazione, com'è teorizzabile per il territorio attorno al nuraghe Arrubiu e in quelli attorno al megaron Domu de Orgìa, e relativo agli insediamenti di questi territori; ma è un'ipotesi da tenere in considerazione, non pro forma, ma per una concezione dell'insediamento come quella del BF, con comunità di villaggio, presumibilmente unite da vincoli cultuali e politici, che poteva comportare un'idea di sfruttamento del terreno e del territorio che andasse oltre le sue possibilità naturalmente offerte.

A 3 km a NO dell'area santuariale è presente un giacimento di ferro, e ad una decina di km ad Occidente dei giacimenti di rame e piombo177. Un'attività fusoria, a S'Arcu 'e Is Forros, è attestata in forni a pochi metri dai templi, segnatamente ad una ventina di metri a NE del tempio A, nei quali sono stati rinvenuti minerali metalliferi come piombo, rame e ferro178. La provenienza del metallo, fuso in questi forni, non è stata ancora accertata, ma è difficile non far convergere lo sforzo dell'edificazione di una struttura così voluminosa, come i forni a lato di due templi, senza considerare un controllo pieno dello sfruttamento dei giacimenti da parte degli abitanti degli insediamenti che, a loro volta, controllavano il culto di S'Arcu 'e Is Forros, anche se l'esempio di Gremanu179 pone problematiche per le quali servirebbero analisi ed indagini specifiche.


L'area santuariale e i templi

Area santuariale o area sacra, è forse l'unico concetto costante e coerente che si possa evincere nei siti fin qui esaminati; al di là di questo non pare si possa riscontrare una situazione che, a prescindere da elementi generali (ad esempio l'isolamento dei templi rispetto agli insediamenti, come Domu de Orgìa e S'Arcu 'e Is Forros; o l'inserimento di questi in seno ai villaggi, come Gremanu e Serra Òrrios), presenti degli elementi costanti che possano identificare categoricamente una tendenza culturale specifica. L'unico elemento costante, che è anche l'oggetto di studio di questo lavoro, è il tempio detto a megaron, il quale però presenta una serie di differenze sia nella struttura in sé, sia, cosa non meno importante, nella sua collocazione, che finiscono per rendere il monumento non già un elemento carico di una sua intrinseca specificità, ma di un ulteriore pezzo di una semantica insediativa, cultuale, religiosa e perfino politica, segnatamente relativa alla determinata situazione nella quale sorge. Neppure il tèmenos serve a dare una connotazione che sfugga a logiche locali, data la varietà dei modi nei quali era concepito, e nei quali era concepita la sua importanza e la sua funzione.

Non lontano dall'area sacra di S'Arcu 'e Is Forros sono presenti il nuraghe Lotzoracesa, monotorre, sito su un colle ed interpretato come luogo di controllo del territorio180, un altro nuraghe, Inter Abbas, anche questo edificato in alto, su un costone di roccia e, vicina, una tomba dei giganti; infine un villaggio, che sorgeva esattamente dove oggi sorge il complesso templare, il quale ha inglobato alcune capanne, e verosimilmente furono riutilizzati i conci di altre per l'edificazione degli edifici del complesso.
L'edificio maggiore è il megaron detto A, con ingresso aperto a SE, misura 17 m di lunghezza ed ha una larghezza variabile, che dipende dall'irregolarità dell'impianto, che varia dai 5,50 m in postica e i 6,50 ca. nella parte anteriore. Gli spessori delle mura variano da 1,10 a 1,50 m, relative ad un impianto murario composto da conci in granito, altri in scisto, di fattura irregolare e con zeppature posteriori. Un impianto pesantemente irregolare ma, evidentemente, non al punto da pregiudicare la statica dell'edificio, dal momento che si è conservato non meno di altri meglio costruiti. E tuttavia stupisce un impianto così mal eseguito, benché in ultima analisi coerente con la considerazione di un tipo di edificio, il megaron, inserito in seno ad una cultura che ha finito per reinterpretare il modello originario adattandolo alle proprie esigenze cultuali. L'altezza complessiva residua è di ca. 2,30/2,40 m sul muro di fondo, nella parte centrale, e di ca. 2,50/2,60 nelle mura laterali al centro, e si presentava, al momento del ritrovamento, abbastanza omogeneo, cioè senza parti crollate. La struttura, nel suo insieme, esprime possenza e compattezza. Si sono evidenziate due fasi edilizie181; nella prima l'ambiente interno era suddiviso in due stanze rettangolari, separate da un muro laterale, con ingresso formato da ante murarie aggettanti, architravato con finestra di scarico ancora parzialmente conservatasi. Resti carboniosi, ritrovati nella parte esterna dell'edificio, testimoniano di un incendio che ne ha verosimilmente distrutto la copertura straminea, ed è forse a questo evento che si deve la nuova strutturazione, improntata ad un rafforzamento dell'impianto, che consistette nell'aggiunta di altre quattro ante murarie interne atte a formare altri due ambienti, che sono quelli attualmente conservatisi. Probabilmente si deve a questa fase anche la parziale chiusura del vestibolo anteriore o pronao, con due parti murarie aggiunte alle ante del vestibolo, in pietrame di pezzatura diversa da quello della prima fase edilizia, e formante un ingresso ed una facciata rettilinea. Il muro esterno è cintato da una base in conci, interpretato sia come zoccolo di rincalzo con funzione di rafforzamento della struttura, sia come base per doni votivi182.
Dalle pareti esterne del megaron, prossime all'ingresso principale, dipartono le mura di un ampio tèmenos, di forma irregolare a doppio ellissoide (piuttosto uno pseudo-tèmenos, che è come verrà definito d'ora in avanti), che presenta ad E un elaborato ingresso, con una sorta di breve vestibolo, ad un ambiente circolare. Un altro ambiente circolare, una capanna, fu nulla meno che tagliata dal muro di questo ampio ellissoide, forse riutilizzata come ambiente adibito ad un qualche tipo di servizio relativo all'attività cultuale che si svolgeva nel tempio. A SO dello pseudo-tèmenos, adiacente e tangente ma non intersecato, sorge un altro ambiente circolare, verosimilmente un'altra capanna appartenente al villaggio abbandonato, precedente all'arco di vita dell'area santuariale, ma altrettanto probabilmente riutilizzata per scopi relativi a quest'ultima. Questo pseudo-tèmenos è cintato all'interno da un bancone-sedile. Le due ante in opistodomo, del tempio, furono innalzate con una struttura muraria diversa da quella del muro di fondo nel quale si innestano, e con uno spessore diverso che lascia scarso spazio tra un'anta e l'altra. Una simile strutturazione di due elementi, le ante posteriori che dipartono da un muro chiuso, può venire, a mio avviso, solo da una loro interpretazione come elemento di rafforzo statico dell'intera struttura, a discapito della linea di quest'ultima e della sua coerenza estetica.
Proprio in prossimità dello zoccolo esterno di rincalzo al megaron, furono rinvenuti blocchi di calcare arenaceo, con fori in funzione di contenitori di spade votive, i cui frammenti furono pure rinvenuti nello stesso livello stratigrafico, giunto a colate di piombo atto evidentemente a fissare le spade all'interno dei fori nel blocco calcareo. L'interno del tempio era pavimentato con un battuto d'argilla ed anche le incerte pareti riportano resti di intonaco; nel pavimento erano incassate delle olle e dei bacini di arenaria, per la cui funzione l'ipotesi più verosimile è quella di contenitori per acqua d'uso, evidentemente, cultuale. Dall'interno del secondo vano parte una canaletta che, attraversando lo spessore murario, continua all'esterno, delimitata da lastre ortostatiche e coperta da lastre piatte. Un interessante accorgimento che denuncia un abbondante utilizzo dell'acqua nel rituale praticato all'interno del tempio. Ai lati dell'ingresso al vano circolare orientale all'ellissoide pseudo-tèmenos, furono anche in questo caso rinvenute basi calcaree per offerte, con resti di spade fissate a queste col piombo183.

A 21 m a NE del tempio A si trovano due edifici cilindrici, agglutinati, di notevoli dimensioni, che si sono rivelati essere dei forni di fusione. Questi hanno misure leggermente diverse; il forno più grande è ad Oriente e misura 7,50 m ca. di diametro (misurato però in direzione NO/SE), mentre l'altro ha un diametro (misurato nella stessa direzione), di 5,80 m ca. l'intera struttura, misurata in direzione NE/SO è di ca. 10,50 m. L'altezza complessiva dell'intero impianto è di ca. 2 m. Il forno ad E ha una sorta di larga banchina che lo circonda quasi per intero, ben sistemata in conci piatti e lisci di granito e scisto (le pietre locali). Immediatamente all'esterno furono rinvenute scorie di lavorazione del ferro, frammenti di oggetti bronzei e scaglie di roccia calcarea trasformata in calce viva dalle temperature di fusione raggiunte dalla fornace, usata per ripulire quest'ultima dalle impurità184. Il forno “grande” ha un camino d'uscita per il fumo con diametro di 1,70 m ca., e quello “piccolo” di 1,50.
Al lato SO della struttura si trova una capanna, verosimilmente preesistente alla fornace, il cui diametro è molto simile a quello dei due forni: 6,50 m.

In un lieve pendìo a 110 m ca. dal tempio A, in direzione N, sorge il megaron B. Lungo ca. 15 m e largo ca. 5,80, la cui particolarità rispetto al modello canonico del megaron è di essere absidato, e l'abside è considerata pertinente alla prima delle tre fasi edilizie evinte per questo edificio185. In questa prima fase, la fronte dell'edificio, si presentava invece con le due ante come semplice prolungamento delle pareti laterali a formare un pronao. L'interno era così formato da due ambienti, di cui il primo era il nàos o megaron vero e proprio, di 4,65 m ca. di lunghezza e 3,50 di larghezza, e il secondo, con parete concava, lungo 4,50 e largo 3,50 ca. Questi due ambienti erano collegati da due ingressi formati da piedritti aggettanti chiusi da un'architrave.
La seconda fase vede l'aggiunta di due pesanti e ulteriori ante murarie ad obliterare le due già esistenti, chiudendole fino a formare un ingresso vero e proprio in asse con quelli interni. A queste due parti murarie furono addossate le pareti di un recinto, di forma irregolare, curvo ad O e rettilineo ad E, con ingresso a S anche questo in asse con l'ingresso del tempio. Il recinto è circondato lungo il suo perimetro da un bancone-sedile.
In questa fase, sul fondo dell'abside, fu strutturato un complesso altare, di forma convessa al centro, costruito con filari alternati di pietre diverse che restituiscono un elegante gioco cromatico186. La base è in ciotoli piatti di provenienza fluviale, su questa furono poggiati conci squadrati, in opera isodoma, di basalto marrone, sui quali poggia una fila di vulcanite arancione, sulla quale ancora un'altra fila di basalto il cui concio centrale, curvilineo e prominente, è stata scolpita una protome d'ariete in bassorilievo, fortemente stilizzata e semplificata. Poi un altro filare in vulcanite, con un concio più chiaro al centro, esattamente sopra il blocco di basalto con protome, e di forma più stretta, quadrata; e sopra un quinto filare sempre in vulcanite arancione ma con al centro cinque blocchi di basalto scuro, con scolpita un'altra protome di ariete nel blocco centrale. Al di sopra di questo era poggiato un focolare, in posizione centrale, formato a sua volta da blocchi di basalto, incastrati tra loro, cuneiformi. L'aspetto complessivo di questo elemento voleva imitare e riprodurre, stilizzata, la sommità della torre nuragica. I conci hanno profonde e ben eseguite incisioni a cuneo e sporgono dal livello dei conci sottostanti. Il focolare era raccordato alle mura laterali da filari di mensole legate da grappe di piombo colato in fori a saldarle tra loro.
Sempre all'interno di questo ambiente si rinvenne un vano-ripostiglio ricavato da lastre poste a coltello e coperte da una lastra piatta di provenienza fluviale.
Pietre come il basalto e la trachite non erano presenti sul posto ma bisognava andare a prenderle a 50 km di distanza oltre il passo Corr'e Boi, nella valle del Tirso, o in Ogliastra sulla costa, nel territorio dell'attuale Barisardo.
La terza ed ultima fase vede la ristrutturazione del recinto, con la creazione ad E, lungo il suo lato rettilineo, di due ingressi che immettono ad altrettanti ambienti, dei quali quello meridionale è rettangolare (5 m ca. di lunghezza e ca. 3,60 di larghezza, ripetendo all'incirca le misure della sala grande del megaron), mentre l'ambiente adiacente, a N, è quadrangolare (ca. 3 m per 3)187. L'aggiunta di questi ambienti deve aver modificato la forma originaria del recinto.
Tessitura muraria, uso dell'argilla per la pavimentazione, l'intonaco delle pareti interne ed esterne, sono comuni ai due megara, così da poterli ascrivere alle stesse fasi edilizie. I due templi sembrerebbero, insomma, contemporanei.

Ad un'ottantina di m a SSE dal tempio B ed a un centinaio a NE dal tempio A si trova una struttura definita insula. Si tratta di un complesso circolare formato da sette ambienti trapezoidali, piuttosto irregolari, aperti su una corte interna, e di altri ambienti aperti all'esterno. Dati i reperti rinvenuti all'interno di questi ambienti è possibile ipotizzare la funzione dell'insula come una sorta di laboratorio artigianale multiplo; vasi come i pithoi, spade in bronzo frammentarie, bottoni, lamine bronzee, bacini e vasi frammentari di varie tipologie, panelle di rame, lingotti a pelle di bue sempre in rame, altri frammenti informi di bronzo utili alla rifusione a al riutilizzo in una nuova forgiatura. In uno dei vani si trovava, al centro, un grosso bacino in trachite che presentava varî segni di fratture ricomposte con grappe di piombo fuso. In questo stesso ambiente erano presenti varie olle verosimilmente utilizzate per la raccolta dell'acqua. Vasi a bollilatte con grandi anse, brocche piriformi e askoidi con decorazioni geometriche sono altri reperti restituiti da questo vano. Un vano di piccole dimensioni è strutturato con blocchi in granito del luogo, e un bacile di trachite, al centro; nel lato SE di questo vano era aperto un foro, presumibilmente usato per lasciar defluire l'acqua prima versata nel bacile188. Sulla curva N-occidentale dell'insula si trova un ambiente rettangolare, i cui elementi interni, strutturali, e i reperti metallici rinvenuti, lo qualificano senz'altro come officina fusoria. In questo ambiente era presente un'ansa con decorazione a cerchielli189.

Esattamente a SO di questa insula se ne trova un'altra; l'insula 2, della quale tuttavia restano in alzato solo alcune capanne. I reperti rinvenuti in questa struttura, che aveva in origine una forma analoga a quella vicina a NE, sono tra i più importanti per un tentativo di datazione di questo e di altri siti analoghi, come Gremanu e Serra Òrrios, per lo meno. Accanto a questa struttura si trova una capanna che ha restituito delle brocche askoidi con fondo ad anello, di cui una decorata da linee parallele e cerchielli irregolarmente disposti; in tutto simili a quelle rinvenute negli ambienti riutilizzati dell'abitato e nei tèmenoi dei due templi, tutte decorate con motivi geometrici, da far pensare a libagioni a base di vino, probabilmente portato qui da aree più adatte alla viticoltura, nelle occasioni cicliche degli avvenimenti cultuali e delle feste.
Gli ambienti dell'insula 2 ruotavano attorno ad una corte ellittica con pavimentazione lastricata in granito, mentre le mura degli ambienti erano lambite da una banchina anche questa in granito. Nel vano detto 2 di questa seconda insula, insieme ad altri frammenti di vasi ceramici, ne è emerso uno, segnatamente un'anfora frammentaria, la cui carenatura è stata ricostruita, e nella quale era incisa un'iscrizione in scrittura filistea190. Questo tipo d'anfora è documentata dal XII, XI sec a.C., ma è presente in Occidente a partire dal IX, VIII191.

Lasciando al successivo capitolo le considerazioni in merito alle sequenze cronologiche, ciò che è opportuno notare e considerare in questo, è il quadro complessivo che emerge da questa breve lettura dell'insediamento e delle sue parti, la quale, prescindendo da alcune differenze che potremmo definire contingenziali, presenta una netta somiglianza con l'insediamento di Gremanu, ed una meno netta con Serra Òrrios.
A Gremanu alcune vene sorgive scorrevano a profondità non troppo elevate, così da poter essere captate e fatte sgorgare in pozzi dai quali poi l'acqua veniva incanalata con sistemi che, per l'epoca, dovettero significare un'innovazione ingegneristica eccezionale tale da formare probabilmente un vanto per la società che li aveva concepiti e realizzati. La società di Gremanu è una società complessa, avanzata, evoluta. I canoni di rappresentazione che le sono pertinenti sono da ricercarsi in un tenore di vita alto, in un sistema di relazioni umane e sociali complesse, che trascendono la dimensione del singolo villaggio, con un santuario monumentale, verosimilmente concepito come centro d'attrazione per diversi villaggi circonvicini, in una dimensione, dunque, di relazioni politiche cantonali. L'elemento chiave, che corrobora la visione di una società benestante, è quello al contempo meno leggibile: l'importazione di piombo da un territorio lontano come l'Iglesiente. Anche prescindendo dall'ipotesi di una possibilità di sfruttamento dei vicini giacimenti del Corr'e Boi, l'arrivo del piombo da un'area del tutto estranea a quella di Gremanu e, principalmente, così lontana, comporta per forza di cose sia un'alta capacità di spesa, sia una conoscenza ed un inserimento in relazioni e rapporti commerciali e, per tanto, politici, che non potevano avere caratteri estemporanei o “primitivi”, ma piuttosto improntati ad una certa complessità e sperimentatezza, e di ampio raggio192.
A S'Arcu 'e Is Forros mancano le vene sotterranee, ma l'acqua è nei pressi, segnatamente nei due affluenti del principale corso d'acqua che comunque non scorre troppo lontano; per tanto le attività cultuali e di lavoro (la fusione e la lavorazione dei metalli, che comporta a sua volta l'uso dell'acqua), venivano rifornite, a quanto pare, col trasporto manuale del prezioso liquido.
Il fatto che l'area sacra non fosse pertinente ad un villaggio in particolare, fa supporre la sua pertinenza cantonale, relativa a più centri vicini, e la sua complessità, considerando anche gli elementi litici non locali, utilizzati principalmente nel megaron B, testimoniano di uno sforzo economico, e dunque di una notevole possibilità di spesa, ben evidenziata dai resti delle attività fusorie, evidentemente legate al culto stesso, praticato nei templi e nei recinti sacri di S'Arcu 'e Is Forros. Vorremmo conoscere la provenienza del metallo usato e lavorato in questa località, considerando anche quello di provenienza non sarda, ma le somiglianze con Gremanu e l'intensa attività culto-fusoria non lasciano molto spazio al dubbio relativo alla considerazione dell'abbondanza di possibilità anche della, o delle, società che strutturarono e controllavano questo santuario.
Anche in questo abbiamo dei luoghi per abluzioni, ed altri di culto relativo al dono di spade votive da inserire in fori piombati dentro blocchi litici, come a Gremanu, ed anche qui le dinamiche del culto non sono da considerarsi immediatamente leggibili con una casta sacerdotale, unica autorizzata all'ingresso in determinati luoghi sacri, come le sale dei templi ad esempio, ed i fedeli fuori ad aspettare. La struttura di Gremanu, col suo sistema di ingressi, suggerisce maggiore prudenza in merito a suggestioni come questa; laddove l'ultimo spiazzo presenta due ingessi-uscite, difficilmente spiegabili con la proibizione e il divieto differenziale che discrimina tra sacerdoti e fedeli “laici”. La struttura può forse apparire caotica a noi, oggi, ma la sua razionalità strutturale e semantica è innegabile; e due aperture nell'ultimo spiazzo, quello del megaron e del tempio circolare, acquistano un senso solo se si spiegano con un flusso simultaneo. Questo, per tanto, se in una sola direzione (ingresso o uscita), è ipso facto relativo ad una moltitudine, e se nelle due direzioni (ingresso e uscita), è da intendersi allo stesso modo, con una componente di ordine e sincronìa nelle azioni, che nel primo caso non si evince.
A S'Arcu 'e Is Forros mancano elementi che facciano sospettare una simile dinamica nell'espletazione cultuale, ma l'esempio di Gremanu, null'altro che un indizio, ma significativo, apre la possibilità di un simile scenario anche a S'Arcu 'e Is Forros. In ogni caso, la somiglianza degli elementi cultuali ed architettonici, fin nei dettagli, tra i due siti, legano le due situazioni sia ad una fase cronologica contemporanea, sia ad un identico o analogo tenore economico e, verosimilmente, anche allo stesso tipo di economia che, a questo punto, definire null'altro che pastorale appare decisamente riduttivo.

Le due insule circolari di cui sopra193 presentano alcune analogie con le insule-quartieri, o isolati, di Serra Òrrios. Per lo meno con l'isolato C, quello cioè più concentrato e con gli ambienti uniti tra loro da mura in comune, non semplicemente addossati o uniti da altri muri. Piccoli ambienti stretti attorno ad uno spazio centrale e centripeto, unitamente concepiti, come le due insule di S'Arcu 'e Is Forros. Queste ultime sono concepite con una chiusura strutturale totale, cioè come circoli geometricamente conclusi, mentre l'isolato C, e segnatamente le sue parti più centrali, non presentano questa autoreferenzialità formale, ma si aprono al dialogo con le altre parti dello stesso isolato e di quelli adiacenti, oltre che alla funzionalità per i suoi abitanti e/o utilizzatori. Inoltre Serra Òrrios sembrerebbe un villaggio vero e proprio e non un luogo sacro interessato da frequentazione periodica ma non continua194. Queste differenze, pur fondamentali, non escludono ad esempio che le insule (o il modello che le concepì), non abbiano costituito un esempio proprio per gli urbanisti Òrresini, al momento di concepire in seno all'abitato stesso delle aree di lavoro, la cui natura sembra però destinata a sfuggirci. In questo caso prenderebbe corpo la ricostruzione di Moravetti195, con le sole capanne maggiori come ambienti abitativi e quelle minori, con gli ambienti quadrangolari, specialmente dell'isolato C, adibiti solo ad usi lavorativi e di rimessa196.










Tentativo di inquadramento culturale e cronologico

Approdo in Sardegna

Prescindendo dall'ampia problematica dei vettori e delle genti che nell'arco di diversi secoli, precedenti all'epoca coloniale fenicia nell'isola, sbarcarono in Sardegna, è intanto d'obbligo segnalarne la ragione, o la ragione principale, almeno in un primo lasso di tempo: i metalli e i loro approvvigionamento. Il panorama degli scambi è vasto e complesso, dal momento che rame cipriota, in forma di pelle di bue e panelle, forme egee e levantine, sono abbondantemente presenti in Sardegna197. In uno scenario precedente la colonizzazione fenicia (e Greca nell'Italia meridionale), avventurieri ricercatori, naukleroi, committenti, controparti commerciali, ospiti imbarcati, mercanti con e senza navi proprie, “nazionalità” dei naviganti qualunque fosse la loro funzione e il loro status, nelle navi e nei viaggi per mare, non definibili con semplici automatismi storiografici come “vaso greco equivale a vettore e mercante greco”, possono delinearsi solo grazie all'osservazione dell'aspetto quantitativo, in relazione ad esempio ai rinvenimenti e alle testimonianze d'altro genere, e quindi al numero e alla persistenza di queste, nel tempo, e alla loro diffusione nello spazio isolano.
Un elemento quantitativamente importante è la ceramica micenea, presente in varie parti della metà meridionale dell'isola (il rinvenimento più settentrionale si trova nel limite N del Golfo di Orosèi)198. Queste realtà archeologiche presentano i caratteri di una lunga frequentazione e di una certa confidenza nella conoscenza dei territori sardi interessati dalla stessa. Una prima fase la si può segnalare grazie ad un frammento ceramico rinvenuto a Tharros, e da un contenitore ceramico di balsami e profumi, segnatamente un alabastron, rinvenuto nel nuraghe Arrubiu in territorio di Orroli. Questi due elementi sono datati tra la fine del XV e gli inizî del XIV sec a.C.199, periodo che equivale al TEIIb200, o TEIIIa201, secondo diverse teorie. Lucia Vagnetti propone per l'alabastron di Orroli una datazione di poco più tarda: dal TEIIIa agli inizî del TEIIIb, vale a dire nel pieno XIV sec. a.C.202, considerando la relazione tra il reperto di Orroli e quello di Tharros.
L'alabastron di Orroli fu rinvenuto frammentario nello strato 3 del cortile B, relativo alle fasi di edificazione del complesso nuragico, nel battuto pavimentale della torre A, e in uno spazio laterale del corridoio che congiunge il cortile e la torre203. Il cortile, e l'intero impianto di cinque torri della complessa struttura nuragica di Orroli, sono datati alla fine del XIV sec. a.C. e dunque in pieno TEIIIb:1204.
Questi due sono tra gli elementi che rappresentano la fase più antica (accertata), della presenza di ceramica micenea in Sardegna, mentre di poco successivi sono i più cospicui rinvenimenti del nuraghe Antigòri di Sarroch, datati al TEIIIb:1205, segnatamente in un arco cronologico che va dal 1320 al 1250 a.C206, lasciando la possibilità ad altri rinvenimenti nello stesso contesto che conferiscano datazioni più alte. Più o meno databili all'alabastron dell'Arrubiu sono diversi frammenti la cui forma vascolare non appare certa ma si tratta verosimilmente di un altro alabastron, rinvenuto in territorio di Orosèi, ed anche questo datato al TEIIIb207.
Questo tipo di oggetti, come l'alabastron, appartengono al corredo funerario in ambito ellenico continentale e specialmente nella stessa Micene, mentre è assente in ambiti d'uso quotidiano e domestico. È però molto diffuso in ambito mediterraneo, come oggetto d'esportazione208. Non sarà inusitato considerarlo nel novero degli oggetti d'accompagno, o di scambio-dono, nell'ambito di attività commerciali.
Ha destato doverose perplessità, e stimoli all'indagine e all'analisi, la presenza di materiale allogeno, non sardo, in un'area interna come quella del nuraghe Arrubiu, in considerazione delle capacità di penetrazione all'interno da parte di mercanti navigatori levantini, da un lato; e delle capacità d'attrazione dei nuragici dell'interno, dall'altro. Le ipotesi e gli scenarî possibili che spieghino questa presenza sono innumerevoli, tutti plausibili e nessuno, per il momento, verificabile. L'unica considerazione che trovo doveroso fare è quella che vede nient'altro che un contatto, ovvero una conoscenza, che potrebbe essere solo unilaterale, ovvero dei nuragici del territorio di Orroli, nei confronti dei levantini e non viceversa, in considerazione di un contatto indiretto, mediato da altre genti nuragiche costiere. Ma questa è una visione, non più valida di altre che vedono gli stessi costruttori del nuraghe Arrubiu entrare in contatto diretto, come contraenti, con i mercanti egeo-levantini e non necessariamente nel loro territorio.
Più importante è, ai fini di questo discorso, porre l'attenzione sui reperti micenei rinvenuti ad Orosèi. Ovvero in un'area orientale molto vicina alla costa, e lontana dagli ambìti giacimenti metalliferi occidentali del Sulcis e dell'Iglesiente. È non lontano da qui, infatti, che sorgono i megara oggetto di questo studio.

L'orizzonte cronologico di questi rinvenimenti è più alto rispetto a quello intravisto finora relativamente ai megara, un orizzonte che in ambito nuragico abbraccia le fasi finali del BM, l'intero BR e prima degli inizî del BF209; ovvero l'ultimo periodo del Nuragico II e quasi tutto il Nuragico III210.
Prima, dunque, che avvenissero quei cambiamenti che portarono al tramonto della torre e dell'edificio nuragico in quanto struttura dominante gli insediamenti e la cultura dei nuragici; prima dei cambiamenti sociali e politici che caratterizzano il BF, elementi egei, mediati forse da vettori ciprioti ed orientali (che allora non erano ancora fenici), trovarono in Sardegna una o più ragioni per affrontare viaggi in nave, con tutte le difficoltà relative e legate ai venti, agli approdi intermedî, agli approvvigionamenti d'acqua e di cibo. Che queste ragioni convergessero principalmente nella ricerca di giacimenti metalliferi o nella compravendita di metalli in un traffico ed un commercio intrecciato di metalli comprati e venduti, lavorati altrove o in loco, rivenduti in forma di lega con l'aggiunta di altro metallo trovato altrove e lavorato in un altro altrove ancora (cioè lo stagno, trovato in giacimenti lontani dalla Sardegna, come nella zona di Huelva in Andalusia, ad esempio, fuso col rame orientale e poi rivenduto come bronzo in frammenti o in forme da trasporto con peso noto; panelle e lingotti a pelle di bue, in Sardegna), sembra assodato al punto da adombrare altre eventuali ragioni di traffico, legate o meno ai commerci marittimi. Merci di genere d'uso alimentare, di consumo quotidiano od occasionale, merci legate alla sfera del sacro e dell'incontro simposiale, molte delle quali in metallo, appunto, ma oggetti forse legati alla sfera dello scambio-dono, dell'incontro tra intermediarî, od anche soltanto fughe politiche da terre natali non più ospitali (che trovarono dimensione leggendaria in epoche storiche documentate). Tutto questo può essere passato per il Golfo di Orosèi, e a S di questo, nella costa orientale, dove gli approdi non dovevano mancare211, anche se certamente meno sperimentati che a Meridione e ad Occidente.
I due frammenti di ceramica micenea, a N e a S dell'ampio golfo orientale sardo, non raccontano storie, non parlano di ragioni precise e specifiche di contatti tra sardi e micenei o levantini, e infine sono considerati poco più che un fatto statistico, mentre l'attenzione è quasi tutta puntata sull'abbondanza del golfo meridionale, quello degli Angeli e della futura Karales; ma più che alla povertà quantitativa di questi reperti, si dovrebbe forse gettare lo sguardo proprio alla loro ubicazione. Un rapido dato statistico conforta sulla non casualità di questi rinvenimenti; è quello che considera una maggiore quantità di dati perduti rispetto ad un totale originario, che doveva per tanto essere molto più consistente. Il problema semmai è quello di identificare questo totale originario, non necessariamente fatto di alabastroi o altra ceramica da corredo, e neppure necessariamente da cercarsi sulla costa o nelle sue vicinanze. Ma anche prescindendo da questa considerazione, i due frammenti ceramici micenei, nelle coste della Sardegna orientale, indicano un contatto, un momento di conoscenza tra genti d'oltremare e sardi, e in un contesto dagli indizî precisi, difficilmente interpretabili come incontri casuali; quelle aree erano approdi attraverso i quali e dai quali far passare merci, beni, genti. Inoltre, considerando la navigabilità (anche solo in alcuni periodi storici, oltre che stagionalmente, e probabilmente solo per dei tratti), dei due grandi corsi d'acqua che sfociano a S e a N del Golfo di Orosèi212, possiamo immaginare le imbarcazioni che risalivano, fin dove possibile, queste vie d'acqua (comunque buone per il ricovero delle barche), fino all'incontro, in scali non più rintracciabili, con i contraenti locali. Anche queste sono nulla più che ipotesi, ma sulle quali insisto, sia perché degli scali, e dunque dei contatti, nel Golfo di Orosèi sono tutt'altro che inverosimili, sia perché l'idea della sola via da Meridione, per i contatti tra le genti interne, segnatamente gli abitanti dell'insediamento relativo al nuraghe Arrubiu, o altre ancora più lontane dagli scali meridionali, non è convincente. L'imponenza e l'importanza del complesso Arrubiu non si può spiegare solo con un potere locale esercitato da dubbie aristocrazie sulle genti degli insediamenti della zona, in una sorta di isolamento autosufficiente, ma è da prendersi in considerazione una capacità di spesa e di scambio non dissimile da quella delle genti delle coste meridionale e occidentale, ed un ampio raggio di azioni e vedute.

Anna Depalmas accenna ai frammenti dell'alabastron del nuraghe Arrubiu segnalando l'assenza di materiale nuragico associato, nello stesso strato213, in seno allo svolgimento delle problematiche di datazione del BM. Il materiale ceramico rinvenuto nei battuti pavimentali della torre A del nuraghe Arrubiu, sovrapposti al vespaio di pietre con le quali si è inteso, in quella zona, appianare il dislivello della roccia naturale, e dunque anche qui in una fase di edificazione (come il cortile B), si compone di “(…) tegami, olle con orlo ingrossato verso l'esterno di vario tipo, anse a nastro a gomito rovescio, ciotole, doli con anse a X (…)”214. Tuttavia, olle a tesa interna con decorazione impressa, diffuse principalmente in contesti funerarî e raramente in nuraghi a falsa volta, sono state rinvenute nei cortili del nuraghe Arrubiu, mentre altri materiali pertinenti sempre al BM sono venuti alla luce nel villaggio di Su Muru Mannu a Cabras dove, anche se fuori contesto, è stato rinvenuto il frammento di vaso miceneo di cui si è parlato215. Queste relazioni di materiali sono pertinenti al BM2, ed a fasi avanzate dello stesso, in un panorama cronologico che risale fino agli inizî del XIV sec. a.C. All'interno della tomba dei giganti di San Cosimo di Gonnosfanadiga, insieme a materiale del BM2 (di una fase media e tarda), si rinvennero delle “(…) perle di vetro blu e verdi, altre di faïence verde chiaro, dei tipi a rotellina dentata e cilindroide segmentata di importazione egea del TEIIIa:2 (…)”216; vale a dire in un arco relativamente ampio del XIV sec. a.C.; 1375-1320217, o (più ampio), 1390-1330218.
Seppur con qualche margine di incertezza si può marcare l'associazione tra la ceramica micenea, rinvenuta al nuraghe Arrubiu, al BM; principalmente nella sua seconda fase e, più in generale, la presenza micenea (intendendo il concetto di presenza micenea in senso molto lato), alla stessa fase. Questa, in ambito miceneo, non scenderebbe oltre il suddetto TEIIIa:2, con relativa datazione, che è quella della fase di costruzione dei palazzi e del sistema palatino219.
L'ordine cronologico proposto da Depalmas220 corrisponde esattamente a questa fase dell'epoca micenea, che è l'età dell'espansione della cultura di Micene dopo la caduta del sistema minoico. Queste presenze, ed a prescindere dalla loro esiguità, sembrano rappresentare un primo approccio all'esplorazione del Mediterraneo occidentale da parte di genti egee, un approccio che si trasformerà in una frequentazione quantitativamente più consistente, tempo dopo, nel panorama cronologico offerto dai ritrovamenti dell'Antigòri di Sarroch. Non ci addentreremo nella descrizione di questa realtà archeologica, della quale, in questa sede, ha senso unicamente indicare la portata quantitativa; il più consistente e significativo bacino di rinvenimenti di materiale ceramico egeo-levantino dell'isola, compreso, (fatto di non secondaria importanza), di imitazioni locali. E la sua cronologia.
Il nuraghe si trova “(…) a ridosso degli approdi del Capo di Pula e del sito di Nora, dove sorgerà più tardi un importante insediamento fenicio, e occupa una posizione strategica di primo piano trovandosi all'imbocco delle vie di penetrazione interna che conducono nella regione metallifera del Sulcis.221 Questa è già una dichiarazione d'intenti, ovvero un marcamento territoriale, evidentemente fatto all'interno di un clima di scambio economico coi nuragici. Il fatto che quell'avamposto sia stato poi occupato dai fenici non fa che dimostrare le intenzioni degli egei per le quali, senza scomodare concetti quali il colonialismo (e le problematiche concettuali che porta con sé), potremmo parlare di stabilimento, di avamposto; concetti che indicano più una intenzione d'azione futura, o prolungata nel tempo, che un fatto chiuso in sé, autoreferenziale, come lo stesso concetto di colonialismo. La mappa (che sarà da pensarsi in aggiornamento costante), dei ritrovamenti di reperti egei, non solo ceramici222, vanno dal Golfo degli Angeli a quello di Oristano (con reperti rinvenuti all'interno della piana campidanese), in quello che sarà il triangolo di fuoco della futura occupazione fenicia di queste coste. In un progresso di frequentazione che avrà un importante seguito (benché non lunghissimo se paragonato ad altre avventure, queste sì, coloniali, come appunto quella punica) e, per quel che qui importa, un importante arco cronologico223.
Dal 1300 al 1050 a.C.224, ovvero dal TEIIIb:1 al TEIIIc225; cioè in una fase già addentro al TEIIIb:1, fino alle prime fasi dell'età Protogeometrica226. In questo lungo lasso di tempo la cultura micenea ha già vissuto ascesa e caduta, apogeo e decadenza227, ed in questo quadro assumono importanza i vettori, o la nazionalità dei viaggiatori-esploratori. Questi sono da identificarsi con genti certamente egee, continentali ed insulari, ma anche, o principalmente, cipriote, con apporti levantini228. Siamo in piena bufera del XIII sec. a.C. che, anche se indirettamente, ha portato a cambiamenti anche negli equilibrî del Mediterraneo occidentale, mutando i protagonisti delle avventure esplorativo-insediative prima e prettamente coloniali in seguito. Tuttavia, considerando le ceramiche d'imitazione micenea di produzione sarda, fin dentro le fasi dell'età del ferro, oltre che del BF, non si può fare a meno di prendere in considerazione un fenomeno che è tipico (per usare un concetto banale), della Sardegna: l'endemismo, espresso in ogni suo aspetto (anche zoologico e botanico); in questo caso lo si può chiamare forse conservatorismo, delle forme, delle usanze. La componente micenea, intendendo il concetto sotto l'aspetto prettamente culturale, continua ad essere presente nel variegato panorama umano degli approdi nell'isola, in questo periodo di decadenza e crollo della propria compagine politica e culturale, ma i protagonisti, i padroni delle rotte, sono ormai cambiati.

L'impatto miceneo dovette essere notevole tra i nuragici, e può darsi che, sotto l'aspetto archeologico, la sua consistenza sia adombrata e coperta (almeno in una certa misura), dal futuro complesso di impianti coloniali fenici, che hanno così fortemente caratterizzato il panorama culturale della Sardegna antica. La presenza micenea si presenta, tuttavia, come un fenomeno non occasionale, non giunto a maturazione, eppure notevole, di difficile ed incerta qualificazione, ma non sottovalutabile e, certamente, da indagare meglio.


I megara

Nei quattro siti descritti, nei quali sono presenti i megara, i pochi materiali che si possono far risalire ad età precedenti al BF, Fe:1 sembrano, come in parte nel caso di Serra Òrrios, materiali giunti lì da altre strutture più antiche, o almeno così vengono interpretati229; mentre nei casi di Gremanu, Domu de Orgìa e S'Arcu 'e Is Forros appartengono a strutture alle quali si sono sovrapposti gli impianti presenti a tutt'oggi, o ad altri rinvenimenti dai contesti non chiari. Nonostante la lacunosa documentazione è tuttavia agevole distinguere almeno un dato: il numero dei materiali pertinenti a fasi del BF e del Fe, sono numericamente preponderanti rispetto alle sporadiche apparizioni di ceramica precedente, che non pare, in ogni caso, risalire oltre la fase 2 del BM230. Una non meglio precisata ceramica decorata “a pettine”, rinvenuta in una zona non precisata del complesso templare di Gremanu231, è da attribuirsi al BR232. I materiali precedenti le fasi BF/Fe:1 sono pertinenti al materiale di sterro degli scavi clandestini, alle zone a ridosso delle mura delle strutture, principalmente il muro settentrionale del grande recinto, e negli strati di crollo e, anche qui, distruzione da sterri clandestini del tempio circolare, che appare come precedente le fasi della struttura del tèmenos. Il restante materiale, proveniente dai pozzi, dall'esterno del megaron, dagli strati sconvolti del tempio circolare, e da altri strati decontestualizzati, appartiene ad un panorama del BF e Fe:1.
Le spade votive sembrano rappresentare un problema; l'attribuzione è al BR, ma sarebbero da considerare meglio e da separare le fasi di frequentazione dei santuarî, relativi a questa fase, e i santuarî stessi233. A Gremanu l'edificio circolare sembra aver avuto una vita precedente quella contemporanea al megaron e all'intero recinto sacro che ingloba quest'ultimo, qualunque sia stata la sua precedente funzione. Tuttavia, e proprio in virtù dei dubbi espressi circa l'attribuzione alle fasi cronologiche delle spade votive, l'assenza di un nuraghe dovrebbe far rientrare Gremanu e la sua area sacra, insieme al complesso di impianti idraulici, a fasi del BF ed oltre234. Ritengo sia utile segnalare, tra l'altro, la lunga durata nel tempo degli oggetti sacri, in virtù del carattere di conservazione delle attività religiose e rituali.
Materiali relativi al BF e al Fe:1 sono certamente apparsi nell'edificio C, absidato: olle con anse a gomito rovesciato, ciotoloni con orlo rientrante, ciotole carenate, un'ansa di brocca piriforme235. Questi materiali furono rinvenuti in quello che l'archeologo che scavò definì: “strato archeologico”, e nient'altro, senza nominare altri materiali. Il tempio C si presenta in effetti come un bacino chiuso (le uniche devastazioni le subì a causa degli sterri clandestini che, in questo caso, pare abbiano risparmiato la stratigrafia e si siano limitati al parziale abbattimento delle ante che chiudevano la vasca interna), e se la pur avara informazione significasse il concetto di una stratigrafia integra, per altro in un bacino chiuso e relativamente modesto in quanto a dimensioni, potremmo aver trovato finalmente l'ordine nel caos, per lo meno a Gremanu. Se i ciotoloni ad orlo rientrante del tempio C corrispondono agli scodelloni ad orlo rientrante allora siamo nel Fe:1; le anse a gomito rovescio e le ciotole carenate236 riportano a orizzonti precedenti, ovvero alla fase I del BF ma anche oltre; mentre la brocca piriforme è da ascriversi al Fe:1237.
Se lo strato archeologico corrisponde al momento di frequentazione primaria di questo ambiente, ovvero, come ipotizzato, ad una vasca per bagni lustrali, e le forme rinvenute rimandano all'uso dell'acqua, è forse possibile datare l'intero complesso agli orizzonti segnalati da quest'ultimo ambiente, dal momento che la sua fase edilizia coincide con quella dell'intero tèmenos, che comprende il megaron, mentre il tempio circolare è da ascriversi ad una fase anteriore.

Serra Òrrios presenta una quantità di materiale ceramico ben studiata a fronte della sua pressoché totale decontestualizzazione stratigrafica. Oltre ai citati frammenti Bonnanaro, sono “(…) Ampiamente documentati i tegami d'impasto (…) con caratteristico corpo troncoconico, talvolta munito di ansa o di presa. Accanto ad esemplari lisci spiccano numerosi frammenti, per lo più pertinenti al fondo dei recipienti, che mostrano sulla superficie interna una decorazione a pettine impresso o strisciato, peculiare qui, come altrove, di questa classe vascolare (…)”238. Numerosa ceramica non classificabile a causa del suo pessimo stato di rinvenimento; numerose tazze carenate, anse riferibili a brocche askoidi239 variamente decorate ed altro materiale datato ad un orizzonte avanzato che va dal Geometrico all'Orientalizzante; segnatamente VIII-VII sec. a.C. Questo il materiale più significativo.
Lo stato delle indagini, la scarsità quantitativa del materiale rinvenuto, sono elementi che non lasciano spazio a conclusioni. Si possono tuttavia tentare delle ipotesi o, meglio, considerazioni, per altro sulla scia di quelle già proposte da chi ha studiato i materiali, con la sola correzione relativa al dato sulla ceramica con decorazione “a pettine”. La scarsità quantitativa dei materiali è contrastata dalla sua varietà, che parla di una società vivace, attiva, in un quadro dinamico vario, improntato ad una certa ricchezza o benessere. Questo non è da considerarsi conseguenza di un lungo periodo di frequentazione, semmai suggerito dal materiale ceramico, perché sarebbe tutt'altro che inusuale un momento di benessere effimero e di breve durata. In effetti è proprio il materiale fittile, e specialmente la segnalata tipologia “a pettine”, a marcare una lunga fase di vita del villaggio, il quale appare come l'unico (fra quelli qui indagati), a non presentare superfetazioni o sovrapposizioni con fasi precedenti, come si evincono inequivocabilmente a S'Arcu 'e Is Forros, Domu de Orgìa e, anche se in una situazione resa più caotica dagli sconvolgimenti degli sterri clandestini, a Gremanu240.
L'arco di vita di Serra Òrrios si conclude attorno al VII o addirittura VI sec. a.C241. A fasi dell'età dell'ultimo periodo del BF e del pieno Fe, sono riferiti i materiali bronzei rinvenuti nel villaggio, a parte alcuni elementi non databili sia a causa dello stato troppo frammentario in cui si trovano, sia perché alcuni hanno forme che non si riscontrano in tipologie note. Un pugnale datato, grazie ad accostamenti tipologici, alla fine del X inizî IX sec. a.C.; un attacco di recipiente bronzeo datato secondo accostamenti all'VIII sec. a.C., tra gli altri. Notevole infine la presenza di numerosi braccialetti, tra i quali uno d'argento massiccio “ad ellisse aperta”, non databile242.
I pochi ma varî materiali rimasti, in un villaggio di un centinaio di capanne243, hanno fatto pensare ad un abbandono dell'abitato, in un periodo non precisato del VI sec. a.C., nel quale gli abitanti abbiano operato una scelta dei beni da portar via o, forse, da salvare.
Un arco di vita singolarmente lungo del villaggio di Serra Òrrios, ovvero una lunga fase che sembrerebbe poter iniziare nelle prime fasi del BR, stando alla ceramica decorata “a pettine”, unico indizio di una fase così alta (se si escludono i due frammenti Bonnanaro, che si possono a mio avviso serenamente attribuire ad una presenza casuale, non pertinente all'arco di vita del villaggio), una fase di 800 anni ca. sembra eccessivamente lunga, principalmente in considerazione dell'assenza di torri nuragiche pertinenti al villaggio244, le quali proprio nel BR iniziano a diffondersi nella forma evoluta detta a tholos245. Serra Òrrios invece si caratterizza, tra le altre cose, proprio per il suo disegno urbano ed insediativo riscontrato come pertinente al BF, cioè nell'epoca di abbandono della torre nuragica, assente nel villaggio o nei suoi pressi, e per il suo appartenere, secondo una teoria che trovo in tutto e per tutto da accogliere246, ad un consesso di villaggi di un determinato circondario, legati da vincoli politici e, dunque, anche cultuali. Anzi, sarebbe proprio questo aspetto, segnatamente quello del culto cantonale, come sembrerebbe dall'ampio recinto che ingloba, in posizione marginale, il tempio A.
La parte indagata del villaggio, ovvero quella qui esaminata sotto l'aspetto architettonico e urbanistico, presenta caratteri di coerenza strutturale, alla quale i due megara sono integrali, pur con qualche differente “fase interna”, a mio avviso, in seno a questa panoramica. Esiste la possibilità che la ceramica decorata “a pettine” possa appartenere ad una fase avanzata, fin nel BF247, cosa che abbasserebbe gli inizî dell'arco di vita del villaggio ad un'epoca pertinente alla sua ubicazione, all'urbanistica e all'assenza della torre nuragica come edificio primario e dominante.
Di più, su Serra Òrrios, non è possibile dire con certezza.

Materiale ceramico del BR è significativamente presente nell'altopiano di Pran'e Muru, cioè proprio nei pressi del nuraghe Arrubiu, nei diversi insediamenti, numericamente più consistenti di quelli presenti nell'altopiano nel quale sorge il grande megaron di Domu de Orgìa. Informazione che conferma una continuità di frequentazione di questo territorio, almeno fino a questo periodo, ma anche oltre, se si considera il dato stratigrafico dell'ultimo orizzonte di vita segnalato per lo stesso nuraghe248.
Anche il tempio di Domu de Orgìa, e l'ampia area compresa dal suo tèmenos, si sovrappongono ad un insediamento precedente249. I materiali pertinenti a questo (rinvenuti in una capanna poi convertita nella struttura d'accesso all'area sacra), sono piuttosto scarsi dal punto di vista del numero, e varî sotto l'aspetto tipologico: pestelli, macine, lisciatoî, denti di falcetto, schegge di ossidiana, ciotole e olle frammentarie. Tutti materiali che sembrano pertinenti ad azioni di vita domestica e di attività lavorative lontane dalla sfera sacra250. Olle con decorazioni plastiche, ciotole e vasi miniaturistici sono rinvenuti all'interno del primo vano del grande megaron, mentre il pronao dello stesso restituì una singolare serie di bronzetti figurati pertinenti alla sfera del dono votivo. Due figure mantate viste come sacerdotesse in atto di preghiera, o piuttosto in atto di svolgere il loro culto, con nelle mani degli oggetti interpretati come torce o lumi251; un personaggio complesso (come complessa dovette essere la sua lavorazione), con stola, che regge un cervo, un disco nella mano sinistra, un cane con collare che sembra azzannare il cervo, dunque una preda, ma sostenuto dal braccio destro dell'uomo, e nel disco i suoi strumenti di caccia: una corda, delle palle da fionda, uno stocco, in atto di offrire il tutto alla divinità; un arciere in veste borchiata; altre figure di offerenti e animali come una colomba, un cervo. Nel primo ambiente, all'interno del ripostiglio, è emersa una statuina di un uomo che offre un muflone portato sul collo252, un kriophoros.
Una tale quantità di bronzi figurati, di ottima fattura, sembra riportare a momenti ormai del tutto addentro al Fe:1, o al limite alle fasi finali del BF253.

A S'Arcu 'e Is Forros, nel primo vano del tempio A, nell'angolo in fondo del muro SSO si è rinvenuta un'olletta a fondo concavo, di forma aperta, infissa nel pavimento in battuto. In questo erano presenti delle lenti carboniose. Lo stesso ambiente ha restituito un non precisato frammento di spada, ed un frammento di brocca askoide con decorazioni geometriche non meglio precisate, tra collo e bordo, che rimanda ad un orizzonte che va dal BF1254 al Fe255. Altre due olle erano incassate nel pavimento del vano C. La tipologia delle olle rinvenute nei due vani non è stata specificata256. Tre asce a margini rialzati sono pertinenti ad ambienti del villaggio abbandonato sul quale si sovrappose il complesso sacro257, e che si fanno risalire ad un orizzonte non successivo al Fe:1258. In questo stesso contesto (stratigraficamente non chiaro), è presente materiale che rimanda ad orizzonti simili o più tardi, come una fibula “a sanguisuga”, frammenti bronzei figurati, e un leone bronzeo, un frammento di tripode di tipo cipriota259. Quest'ultimo, se la definizione “(…) di tipo cipriota.” denota una forma d'imitazione del modello, è ascrivibile ad orizzonti anche parecchio successivi agli inizî della circolazione del modello, alle soglie del BF, con perdurare delle sue imitazioni fino all'VIII sec. a.C260. Nell'ara del tèmenos, e della capanna tagliata in due da questo, relativa all'insediamento precedente, è possibile che i materiali si siano mescolati per cause di varia natura e di varia epoca. Le stratigrafie dell'intero sito, che non siano state sconvolte dagli sterri clandestini, non sono state chiarite neppure dagli scavi successivi; da questa situazione emerge un solo dato chiaro, già accennato agli inizî di questo paragrafo: i materiali precedenti a fasi del BF sono stati tutti rinvenuti nelle zone del villaggio sul quale si sovrapposero le strutture dell'area sacra, o in cumuli di terra di riporto o di sterro.
Le uniche strutture dalle quali provengono dati, se non chiari, almeno interessanti e forieri di ipotesi che abbiano un certo grado di serietà, sono i forni e le insule. I primi semplicemente riportano un dato incontrovertibile; il ferro che vi veniva fuso, insieme al rame e allo stagno per la lega bronzea. Tutti e tre i metalli sono attestati nell'intera zona; il rame in panelle e in pelli di bue, in varie parti del sito, lo stagno, rinvenuto nei pressi del megaron A, in frammenti di lingotto, ed il ferro in scarti di fusione in prossimità dei forni stessi. Che i forni abbiano lavorato in funzione delle attività cultuali esercitate nei templi, e dunque nelle stesse fasi cronologiche, non è in discussione, e questo, per quanto banale, è un primo dato. L'aspetto problematico è trovare elementi che rendano merito delle differenze cronologiche tra forni e megara, oppure di una loro eventuale contemporaneità. Così come sarebbe da evincere l'arco di vita dei forni stessi, e principalmente il suo inizio; ovvero se nascano agli scorci del Bronzo o se non invece con la nuova tecnologìa del ferro. La struttura non pare abbia subìto riattamenti, rifacimenti o aggiunte e, infine, non sembra vi si possano riscontrare fasi edilizie diverse. Appaiono costruiti, invece, secondo un progetto unitario pensato ed eseguito da chi aveva un'idea chiara di come dovesse usarlo e di che caratteristiche dovesse avere; prima fra tutte le dimensioni. Certamente le alte temperature utili a fondere il ferro261 richiedevano una struttura che potesse reggere quelle stesse temperature, e che non rischiasse di provocare danni a se stessa e ad altre. I due forni infatti, a prescindere dalla capanna adiacente, presumibilmente un ambiente abbandonato e, forse, riutilizzato proprio in funzione coadiuvante delle attività di fusione262, sono stati edificati lontano dagli altri edifici.
Dall'insula, struttura chiusa e per la quale non risultano notizie di sconvolgimenti clandestini, arrivano alcuni dati interessanti, benché doverosamente privi di puntualità stratigrafiche. Un vano (6), ha restituito, all'interno di uno strato carbonioso sopra il battuto pavimentale di argilla, olle di diverse dimensioni, un'impugnatura di crogiolo, vasi a bollilatte con grandi anse e brocche piriformi e askoidi con decorazioni geometriche263.
Nel vano quadrangolare scosceso, a N, numerato 15, emersero i resti di quella che fu interpretata come officina fusoria264, con una fossa circolare scavata nel granito, sul pavimento, interpretata come destinata a raccogliere la cera usata per la modellazione dei bronzi figurati, composti con la tecnica della cera persa. Da questo vano emersero, non associati, pare, ad altro materiale ceramico, una ciotola carenata con beccuccio versatoio, ed una brocca askoide, frammentaria, con ansa decorata a cerchielli concentrici, che rimandano dal Fe:1 a fasi avanzate dello stesso265.
Vorrei segnalare l'arciere bronzeo, per la sua quasi esatta somiglianza con le statue di Mont'e Prama. Gli occhi a disco, il naso in estrema stilizzazione geometrica, la posizione rigida opponente, la bocca appena accennata, benché quella dei giganti sia solo un breve segno, o non esista affatto in alcuni casi (a parte le statue abrase di quella parte)266. La statuetta è attribuita al IX sec. a.C267. Allo stesso orizzonte sono attribuite da Lillìu le grandi statue di Mont'e Prama268.

A S'Arcu 'e Is Forros, emerge un quadro di pochissime certezze, fra le quali quella di una persistenza della vita dell'area sacra fin dentro l'età del ferro, fino almeno al VI sec. a.C. Resta da trovare un possibile momento d'inizio. A di là del materiale rinvenuto nei contesti chiusi e non sconvolti delle insule, e del ferro relativo ai forni, a mio avviso esiste un elemento che potrebbe forse fornire, con salutari coefficienti di dubbio, un punto di partenza sia come dato in sé, sia come avvio per delle connessioni con altre realtà dell'area. Se l'interpretazione della cosiddetta officina fusoria (il vano 15), facente parte dell'insula 1, relativa alla fusione a cera persa delle statuine, potesse trovare conferma, allora si avrebbe un termine sicuro di datazione per quell'ambiente, dal momento che, stando alle fonti, non risulta aver subìto rifacimenti nelle sue strutture murarie. Questo ambiente è addossato all'insula propriamente detta, la quale può aver aggiunto nel tempo propaggini che ne deturpassero la forma circolare, evidentemente ricercata, ma è da dubitare che queste diverse fasi, comunque non evinte in fase di scavo269, dovettero essere particolarmente distanti fra loro. Le insule infine, non sembrano superporsi ad altre strutture preesistenti ma appaiono come edifici costruiti ex novo, e con un'accurata scelta della posizione. In effetti è proprio la relazione spaziale tra le varie strutture di quest'area a conferirne il quadro, che appare come unitario, coerente. Le strutture operano all'interno di un rapporto indiretto, nel quale ognuna svolge un compito separato ma complementare all'altra. La semiologia delle relazioni tra strutture, il dialogo direbbe un urbanista, non è casuale ma voluto, pressoché in ogni sua parte. La funzionalità reciproca, anche prescindendo dalle parti dominanti (i megara), che chiudono il dialogo e danno un senso all'intero complesso, appare come un circuito elaborato ma chiuso, e ben preparato in ogni suo aspetto. La preparazione degli elementi del culto, il lavoro, svolto nei forni e nelle officine delle insule, o il lavoro di chi officiava e preparava gli aspetti particolari del culto, il suo svolgersi, le liturgìe del raduno, la preparazione per il ciclo successivo, avevano un ritmo e un ordine che rispecchiava quello del rapporto tra le strutture.
In un quadro come questo non è comunque illecito considerare alcune delle strutture costruite in fasi precedenti (o successive), cosa che in effetti è pressoché la norma in seno a complessi architettonici (o ad insediamenti) che trascendano la dimensione del singolo edificio (la capanna, la torre nuragica semplice), e si articolino allo scopo di soddisfare funzionalità complesse, come quelle adibite ai culti.
Se consideriamo dunque i due megaron come gli elementi nati per primi, e le insule e i forni costruiti in momenti successivi, quando il culto aveva aumentato le sue esigenze, dovremmo allora, prima di chiederci quanto questi momenti siano stati distanti tra loro, quale fosse il culto, e se non fosse cambiato o anche solo leggermente mutato in quel lasso di tempo. Infatti, se la fusione dei pezzi metallici, le statuine o le spade votive, erano l'elemento materiale, e spirituale insieme, fondamentale per il rituale, si dovrebbe ipotizzare un periodo nel quale questi elementi venivano prodotti altrove, magari nei varî luoghi di provenienza dei partecipanti, e semplicemente portati a S'Arcu 'e Is Forros, ai templi, centri del raduno. Uno scenario, questo, che risponde bene, ad esempio, alle varie fasi del megaron B, che aggiunge ambienti di servizio al fine di razionalizzare una realtà di frequentazione evidentemente fattasi via via più complessa; o anche le ristrutturazioni del megaron A , delle sue parti murarie (laddove a mio avviso siano invece da attribuirsi alla prima fase architettonica l'irregolare tèmenos e l'ambiente circolare di servizio a N).
In questo scenario emerge allora un crescendo nel tempo, negli anni e nei decenni, dell'esigenza di formare una produzione permanente e stabile degli oggetti di culto; ma questo ulteriore scenario, che consegue dal primo, porta con sé l'idea di una disponibilità economica di alto livello, e di una contemporanea esigenza cultuale di livello altrettanto alto. L'investimento, non solo economico ma anche culturale, pur collettivo (ovvero relativo a più realtà insediative in un circondario territoriale), che ha portato alla costruzione di due forni e delle insule di produzione e immagazzinamento di oggetti e beni, e della loro manutenzione costante, doveva essere notevole, ma altrettanto lo era quello profuso nei due templi, così che il tempo eventualmente trascorso tra l'edificazione dei luoghi di culto propriamente detti e le loro strutture di servizio e coadiuvo non dovette essere stato lungo.
Uno scenario molto vicino al Fe:1, o addentro a quest'orizzonte, appare per tanto come il più plausibile.

Un sito come S'Arcu 'e Is Forros è di difficile interpretazione; la ricchezza espressa dai rinvenimenti, principalmente quelli dell'insula 2 e dei suoi ripostigli270, sembrano trascendere la sola dimensione religiosa e aprono scenarî legati al traffico ed al commercio, in una dinamica che vede i protagonisti nuragici di S'Arcu 'e Is Forros come contraenti di gran peso per una controparte da immaginarsi, dati i due elementi con iscrizioni, perfettamente addentro ai traffici transmarini levantini.

















Conclusioni

Pur non volendo entrare nelle problematiche relative alla natura dei traffici marittimi di epoche precedenti alla colonizzazione fenicia, è doveroso comunque sottolineare quanto già espresso; la complessità dei vettori di questi traffici, della loro cultura di provenienza, e della molteplicità delle diverse culture espresse e delle quali le navi dovevano essere cariche e ricche, non meno che delle loro merci271. Dall'ultimo scorcio del XV sec. a.C. i micenei aumentarono progressivamente la loro presenza nell'isola, e se privilegiarono gli scali meridionali e occidentali, è innegabile che sperimentarono anche quelli orientali del Golfo di Orosèi e non solo. La presenza micenea nell'isola, pur senza forzare gli scenarî, guardandoli attraverso la lente delle caratteristiche culturali (lente deformante, dal momento che ad usarla saremmo noi, oggi, a qualche millennio di distanza272), deve aver prodotto suggestioni accolte con favore, in seno all'immaginario isolano; suggestioni che dovevano essere accompagnate da merci appetite o divenute tali, in cambio di altre merci altrettanto e più ricercate, come i metalli, alla base di qualunque altra transazione che doverosamente accompagnava eventuali beni di uso domestico e alimentare, e tripodi da scambio-dono. E qui entriamo nel campo fluido ma affascinante dei processi di trasmissione culturale, nel quale la ricostruzione di una dinamica di trasmissione deve necessariamente basarsi, se vuole sopravvivere, sul dato di fatto non controvertibile, che è quello, in questo caso, materiale, dell'edificio a megaron, difficilmente spiegabile altrimenti che come una trasmissione da questa cultura, quella micenea, prima che levantina delle coste occidentali del Mediterraneo, e che evidentemente riuscì a ritagliarsi una piccola fetta di territorio, culturale oltre che, verosimilmente, reale, prima che i fenici riuscissero a costruire il loro monopolio. Il territorio dominato dal nuraghe Antigòri dovette rappresentare un avamposto fortunato ma anche tutt'altro che gratuito, dal momento che la sua occupazione, o l'occupazione di una fetta di costa dominata dal nuraghe, passò senza che si accendessero conflitti, dei quali l'indagine archeologica non trova traccia. La durata nel tempo della presenza micenea, della quale le ceramiche rappresentano nulla più che una traccia scheletrica, e un indicatore temporale preciso, dimostra un pieno accordo e sintonìa d'intenti fra i due popoli o compagini. Ed è da questa continua reciproca conoscenza, evidentemente proficua, che nacque un principio di osmosi fra culture, della quale non conosciamo i risultati dell'altra sponda dal momento che quella sparì attorno alle fasi centrali del BF, per la Sardegna, e il TEIIIc:2 per i Micenei, sigle asettiche che, oggi, adombrano eventi che i micenei hanno certamente vissuto con spavento nelle loro sedi d'origine. È il momento del tramonto della civiltà di Micene, Tirinto, Pilo273, è l'epopea cantata da Omero nell'Iliade, in altri lidi; è la fine di un mondo, i cui riverberi sulla Sardegna sono ancora tutti da capire. I megara non appartengono a questi, tuttavia, bensì ad una delle tante resistenze endemiche insulari, così serenamente evinte in merito a materiali ceramici o bronzei, la cui interpretazione dovrebbe forse cercare vie diverse da quelle della suggestione esercitata da elementi ed oggetti di prestigio. Lo scambio-dono era una liturgìa con implicazioni precise; nel momento in cui un oggetto passava di mano attraverso questa formula, acquisiva un nuovo padrone, per cui noi oggi vediamo l'elemento di fascino esercitato da un oggetto, mentre ci riferiamo al passato, ma il perdurare per decenni, quando non per secoli, della produzione dello stesso, non ha più nulla a che fare con il prestigio, ma con il possesso e l'assimilazione; l'oggetto dello scambio-dono acquisiva ipso facto un nuovo proprietario, e da quel momento non era più allogeno.
I megara, forse visti solo occasionalmente da genti nuragiche, in terre egee, da eventuali marinai, imbarcati per avventura o spirito di guadagno nelle navi dei mercanti stranieri, in modalità occasionali o sistematiche274, potevano aver suscitato un'impressione notevole, ma non più che qualunque altro elemento, architettonico e non, delle città micenee.
Le forme e gli esiti architettonici, cultuali, quelli relativi al loro inserimento nelle strutture urbane o santuariali, del megaron sardo, non parlano di una imitazione diretta, né, e tanto meno, di una qualche sorta di supervisione da parte di “specialisti” micenei; la libertà interpretativa espressa nei diversi esempi relativi al megaron isolano, denuncia invece una totale padronanza dell'uso del modello, forse ancora percepito come straniero, ma ormai del tutto assimilato. La trasmissione del modello deve esser avvenuta in terra isolana, e con modalità alle quali l'aspetto architettonico doveva essere stato affiancato, e non in ordine di primaria importanza, ad altri prettamente concettuali e culturali.

La distribuzione dei megara, in una visione verticale della carta della Sardegna, fa emergere un dato foriero di riflessioni. Questi sono localizzati esclusivamente (a parte qualche esempio come Oes, poco a S di Sassari, e quelli, guarda caso non lontani da Antigòri, di Sinnai, Serrenti, Villaspeciosa e Gonnosfanadiga, distribuiti lungo la piana del Campidano), nella fascia orientale dell'isola, ma soprattutto lontano da quell'area dell'Oristanese nella quale si concentrano i centri più importanti e più numerosi della cultura nuragica sarda. Non solo, fra le realtà più notevoli, relative al fenomeno megaron, si trovano esattamente quelle più vicine al Golfo di Orosèi; l'area di S'Arcu 'e Is Forros, Gremanu e Serra Òrrios. Domu e Orgìa si trova più a S rispetto all'area del Golfo, ma non è da escludersi anche per questa (e per i centri che gravitavano attorno al complesso del nuraghe Arrubiu), un'influenza da e verso i movimenti del Golfo, o della costa orientale.
In una situazione di contatti commerciali, fra centri nuragici, comunque intercorsi (vedi appunto il piombo di Gremanu), e culturali (il bronzetto di S'Arcu 'e Is Forros che riproduce i tratti dei giganti di Mont'e Prama), i centri orientali non dipendevano che da loro stessi e dalle loro risorse, verosimilmente non altrettanto notevoli come quelle occidentali ma comunque sufficienti a produrre una situazione di isolamento culturale autosufficiente, e nella quale, tramite gli scali del Golfo, dovevano inserirsi realtà allogene, probabilmente mutate nel tempo (dalla ceramica micenea di Orosèi all'anfora levantina di S'Arcu 'e Is Forros), ma che non ignoravano anche questa possibile alternativa commerciale, forse risultato di una saturazione della via dell'Ovest.

In attesa di studi che possano chiarire il quadro minerario antico di queste zone, comunque cariche di indizî, il commercio di metalli, resta in ogni caso, vista la realtà dei ripostigli di S'Arcu 'e Is Forros, forse più fortemente attiva grazie al mercato del ferro, l'unica ragione praticabile di una realtà che, con una visione di splendido isolamento pastorale (anche considerando le eventuali coltivazioni iniziate nel BF), non regge alla prova dell'accostamento con le realtà emerse in quest'area dell'isola.
I megaron furono una realtà cultuale e di aggregazione sia di singolo villaggio sia cantonale, di lunghissima durata, che giunge almeno al VII-VI sec. a.C., cosa che, se da un lato dimostra, ancora una volta, il carattere conservativo della cultura nuragica, dall'altro esprime e conferma l'assimilazione di un modello di architettura cultuale che, giunto ad epoche così tarde, e considerate anche le forme, riviste, reinterpretate in chiave nuragica, esprimevano ormai il loro totale assorbimento in seno ad una cultura che poteva utilizzare stilemi e contenitori allogeni, adattandoli e, principalmente, immergendoli nei propri contenuti.





Bibliografia


A. ANTONA RUJU, Arzachena. Pietre senza tempo, Sassari 2013

A. ANTONA RUJU – M. L. FERRARESE CERUTI, Il nuraghe Albucciu e i monumenti di Arzachena, in Sardegna Archeologica – Guide e itinerari, Sassari 1992

S. BAFICO, Lo scavo, in AA.VV. Il villaggio nuragico di Sant'Imbernia ad Alghero (SS) nota preliminare, in Actes du IIIe Congrès International des Études Phéniciennes et Puniques, vol. I, Tunis 1995

A. BALTOLU, Alcuni monumenti inediti dell'altopiano di Buddusò e Alà dei Sardi, in Studi Sardi XXII, Sassari 1973

P. BERNARDINI, Micenei e Fenici. Considerazioni sull'età precoloniale in Sardegna, Orientis Antiqui Collectio – XIX, Roma 1991

P. BERNARDINI, Considerazioni sui rapporti tra la Sardegna, Cipro e l'area egeo-orientale nell'età del Bronzo, Quaderni. Ministero per i BB CC e AA, Soprintendenza Archeologica di SS e CA, Cagliari 1993

P. BERNARDINI, Le torri, i metalli, il mare. Storie antiche di un'isola mediterranea, in Sardegna Archeologica – Scavi e Ricerche, Sassari 2010

G. CASALIS – G. MASPERO, Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli stati di S.M. Il re di Sardegna, Torino 1856

E. CONTU, Esterzili (Nuoro). Edificio megalitico rettangolare di Domu de Orgìa in località Cuccureddì, in Studi Sardi VIII, fasc. I-III, Sassari 1948

E. CONTU, L'architettura nuragica, par. 1 del cap. 2 Sardegna nuragica e classica, in G. PUGLIESE CARATELLI (a cura di), Ichnussa. La Sardegna dalle origini all'età classica, Milano-Verona 1981

M. CULTRARO, I Micenei, Archeologia, Storia, Società dei Greci prima di Omero, Roma 2006

A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna – Atti della XLIV Riunione Scientifica, Vol. I, Firenze 2009

A. DEPALMAS. R. T. MELIS, The Nuragic People: Their Settlements, Economic Activities and Use of the Land, Sardinia, Italy, in AA.VV. Landscapes and Societies. Selected Cases, London-New York 2010

M. A. FADDA, Fonni (NU). Località Gremanu, in Bollettino di Archeologia 13-14-15, Roma 1992

M. A. FADDA, Località Sa Carcaredda. Scavi 1991, in Bollettino di Archeologia 13-14-15, Roma 1992

M. A. FADDA, Villagrande Strisaili (Nuoro). Località S'Arcu 'e Is Forros. Il tempio a megaron, in Bollettino di Archeologia 13-14-15, Roma 1992

M. A. FADDA, Dorgali (NU) – Villaggio nuragico di “Serra Orrios”, in AA.VV., Omaggio a Doro Levi, Ozieri 1994

M. A. FADDA, Serra Orrios. Un villaggio nuragico già visitabile in territorio di Dorgali, in Archeologia Viva, n° 48, a. 1994

M. A. FADDA, Antichi Sardi purificati, in Archeologia Viva, n° 57, a. 1996, pp. 78-83

M. A. FADDA, Nuovi templi a megaron della Sardegna nuragica, in Atti del XIII congresso, 4, Forlì 1996

M. A. FADDA, Fonni (Nuoro). Località Gremanu. Complesso di templi nuragici, in Bollettino di Archeologia 43-44-45, Roma 1997

M. A. FADDA, Gli architetti nuragici di Gremanu, in Archeologia Viva, n° 63, a. 1997, pp. 70-75

M. A. FADDA, Villagrande Strisaili (Nuoro). Località S'Arcu 'e Is Forros. L'abitato nuragico intorno al tempio a megaron, in Bollettino di Archeologia 43-44-45, Roma 1997

M. A. FADDA, Nuove acquisizioni dell'architettura cultuale della Sardegna nuragica, in Etruria e Sardegna centro-settentrionale tra l'età del bronzo finale e l'arcaismo – Atti del XXI Convegno di studi Etruschi e Italici, Pisa-Roma 1998

M. A. FADDA, Operazione Gennargentu, in Archeologia Viva, n° 67, a. 1998, pp. 78-79

M. A. FADDA, Su Romanzesu: il Villaggio e lo Stregone, in Archeologia Viva, n° 69, a 1998, pp. 62-67

M. A. FADDA, Esterzili: La sacerdotessa e la mosca assassina, in Archeologia Viva, n° 88, a. 2001, pp. 62-67
M. A. FADDA, I templi a megaron della Sardegna. Un esempio particolare nel territorio di Esterzili, in M. SANGES (a cura di), in L'Eredità del Sarcidano e della Barbagia di Seulo: Patrimonio di conoscenza e di vita, Cagliari 2001, pp. 156-158
M. A. FADDA, Il Museo Archeologico Nazionale di Nuoro, in Sardegna Archeologica – Guide e itinerari, Sassari 2006

M. A. FADDA, Il Museo Speleo-archeologico di Nuoro, in Sardegna Archeologica – Guide e Itinerari, Sassari 2006

M. A. FADDA, Il villaggio santuario di Romanzesu, in Sardegna Archeologica – Guide e Itinerari, Sassari 2006

M. A. FADDA – F. POSI, Il complesso nuragico di Gremanu, in Sardegna Archeologica – Guide e itinerari, Sassari 2008

M. A. FADDA, Villagrande Strisaili, il villaggio santuario di S'Arcu 'e Is Forros, in Sardegna Archeologica – Guide e Itinerari, Sassari 2012

M. A. FADDA, S'Arcu 'e Is Forros. Antichi Sardi purificati, in Archeologia Viva, n° 145, a 2011

M. L. FERRARESE CERUTI, Un singolare monumento della Gallura. Il tempietto di Malchittu, in Archivio Storico Sardo XXIX, Padova 1964

M. L. FERRARESE CERUTI, Il villaggio nuragico di Serra Orrios, in AA.VV., Dorgali. Documenti archeologici, Sassari 1980 (F. LO SCHIAVO, Il villaggio nuragico di Serra Orrios: i bronzi; D. COCCO, Il villaggio nuragico di Serra Orrios:i materiali fittili; L. USAI, Il villaggio nuragico di Serra Orrios:i materiali litici.)

M. L. FERRARESE CERUTI, Il tempietto di Malchittu, in AA.VV., Arzachena. Monumenti archeologici. Breve itinerario, Sassari 1984

L. FODDAI, Giave. Testimonianze archeologiche, in Sardegna Archeologica – Scavi e Ricerche, Sassari 2010

G. GARBINI, I Filistei, gli antagonisti di Israele, Brescia 2012

C. GIARDINO, Sfruttamento minerario e metallurgia nella Sardegna protostorica, in Reprinted from Studies in Sardinian Archaeology III – Nuragic Sardinia and the Mycenaean World, Oxford 1987, pp. 189-219

E. LANZILLOTTA, tavole cronologiche, (insegnamento di Preistoria e Protostoria Greca, a.a. 2009/2010 Univ. Roma Tor Vergata), riferimento: http://didattica.uniroma2.it/assets/uploads/corsi/37095/TAVOLE_CRONOLOGICHE_-_27_febbraio_2008-minoici_e_micenei.pdf

G. LILLÌU, Dorgali (Nuoro): Villaggio Nuragico di Serra Orrios – Impressioni ed Osservazioni, in Studi sardi, VII, fasc. I-III, Sassari 1947

G. LILLÌU, L'oltretomba e gli dei, in NUR. D. SANNA (a cura di), La misteriosa civiltà dei Sardi, Milano 1980

G. LILLIU, Società e Cultura in Sardegna nei periodi Orientalizzante e Arcaico. Rapporti tra Sardegna, Fenici, Etruschi e Greci, in Atti del I Convegno di Studi “Un millennio di relazioni fra la Sardegna ed i Paesi del Mediterraneo, Selargius CA, 29/30 Nov. '85, Cagliari 1985

G. LILLÌU, La civiltà dei Sardi dal paleolitico all'età dei nuraghi, Torino 1988

G. LILLÌU, I Nuraghi. Torri preistoriche di Sardegna, Cagliari 2005

G. LILLÌU, La tomba di giganti di Bidistili e i templi a “megaron” della Sardegna nuragica, in Sardegna Archeologica – Scavi e Ricerche, Sassari 2010

E. LIPPOLIS – M. LIVADIOTTI – G. ROCCO, Architettura Greca. Storia e monumenti del mondo della polis dalle origini al V secolo, Milano 2007

F. LO SCHIAVO – L. VAGNETTI, Alabastron miceneo dal nuraghe Arrubiu di Orroli (Nuoro), in Atti dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filosofiche. Rendiconti – Vol. IV, Roma 1993

A. MASTINO (a cura di), La Tavola di Esterzili: il conflitto tra pastori e contadini nella Barbaria sarda: convegno di studi, 13 giugno 1992, Esterzili, Sassari 1993; (G. ORTU, Le testimonianze archeologiche di Esterzili e del suo territorio; F. LO SCHIAVO, Esterzili: ipotesi sulle risorse economiche in età nuragica; F. PILIA, Per un volume sulla Tavola di Esterzili e sulle controversie tribali nella Sardegna antica. M. BONELLO LAI, Sulla localizzazione delle sedi di Galillenses e Patulcenses Campani. E. CADONI, La tabula bronzea di Esterzili.)

A. MORAVETTI, Serra Orrios e i monumenti archeologici di Dorgali, in Sardegna Archeologica – Guide e Itinerari, Sassari 1998 (2005)

D. PULACCHINI, Il museo archeologico di Dorgali, in Sardegna Archeologica – Guide e Itinerari, Sassari 1998

A. SANNA, Nuove osservazioni su alcuni pozzi sacri della Sardegna settentrionale, in M. BRIGAGLIA (a cura di), Per una storia dell'acqua in Sardegna, in La Sardegna nel mondo Mediterraneo vol. 6, Atti del III convegno internazionale di studi geografico-storici, Sassari 1990

V. SANTONI, Il segno del potere, in NUR. D. SANNA (a cura di), La misteriosa civiltà dei Sardi, Milano 1980

V. SANTONI, I templi di età nuragica, in AA.VV. La civiltà nuragica, Milano 1990

P. F. SIMBULA, I porti del Mediterraneo in età medievale, Milano 2009

C. TUVERI, I materiali da costruzione, in Bollettino di Archeologia 13-14-15, Roma 1992


1La seconda campagna di scavo del villaggio di Serra Òrrios, ad esempio, in agro dorgalese (NU), condotta da Teodoro “Doro” Levi nel 1937, villaggio che comprende due templi a megaron indagati, fu condotta con scarsissima attenzione alla documentazione, pertanto è andata definitivamente persa la sequenza stratigrafica, inoltre, non si conoscono i reperti rinvenuti proprio nei due templi scoperti in quegli stessi anni; A. MORAVETTI, Serra Orrios e i monumenti archeologici di Dorgali, in Sardegna Archeologica – Guide e Itinerari, Sassari 1998, pp. 38-41. Nel 1986 furono compiute delle indagini relative al tempietto detto A. Nel 1992 e nel 1993 fu condotta l'ultima campagna di scavo del sito volta, tra l'altro, all'individuazione di eventuali sequenze stratigrafiche del suddetto tempio. Il quadro complessivo del sito, a parte l'indagine di una vasta parte dell'insediamento ancora da scavare, sembrerebbe, dal punto di vista dell'analisi, del tutto parziale e, finora, insufficiente ai fini di una conoscenza soddisfacente dell'insediamento.
2I templi a megaron, che compaiono all'interno o agli immediati margini di insediamenti umani, hanno forma prevalentemente parallelepìpeda (rettangolare) a differenza delle capanne degli stessi insediamenti, di forma circolare, nonché del monumento principe della cultura nuragica, la torre, anch'essa di forme circolari.
3Verosimilmente, tracciando un quadro ampio, tra il Bronzo Recente (Nuragico III), Finale (Nuragico IV Protogeometrico), rispettivamente 1350-1200 e 1200-1000 a.C., Prima età del Ferro (Nuragico IV Geometrico); 1000-730 a.C., fino ad oltre l'Orientalizzante in epoca Arcaica, cioè il VI sec. a.C. Cfr per le età del bronzo lo schema cronologico proposto da Anna Depalmas e Rita Teresa Melis in A. DEPALMAS. R. T. MELIS, The Nuragic People: Their Settlements, Economic Activities and Use of the Land, Sardinia, Italy, in AA.VV. Landscapes and Societies. Selected Cases, London-New York 2010, pp. 167-187, con schema cronologico a p. 169; o Bronzo Recente – Bronzo Finale: 1350-1150 a.C., e Bronzo Finale – Primo Ferro: 1150-950 a.C. (fino ad età Arcaica VI sec. a.C.) Cfr. A. DEPALMAS, Il Bronzo medio della Sardegna, pp. 123-130, Il Bronzo recente della Sardegna, pp. 131-140, e Il Bronzo finale della Sardegna, pp. 141-160, in Id., La Preistoria e la Protostoria della Sardegna – Atti della XLIV Riunione Scientifica, Vol. I, Firenze 2009, con schema cronologico a p. 150. Questi saranno gli schemi cronologici, relativi all'età del bronzo, ai quali si farà riferimento in questo lavoro, per quanto riguarda la cultura protostorica della Sardegna.
4I nuraghi, elemento fortemente caratterizzante la cultura protostorica sarda, ebbero, al contrario, un lungo periodo di gestazione, che produsse un'osmosi culturale diffusa in tutta l'isola. Il numero stimato, o semplicemente supposto, originario, delle torri nuragiche, era di circa 10.000; mentre adesso se ne contano circa 7.000. “I circa settemila nuraghi si sono andati costruendo attraverso molti secoli, fino ad occupare, dove più dove meno, tutto il suolo della Sardegna.” G. LILLÌU, I Nuraghi. Torri preistoriche di Sardegna, Cagliari 2005, p. 59. Nuraghi e megara sardi non ritengo appartengano alla stessa specifica categoria culturale; il megaron tuttavia, dal momento in cui è assimilato nella cultura nuragica, è inserito ai vertici della stessa, in seno alle sue architetture cultuali. La differenza di fondo è da ricercarsi pertanto nel ruolo che avevano in strutture sociali, diverse tra loro, e relative a questi edifici. Se il nuraghe era pertinente a società di villaggio monadiche, ovvero non in relazioni sistematiche con altri villaggi, si può definire come struttura che sta da sola al vertice di quella società, e dunque una struttura primaria e dominante. I megara, invece, stanno anche loro al vertice delle società che li hanno prodotti, ma si tratta di società diverse, la cui politica è cambiata, verosimilmente non più monadica ma fatta di abitati che hanno raggiunto una relazione sistematica tra loro, che possiamo a questo punto definire politica. In questa nuova temperie sociale gli edifici importanti, adibiti o meno a luoghi di culto, edifici che coprono un ruolo collettivo ed aggregante, sono diversi; tra questi sta il megaron, che si può dunque definire come edificio primario ma non dominante.
5Ne sono stati individuati diversi altri: quello del quale non restano che muri a raso nel Monte Santa Vittoria di Serri (v. nota n° 10); due in Gallura tra Arzachena e Palau (v. nota n° 16); altri: ad Orconale (Comune di Norbello, OR); Monte Cardiga (Comune di Armungia, CA); Spadula (Comune di Gonnosfanadiga, MC); Sa Tumba (Comune di Segariu, MC); Bruncu Mogumu (Comune di Sinnai, CA); Cuccureddu (Comune di Villaspeciosa, CA); Soroeni (Comune di Lodine NU).
6Il concetto di “numero originario” dei nuraghi, dato il lungo periodo che li vide protagonisti del volto paesaggistico dell'isola (ca. 1700-ca. 1100 a.C.; cfr. A. DEPALMAS R. T. MELIS, The Nuragic People: Their Settlements... op. cit. p. 171.), è da considerarsi in senso puramente indicativo e non assoluto; è lecito pensare, infatti, che mentre alcune delle più antiche di queste strutture venivano abbandonate, quando non decostruite per un eventuale reimpiego del materiale litico, altre venivano erette. Ne risulta dunque che parlare di “numero originario” potrebbe adombrare considerazioni relative a fasi di sviluppo e cambiamento in seno alla società e civiltà nuragica. Ciò detto, che il numero dei nuraghi superstiti sarebbe oggi maggiore se non fossero avvenute distruzioni anche in tempi moderni o sub-moderni è una certezza, per altro, documentata e documentabile.
7 Queste considerazioni tengono conto anche dell'eventuale futura scoperta di altri templi della stessa struttura.
8Informazioni più precise e dettagliate, circa le località e l'ubicazione dei templi, si trovano nel successivo capitolo che descrive i monumenti sotto l'aspetto tecnico, metrico e ubicativo, con analisi legate proprio alla scelta ubicativa.
9E. CONTU, Esterzili (Nuoro). Edificio megalitico rettangolare di Domu de Orgìa in località Cuccureddì, in Studi Sardi VIII, fasc. I-III, Sassari 1948, pp. 313-317.
10Si vedano in particolare: G. ORTU, Le testimonianze archeologiche di Esterzili e del suo territorio, pp. 19-26, l'Autrice dell'articolo descrive minuziosamente il territorio e l'ubicazione nello stesso dei siti d'interesse archeologico, segnalando tracce di epoche precedenti l'età nuragica, descrivendo i diversi monumenti e le strutture presenti, tra i quali il tempio ed un'osservazione sulla viabilità, con infine una conclusione relativa alla natura insediativa del territorio preso in esame; F. LO SCHIAVO, Esterzili: ipotesi sulle risorse economiche in età nuragica, pp. 27-34, una disamina sulle risorse metallifere e le relative possibilità di scambio e sfruttamento; F. PILIA, Per un volume sulla Tavola di Esterzili e sulle controversie tribali nella Sardegna antica, pp. 35-47, articolo che inizia con una spiegazione della Tavola e continua, da p. 40, con una panoramica sul patrimonio archeologico del territorio. Il tempio è descritto nelle pp. 41-44; in A. MASTINO (a cura di), La Tavola di Esterzili: il conflitto tra pastori e contadini nella Barbaria sarda: convegno di studi, 13 giugno 1992, Esterzili, Sassari 1993; nonché ibidem, riferimento: http://eprints.uniss.it/3244/1/Mastino_A_AttiCongresso_1993_Tavola.pdf
11M. A. FADDA, Esterzili: La sacerdotessa e la mosca assassina, in Archeologia Viva, n° 88, a. 2001, pp. 62-67; Id. I templi a megaron della Sardegna. Un esempio particolare nel territorio di Esterzili, in M. SANGES (a cura di), in L'Eredità del Sarcidano e della Barbagia di Seulo: Patrimonio di conoscenza e di vita, Cagliari 2001, pp. 156-158; Id. Il Museo Archeologico Nazionale di Nuoro, in Sardegna Archeologica – Guide e itinerari, Sassari 2006, pp. 73-75.
12 M. A. FADDA, Esterzili... op. cit. p. 63.
13 Ibidem, p. 64.
14G. CASALIS – G. MASPERO, Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli stati di S.M. Il re di Sardegna, Torino 1856.
15Sulla Tavola di Esterzili si veda A. MASTINO (a cura di), La Tavola di Esterzili... op. cit. con riferimento di rete in v. supra. Per una semplice visione del testo della Tavola in latino e in italiano si veda anche riferimento: http://it.wikipedia.org/wiki/Tavola_di_Esterzili
16 E. CONTU, Esterzili (Nuoro)... op. cit.
17 Ibidem, p. 313.
18 Ibidem, p. 316.
19 M. A. FADDA, Esterzili: La sacerdotessa... op. cit. p. 62.
20Si veda in proposito M. A. FADDA, Fonni (NU). Località Gremanu, in Bollettino di Archeologia 13-14-15, Roma 1992, pp. 169-170, dove non si parla, ovviamente, del megaron, scoperto quattro anni dopo; Id. Nuovi templi a megaron della Sardegna nuragica, in Atti del XIII congresso, 4, Forlì 1996, p. 262; Id. Gli architetti nuragici di Gremanu, in Archeologia Viva, n° 63, a. 1997, pp. 70-75, dove del tempio si parla specificamente solo nell'ultima pagina; Id. Fonni (Nuoro). Località Gremanu. Complesso di templi nuragici, in Bollettino di Archeologia 43-44-45, Roma 1997, pp. 242-245, qui il tempio a megaron è ben descritto e le informazioni sugli elementi che lo riguardano – compresi i reperti rinvenuti al suo interno, ma anche all'esterno, però sempre dentro il recinto che lo contiene – sono precise e puntuali, benché l'intero articolo non vada oltre un carattere descrittivo; Id. Operazione Gennargentu, in Archeologia Viva, n° 67, a. 1998, pp. 78-79, qui, nonostante la brevità, l'articolo si stacca dalla pura descrizione e avanza delle tesi relative alla cronologia dell'impianto e delle attività del monumento; M. A. FADDA – F. POSI, Il complesso nuragico di Gremanu, in Sardegna Archeologica – Guide e itinerari, Sassari 2008, da p. 37 a p. 49 è ben argomentato e descritto il recinto sacro con i tre templi che lo compongono – è da notare che il tempio circolare A è semiesterno al tèmenos, che invece contiene il tempio a megaron B, mentre il tempio absidato C ha la parete orientale tangente il muro del recinto – con riferimenti stratigrafici importanti benché incompleti.
21Le notizie relative alle indagini sono specialmente esposte nei Bollettini di Archeologia del 1992 e 1997, citati supra.
22M. L. FERRARESE CERUTI, Un singolare monumento della Gallura. Il tempietto di Malchittu, in Archivio Storico Sardo XXIX, Padova 1964, pp. 3-25.
23M. A. FERRARESE CERUTI, Il tempietto di Malchittu, in AA.VV., Arzachena. Monumenti archeologici. Breve itinerario, Sassari 1984, pp. 64-71.
24A. ANTONA RUJU – M. L. FERRARESE CERUTI, Il nuraghe Albucciu e i monumenti di Arzachena, in Sardegna Archeologica – Guide e itinerari, Sassari 1992, pp. 59-63.
25 A. ANTONA RUJU, Arzachena. Pietre senza tempo, Sassari 2013, pp. 112-119.
26M. A. FADDA, Villagrande Strisaili (Nuoro). Località S'Arcu 'e Is Forros. Il tempio a megaron, in Bollettino di Archeologia 13-14-15, Roma 1992, pp. 172-173.
27 M. A. FADDA, Antichi Sardi purificati, in Archeologia Viva, n° 57, a. 1996, pp. 78-83.
28M. A. FADDA, Villagrande Strisaili (Nuoro). Località S'Arcu 'e Is Forros. L'abitato nuragico intorno al tempio a megaron, in Bollettino di Archeologia 43-44-45, Roma 1997, pp. 255-258.
29M. A. FADDA, Il Museo Speleo-archeologico di Nuoro, in Sardegna Archeologica – Guide e Itinerari, Sassari 2006, pp. 58-60.
30M A. FADDA, Villagrande Strisaili, il villaggio santuario di S'Arcu 'e Is Forros, in Sardegna Archeologica – Guide e Itinerari, Sassari 2012, una guida per la quale evito di indicare pagine in particolare perché l'intera pubblicazione rende merito di un sito e di un insediamento che, letto e considerato nel suo insieme, può fornire chiarimenti e risposte che parti espunte e particolari non darebbero.
31 M. A. FADDA, S'Arcu 'e Is Forros. Antichi Sardi purificati, in Archeologia Viva, n° 145, a 2011, pp. 58-60.
32G. LILLÌU, Dorgali (Nuoro): Villaggio Nuragico di Serra Orrios – Impressioni ed Osservazioni, in Studi sardi, VII, fasc. I-III, Sassari 1947, pp. 241-243 (cit. a p. 242).
33M. L. FERRARESE CERUTI, Il villaggio nuragico di Serra Orrios, in AA.VV., Dorgali. Documenti archeologici, Sassari 1980, pp. 109-113.
34 F. LO SCHIAVO, Il villaggio nuragico di Serra Orrios: i bronzi, in AA.VV., Dorgali op. cit., pp. 145-154.
35 D. COCCO, Il villaggio nuragico di Serra Orrios:i materiali fittili, ibidem, pp. 115-140.
36 L. USAI, Il villaggio nuragico di Serra Orrios:i materiali litici, ibidem, pp. 141-144.
37M. A. FADDA, Dorgali (NU) – Villaggio nuragico di “Serra Orrios”, in AA.VV., Omaggio a Doro Levi, Ozieri 1994, pp. 85-89.
38M. A. FADDA, Serra Orrios. Un villaggio nuragico già visitabile in territorio di Dorgali, in Archeologia Viva, n° 48, a. 1994, p.67.
39D. PULACCHINI, Il museo archeologico di Dorgali, in Sardegna Archeologica – Guide e Itinerari, Sassari 1998, pp. 20-29.
40A. MORAVETTI, Serra Orrios... op. cit. Dei templi si parla alle pp. 55-71.
41 M. A. FADDA, Località Sa Carcaredda. Scavi 1991, in Bollettino di Archeologia 13-14-15, Roma 1992, pp. 173-175.
42 C. TUVERI, I materiali da costruzione, in Bollettino... op. cit., p. 175.
43M. A. FADDA, Nuove acquisizioni dell'architettura cultuale della Sardegna nuragica, in Etruria e Sardegna centro-settentrionale tra l'età del bronzo finale e l'arcaismo – Atti del XXI Convegno di studi Etruschi e Italici, Pisa-Roma 1998, pp. 318, 323.
44M. A. FADDA, Il Museo Speleo-archeologico di Nuoro... op. cit., pp. 54-59.
45A. BALTOLU, Alcuni monumenti inediti dell'altopiano di Buddusò e Alà dei Sardi, in Studi Sardi XXII, Sassari 1973, pp. 38-98; il tempio è descritto alle pp. 85-92.
46G. LILLÌU, L'oltretomba e gli dei, in NUR. D. SANNA (a cura di), La misteriosa civiltà dei Sardi, Milano 1980, pp. 114-116.
47 V. SANTONI, Il segno del potere, ibidem, p. 184-185.
48 G. LILLÌU, La civiltà dei Sardi dal paleolitico all'età dei nuraghi, Torino 1988, pp. 392-395.
49A. SANNA, Nuove osservazioni su alcuni pozzi sacri della Sardegna settentrionale, in M. BRIGAGLIA (a cura di), Per una storia dell'acqua in Sardegna, in La Sardegna nel mondo Mediterraneo vol. 6, Atti del III convegno internazionale di studi geografico-storici, Sassari 1990, pp. 11-17.
50L. FODDAI, Giave. Testimonianze archeologiche, in Sardegna Archeologica – Scavi e Ricerche, Sassari 2010, pp. 228-231.
51 Ibidem, p. 228.
52 M. A. FADDA, Nuove acquisizioni... op. cit. pp. 312-327.
53 M. A. FADDA, Su Romanzesu: il Villaggio e lo Stregone, in Archeologia Viva, n° 69, a 1998, pp. 62-67.
54M. A. FADDA, Il villaggio santuario di Romanzesu, in Sardegna Archeologica – Guide e Itinerari, Sassari 2006, pp. 7-49.
55E. CONTU, L'architettura nuragica, par. 1 del cap. 2 Sardegna nuragica e classica, in G. PUGLIESE CARATELLI (a cura di), Ichnussa. La Sardegna dalle origini all'età classica, Milano-Verona 1981, pp. 129-142.
56Segnatamente tra Antico Elladico I fino alla metà circa dell'AE III (2800-2500 a.C.). E. LANZILLOTTA, tavole cronologiche, (insegnamento di Preistoria e Protostoria Greca, a.a. 2009/2010 Univ. Roma Tor Vergata), riferimento: http://didattica.uniroma2.it/assets/uploads/corsi/37095/TAVOLE_CRONOLOGICHE_-_27_febbraio_2008-minoici_e_micenei.pdf
57G. LILLÌU, La tomba di giganti di Bidistili e i templi a “megaron” della Sardegna nuragica, in Sardegna Archeologica – Scavi e Ricerche, Sassari 2010, pp. 165-187.
58 V. SANTONI, I templi di età nuragica, in AA.VV. La civiltà nuragica, Milano 1990, pp. 169-180.
59Un modello architettonico perfetto per i templi a megaron sardi è quello del grande megaron di Troia II, 2600-2250 a.C.; ma questa, come fa notare Ercole Contu (v. supra), è una cronologia troppo alta perché abbia un qualche coinvolgimento coi megara sardi, per lo meno un coinvolgimento diretto. Tuttavia, se si accredita un'ascendenza esterna per il megaron sardo, allora la genesi, a prescindere dai varî passaggi della trasmissione del modello di questa forma templare, non può che essere questa. La forma lascia poco spazio a dubbi.
60E. LIPPOLIS – M. LIVADIOTTI – G. ROCCO, Architettura Greca. Storia e monumenti del mondo della polis dalle origini al V secolo, Milano 2007, pp. 1 ss.
61Segnatamente il villaggio di Serra Òrrios, altopiano del Gollei, Dorgali, Baronìa, NU; tutti gli altri templi sono staccati dall'insediamento, anche in quelli nei quali la distanza tra templi, aree sacre e villaggio è breve, com'è il caso del complesso di Gremanu (o Madau), Fonni, Barbagia di Ollolài, NU.
62 E. CONTU, L'architettura nuragica... op. cit., p. 129.
63 Qui il concetto è usato nel suo significato prettamente architettonico-urbanistico e non politico.
64 M. A. FADDA, Esterzili: La sacerdotessa... op. cit. p. 62.
65 E. CONTU, Esterzili (Nuoro)... op. cit. p. 315.
66 M. A. FADDA, Esterzili: La sacerdotessa... op. cit. p. 62.
67 Ibidem, p. 63.
68 Ibidem
69 Ibidem
70E. CONTU, Esterzili (Nuoro)... op. cit. p. 313. Una definizione paesaggistica come questa riesce a dare un'idea, ed a conferire un'immagine, più esaustiva e completa del territorio, creandone così una visione più familiare ai nostri occhi.
71 Ibidem
72 F. PILIA, Per un volume sulla Tavola di Esterzili... op. cit. p. 39.
73Si veda in proposito: M. BONELLO LAI, Sulla localizzazione delle sedi di Galillenses e Patulcenses Campani, in A. MASTINO (a cura di), La Tavola di Esterzili... op. cit. pp. 49-61.
74E. CADONI, La tabula bronzea di Esterzili, in A. MASTINO (a cura di), La Tavola di Esterzili... op. cit. pp. 95-96, considera a sua volta un rapporto fra le due popolazioni non di conflitto esasperato ed endemico ma compreso in una più pacifica dialettica di convivenza, salvo poi smentirsi alcuni capoversi più in là, nella stessa pagina e in quella successiva, dove tuttavia delinea un quadro di possibilità di analisi dell'uso del territorio, a partire dalla zona di Esterzili fino alle piane del Campidano meridionale che, pur relativo ad epoca romana (e specchio verosimile di epoche recenziori ad essa, fino a tempi moderni), può fungere da traccia per i movimenti delle popolazioni dedite a pastorizia, che vivevano negli altipiani del territorio di Esterzili nelle epoche qui prese in esame.
75La comparazione è stata condotta sulla base della Carta dei Suoli (o Pedologica) della Sardegna in scala 1:250.000, a cura del Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Cagliari (1989), con relativa tabella per i confronti sulle caratteristiche dei suoli; della carta Geologica in scala 1:200.000, A cura del Comitato per il Coordinamento della Cartografia Geologica e Geotematica della Sardegna (1996); della Carta Metallogenica in scala 1:250.000 dell'Ente Minerario Sardo (1978).
76L'unità di Paesaggio è una classificazione sia di tipo tassonomico che qualitativo di un terreno, considerato secondo una coerenza morfologica e litologica, nonché geologica. Si tratta di classificazioni di massima che intendono soddisfare esigenze conoscitive, a fini di studio, come può essere quello sulle genesi insediative antiche o, in altri ambiti, per considerare eventuali possibilità di sfruttamento del sottosuolo, o insediativo (nda).
77 v. supra
78 G. ORTU, Le testimonianze archeologiche di Esterzili... op. cit., p. 20.
79 F. PILIA, Per un volume sulla Tavola di Esterzili... op. cit. p. 42.
80 A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna... op. cit. p. 148.
81 F. PILIA, Per un volume sulla Tavola di Esterzili... op. cit. p. pp. 41-42.
82 E. CONTU, Esterzili (Nuoro)... op. cit. p. 313.
83 G. ORTU, Le testimonianze archeologiche di Esterzili... op. cit., p. 20.
84 Ibidem
85 v. supra
86 G. ORTU, Le testimonianze archeologiche di Esterzili... op. cit., p. 22.
87 F. LO SCHIAVO, Esterzili... op. cit. p. 28.
88 Ibidem, in A. MASTINO (a cura di), La Tavola di Esterzili... op. cit.
89 M. A. FADDA, Esterzili... op. cit. p. 64.
90A. MASTINO (a cura di), La Tavola di Esterzili... op. cit. specialmente M. BONELLO LAI, Sulla localizzazione... op. cit. pp. 49-61.
91 M. A. FADDA, Esterzili... op. cit. p. 67, sembra essere l'unica a fare questa considerazione.
92“Non pubblico”, in quest'ottica, non coincide con “privato”. Laddove il concetto di privato implica la sfera individuale in senso esclusivo, ovvero familiare (si pensi ai culti familiari o casalinghi), mentre, nel caso in questione, la preparazione di un culto collettivo può definirsi non pubblica in quanto si tratta di una fase, del culto inteso nella sua interezza, alla quale la collettività non è ancora tenuta, né invitata, a partecipare, e che era esclusiva degli officianti addetti al culto e/o suoi aiutanti.
93 G. LILLÌU, La tomba di giganti di Bidistili... op. cit., p. 170.
94 E. CONTU, Esterzili (Nuoro)... op. cit. p. 315, 317.
95 F. PILIA, Per un volume sulla Tavola di Esterzili... op. cit. p. 43.
96 G. LILLÌU, La tomba di giganti di Bidistili... op. cit., p. 170.
97M. A. FADDA, Esterzili... op. cit. p. 65; e Id. I templi a megaron della Sardegna. op. cit., p. 157. È possibile che qui, l'Autrice dell'articolo, non faccia altro che ripetere acriticamente la teoria di Ercole Contu, prima di formulare sue riflessioni divergenti. Si tenga presente che sia Contu che Pilia non videro le operazioni di spietramento dei vani, effettuate da Fadda più di mezzo secolo dopo che Contu stesso scrivesse le sue note.
98Ibidem, L'ipotesi delle travi lignee è poco e mal spiegata: con scarso senso della coerenza viene prima ripetuta l'osservazione di Contu (v. supra): “Un aggetto molto accentuato della muratura e la notevole quantità di grandi lastre piatte di scisto crollate all'interno del vestibolo – e, sic – fanno supporre una copertura a doppio spiovente composta dagli stessi elementi lapidei” e, poche righe dopo: “(...) lastre di copertura che originariamente venivano sostenute da travi lignee collocate a distanze regolari e a doppio spiovente”; M. A. FADDA, I templi a megaron della Sardegna. op. cit., p. 157. La prima affermazione viene giustificata dal numero elevato di lastre litiche che formavano il riempimento dei vani, evidentemente non eludibile in una descrizione della situazione precedente lo scavo; la seconda è motivata, d'altra parte, dalle impronte delle lastre di copertura che si conservavano nel battuto pavimentale (Id. Esterzili... op. cit. p. 64). La probabile spiegazione viene, dunque, dalla particolare posizione delle lastre di scisto, cadute in modo singolarmente ordinato sopra il suddetto pavimento, una sopra l'altra, di taglio, che ricordano la posizione sovrapposta che avrebbero avuto, stando alla teoria in questione, in un tetto a spiovente. La composizione delle lastre crollate a terra, tuttavia, si spiaga molto meglio con la loro posizione originaria nell'aggetto dei muri che chiudevano la falsa volta, i quali, per tanto, collassando all'interno, hanno preceduto quelle dell'eventuale copertura che, qualunque fosse la sua forma (spiovente o altro), sono crollate per ultime ed in modo meno ordinato. Giovanni Lillìu, in Id. La tomba di giganti di Bidistili... op. cit., p. 170, si associa a Maria Ausilia Fadda nell'attribuire le impronte delle lastre, crollate sul pavimento, al tetto spiovente sostenuto da travi lignee. Questa teoria è talmente contraria alle osservazioni della realtà e delle conoscenze costruttive dei nuragici da renderla impossibile da adottare.
99 E. CONTU, Esterzili (Nuoro)... op. cit. p. 317.
100 Ibidem, p. 315-316.
101 E. CONTU, Esterzili (Nuoro)... op. cit. p. 316.
102 M. A. FADDA, I templi a megaron della Sardegna. op. cit., p. 158.
103 M. A. FADDA, Gli architetti nuragici... op. cit. p.73.
104 v. supra
105 M. A. FADDA – F. POSI, Il complesso nuragico di Gremanu... op. cit. p. 31.
106 Ibidem
107 Ibidem
108 Ibidem, pp. 17, 31.
109Si veda in proposito C. GIARDINO, Sfruttamento minerario e metallurgia nella Sardegna protostorica, in Reprinted from Studies in Sardinian Archaeology III – Nuragic Sardinia and the Mycenaean World, Oxford 1987, pp. 189-219; in particolare pp. 191-192.
110 M. A. FADDA – F. POSI, Il complesso nuragico di Gremanu... op. cit. p. 25.
111Ma non l'unico esempio di sapienza ingegneristico-idraulica. Cfr. F. LO SCHIAVO – L. VAGNETTI, Alabastron miceneo dal nuraghe Arrubiu di Orroli (Nuoro), in Atti dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filosofiche. Rendiconti – Vol. IV, Roma 1993, p. 128, nota n° 12.
112È difficile concepire un limite preciso tra sfera sacra e sfera laica in seno a società pre o protostoriche. I compiti potevano variare, essere solo temporanei od occasionali, adibiti ad una particolare classe di adulti (considerati in base ad una qualche particolare categoria all’interno della società), o cambiare secondo una sorta di turni periodici come accade, ad esempio, a tutt’oggi, per le feste paesane; organizzate da una classe di età, o a turni annuali da alcune famiglie unite da un qualche tipo di vincolo arcaico.
113 M. A. FADDA, Operazione... op. cit. p. 79.
114 M. A. FADDA, Fonni (Nuoro). Località Gremanu... op. cit. p. 243.
115 Ibidem, p. 245.
116 In M. A. FADDA – F. POSI, Il complesso nuragico di Gremanu... op. cit. p. 40, si propende per il focolare rituale.
117Sia detto di passata, questo è quello che succede ad Esterzili, dove l’enorme megaron troneggia solitario in mezzo ad un nulla circondato da lontano dagli insediamenti che, con ogni probabilità, ne controllavano il culto; un tempio quasi monumento di se stesso.
118Un’ipotesi in contrasto con quella suesposta, valuterebbe l’ingresso considerando la strettoia che produce, e che si dipana per alcuni metri, e che costringeva i fedeli ad un certo ordine all’atto dell’entrata; ordine a sua volta simbolo di religioso rispetto. Il contrasto è però solo apparente; intanto perché un ingresso è ipso facto un invito implicito ad essere attraversato, e poi perché il religioso rispetto era già, probabilmente, nell’animo di chi si accingeva ad entrare in un’area sacra a partecipare di un rito. Ed infine i due punti di vista sono complementari. L’invito all’ingresso di un’area sacra comporta il prezzo implicito del rispetto debito.
119Probabilmente non è neppure corretto parlare di volontarietà specificamente mirata o meno; strutturare una simile area di aggregazione è un fatto volutamente implicito già nel concetto di area sacra e di contemporanea partecipazione dei fedeli ad un culto, il quale è collettivo ed aggregante per definizione, dal momento che conferiva (allora come oggi), significato culturale comune ad una comunità. L’azione aggregante di quest’area, per tanto (e dell’intero momento nel quale durava il culto), è implicita tanto nella struttura quanto nella volontà di edificarla.
120 v. supra
121 M. A. FADDA, Fonni (Nuoro). Località Gremanu... op. cit. p. 242.
122 Ibidem, p. 245.
123M. A. FADDA, Gli architetti nuragici... op. cit. p. 73, e M. A. FADDA – F. POSI, Il complesso nuragico di Gremanu... op. cit. pp. 28-37; qui il focolare è interpretato come fuoco rituale, tenuto costantemente acceso.
124 G. LILLÎU, Dorgali (Nuoro): Villaggio Nuragico di Serra Orrios... op. cit. p. 242.
125 M. L. FERRARESE CERUTI, Il villaggio nuragico di Serra Orrios... op. cit. pp. 109-113.
126Una visione molto dettagliata degli insediamenti del territorio di Dorgali la si può vedere in A. MORAVETTI, Serra Orrios e i monumenti archeologici di Dorgali... op. cit. pp. 5-8. Qui, tuttavia, è considerato il solo territorio amministrativo di Dorgali, mentre un'analisi completa dovrebbe riguardare anche terreni nei pressi di Lula ed Orosèi a N e di Oliena e Nuoro a OSO.
127Ibidem, pp. 26-28. L’Autore mette in relazione questo fenomeno con uno analogo attestato nel vicino territorio di Oliena.
128 Ibidem, p. 25.
129 A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna... op. cit. pp. 15, 141, 147-149.
130Le considerazioni ipotetiche, in merito a questo dilemma, sono tante; una è relativa alle torri nuragiche come elemento importante del controllo del territorio, e dunque verosimilmente relative ad un’epoca nella quale l’uso primario del nuraghe non era ancora cessato (ante BF dunque); un’altra teoria è relativa ad un’epoca che ha già visto cessare l’uso primario della torre nuragica, insieme alla sua edificazione, e nella quale il nuraghe veniva destinato ad un utilizzo diverso da quello precedente ma, data la cessazione della sua edificazione, non più fondamentale. Difficile dunque, in questo secondo caso, prendere in considerazione l’ipotesi del nuraghe come elemento attivo nella difesa e nel controllo del territorio. Un ruolo di tale importanza avrebbe rimesso la torre nuragica di nuovo in primo piano, nella cultura insediativa ed anche edificatoria delle comunità nuragiche del BF ed oltre, e si sarebbe registrata un’importante attività di rifacimenti, riattamenti e, infine, di nuove edificazioni, magari con diverse caratteristiche architettoniche. Cosa che non sembra sia avvenuta.
La teoria di Moravetti, dato il panorama culturale (prima ancora che cronologico), di comunità di villaggi non più legati ad un edificio dominante, com’era il nuraghe, e che sembra essere la caratteristica del villaggio di Serra Òrrios, tra gli altri, può a mio avviso funzionare, anzi, sembra la risposta migliore alla problematica rappresentata dall’insieme insediativo di questo territorio, ma solo a condizione che il nuraghe non giochi nessun ruolo chiave in questa organizzazione territoriale. Un articolato intreccio di relazioni politiche, invece, tra villaggi e (molto probabilmente) centri di culto cantonali, renderebbe merito non solo di una situazione insediativa nella quale un abitato come Serra Òrrios abbia potuto prosperare senza criteri difensivi di sorta, ma a sua volta spiegherebbe la fine del ruolo dominante della torre nuragica come espressione assoluta della comunità di villaggio.
131 In M. A. FADDA, Dorgali (NU) – Villaggio nuragico di “Serra Orrios”, in AA.VV. ... op. cit. pp. 85-89.
132 A. MORAVETTI, Serra Orrios e i monumenti archeologici di Dorgali... op. cit. p. 37.
133Da porsi proprio nel BF, 1200-1100 a.C., cfr. A. DEPALMAS R. T. MELIS, The Nuragic People: Their Settlements... op. cit. p.171.
134 M. L. FERRARESE CERUTI, Il villaggio nuragico di Serra Orrios... op. cit. pp. 109-113.
135 F. LO SCHIAVO, Il villaggio nuragico di Serra Orrios: i bronzi... op. cit. p.146, 151.
136 A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. p. 147.
137A. MORAVETTI, Serra Orrios e i monumenti archeologici di Dorgali... op. cit. pp. 35-40; M. L. FERRARESE CERUTI, Il villaggio nuragico di Serra Orrios... op. cit. p. 111.
138 A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. p. 147.
139M. L. FERRARESE CERUTI, Il villaggio nuragico di Serra Orrios... op. cit. p. 111; dove l’Autrice individua tre isolati mentre Alberto Moravetti in A. MORAVETTI, Serra Orrios e i monumenti archeologici di Dorgali... op. cit. pp. 38-44, ne individua quattro.
140M. L. FERRARESE CERUTI, Il villaggio nuragico di Serra Orrios... op. cit. pp. 111-112. La riflessione qui esposta è relativa al dilemma dell’evoluzione dei nuclei centripeti, degli isolati e/o gruppi di capanne dell’abitato, per aggregazioni successive, ovvero pensati ed eseguiti in un’unica soluzione. La studiosa considera che questa differenza non implichi necessariamente una “rilevante articolazione cronologica”, ma, nel primo caso, un “susseguirsi ininterrotto di interventi costruttivi (...) determinati da necessità di ordine sociale (...), quali il normale incremento demografico; e nel secondo caso: (...) si avrebbe il succedersi di fasi ed episodi edificatori distinti, conseguenti ad una diversa concezione di occupazione del suolo e di tessitura di rapporti socio-economici. Tralasciando le problematiche dei rapporti cronologici che queste due diverse evoluzioni insediative possono comportare, e che saranno sviluppate più avanti, e pur apprezzando lo scrupolo analitico di Maria Luisa Ferrarese Ceruti, a mio avviso quanto esposto può considerarsi un non-problema. È chiaro che un qualunque momento evolutivo, di cambiamento, deve essersi prodotto, prima o durante la fase di vita di Serra Òrrios, e che questo momento, qualora si possa evincere in seno a questo contesto insediativo, ha comunque avuto come risultato urbanistico l’articolazione presa in esame, ma è altrettanto chiaro che, appunto, questo è stato il risultato, evidentemente voluto se non addirittura cercato. In quest’ottica le due visioni possono persino convivere e coincidere. Tanto più se, come la stessa Ferrarese Ceruti considera, non deve necessariamente esservi stata, nel processo evolutivo della conformazione urbana di Serra Òrrios, una “rilevante articolazione cronologica”.
141 A. MORAVETTI, Serra Orrios e i monumenti archeologici di Dorgali... op. cit. pp. 35-40.
142 I dubbi di Maria Luisa Ferrarese Ceruti, v. supra, derivavano esattamente da questa situazione.
143 A. MORAVETTI, Serra Orrios e i monumenti archeologici di Dorgali... op. cit. p. 40, ed altre.
144 Ibidem, p. 39.
145 Segnatamente quelli condotti nel 1986 da Maria Ausilia Fadda.
146A. MORAVETTI, Serra Orrios e i monumenti archeologici di Dorgali... op. cit., e M. L. FERRARESE CERUTI, Il villaggio nuragico di Serra Orrios... op. cit.
147 A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. p. 147.
148 Op. cit. pp. 43-50.
149 M. A. FADDA, Dorgali (NU) – Villaggio nuragico di “Serra Orrios”, in AA.VV. ... op. cit. p. 88.
150A. MORAVETTI, Serra Orrios e i monumenti archeologici di Dorgali... op. cit. p. 44.
151 Cit. da Ibidem
152Ovvero dal XVIII sec. a.C., periodo d’inizio del BMI, e il 950 ca. a.C. momento d’inizio dell’età del IFe, ma per tanto anche più addentro a quest’ultimo periodo, dal momento che si parla di materiale ceramico di età del ferro e non dell’ultimo periodo del BF. Il BM, inoltre, è suddiviso in tre periodi, significati da diverse e relative forme e decorazioni ceramiche; a quale di questi periodi si riferisce esattamente Fadda? (Per le datazioni v. supra; in particolare A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. pp. 123-130). Un’informazione, questa relativa alle due capanne e alla stratigrafia a loro interna, talmente lacunosa da doverla tenere in considerazione nient’altro che come indizio relativo alle presenze materiali di Serra Òrrios. Quanto alla “sequenza stratigrafica”; una volta resi noti i dati di scavo sarà presa in considerazione secondo le corrette forme dello studio archeologico; fino a quel momento anche questo dato sarà poco meno che un elemento indiziario da inserire in un più vasto argomento di analisi.
153 A. MORAVETTI, Serra Orrios e i monumenti archeologici di Dorgali... op. cit. p. 45 con pianta di questa zona a p. 49.
154 Le dimensioni delle capanne, in diametri esterni ed interni, ed in mq, si possono leggere in Ibidem, p. 42.
155 Ibidem
156 Ibidem, pp. 51-54.
157In Ibidem, pp. 53-54, l’Autore discute l’interpretazione di questo vano come “tempio”, così interpretato da Fadda, per la sola presenza del vestibolo che, secondo Moravetti, non sarebbe sufficiente a conferirgli una simile attribuzione. Concordo con Moravetti nel vedervi, invece, un edificio politico-cultuale, di riunioni, nelle quali, o previamente alle quali, veniva praticato un culto. (Tutte le informazioni relative alle dimensioni degli ambienti di Serra Òrrios, con relative carte dell’abitato e degli isolati, le si può trovare in Ibidem, pp. 38-54).
158 Ibidem, p. 57.
159Ibidem, pp. 66-67, 70; le pp. 70-71 sono occupate da una complessiva e suggestiva ricostruzione dell’intero abitato, nella quale si può notare l’interpretazione come luoghi di rimessa e di servizio degli ambienti 10a e 10b dell’isolato C, nonché degli ambienti 73 e 74 dell’isolato A e 67 e 66 dell’isolato B (dal disegno, assonometrico, non si intuisce se anche l’ambiente 56 dello stesso isolato B sia interpretato come rimessa o servizio); l’interpretazione si evince dal fatto che gli ambienti non considerati capanne (ovvero abitazioni), sono privi di copertura, e ci sarebbe qui da discutere sul perché degli ambienti adibiti ad un qualche tipo di servizio non dovessero essere coperti (a meno ché questa soluzione grafica non sia semplicemente simbolica, e a meno ché non li si consideri come recinti per il ricovero di animali, interpretazione forse più plausibile ma, a mio avviso, comunque non corretta, anche a causa delle dimensioni troppo ridotte di questi ambienti per un simile compito). La copertura delle capanne, straminea, era di forma conica, ovvero spiovente, così come si suppone siano stati i megara, ovvero con copertura lignea, con pali orizzontali a sostenerla, e a doppio spiovente, lungo il rettangolo della struttura. Moravetti, considerando questa bella ricostruzione grafica, conferisce così il ruolo di abitazioni alle capanne circolari, di medio-grandi dimensioni, e lascerebbe agli ambienti più piccoli (e raccolti) un ruolo non abitativo. A parte la considerazione di cui sopra, relativa ad ambienti di servizio comunque da pensarsi coperti, considerare le capanne circolari, di medio-grandi dimensioni, come abitazioni, si spiega perfettamente con l’esigenza di maggiore spazio vitale, mentre spiega meno l’esigenza di strutturare parti dell’abitato, con tanto ordine urbanistico, solo come luoghi di servizio da lasciarsi, per giunta (almeno alcuni), non coperti.
In queste due diverse visioni della struttura urbana, si esprimono due concezioni opposte della vita, ovvero del sistema di vita, che doveva svolgersi in questo villaggio. Dalla visione di Moravetti emerge un sistema nel quale l’abitazione “privata” era il fulcro della vita, e dunque una concezione nella quale la cellula abitativa assurgeva a maggiore importanza rispetto, ad esempio, alle attività socializzanti (il lavoro; fusione e modellazione dei metalli, la concia delle pelli ecc.). L’isolamento di alcune di queste capanne, inoltre, sancirebbe questa visione intimista. Gli ambienti raccolti, di dimensioni minori, potrebbero dunque interpretarsi come luoghi di aggregazione professionale, o di semplice rimessa, per i quali sarebbe interessante capire se l’utilizzo fosse esclusivo (di alcune categorie o addirittura famiglie), oppure comune. Questi due elementi – abitazioni isolate e luoghi di lavoro in comune – sembrerebbero contrastare tra loro; una tendenza all’isolamento esclusivo della vita famigliare potrebbe aver esercitato una forte influenza anche verso l’attività lavorativa, portando anche questa a qualche forma di esclusivismo. È tuttavia possibile che in un’economìa di villaggio protostorico, le forze aggreganti, vitali per la sopravvivenza stessa della comunità, compensassero eventuali derive isolazioniste.
Un’altra visione potrebbe essere la seguente: gli ambienti minori e maggiormente raccolti, principalmente quelli che si affacciano sulle piazze coi pozzi (gli ambienti 19, 20 e 39, 40 dell’isolato B; 56, 67, 66, 64 dell’isolato C; ed anche 10, 10a e 10b dell’isolato D), sono da vedersi come luoghi di ritiro, di riposo, quasi poco più che dormitoria, mentre le capanne più isolate, con dimensioni relative, adibite ad un qualche tipo di attività di pubblica utilità. Questa lettura presuppone una visione di un tipo di vita opposto a quello poco sopra descritto; una intensa vita sociale ed aggregata, nella quale lo spazio (o meglio, il tempo), per la vita intima e ritirata, era ridotto a poche ore durante l’arco giornaliero, ed a spazi ritirati ma uniti tra loro da elementi comuni, come le piazzole, le strade e i pozzi per l’approvvigionamento idrico quotidiano. Questa visione è quella che, a mio modo di vedere, giustifica meglio lo sforzo di strutturare parti compatte dell’abitato, come ad esempio quelle dell’isolato C, e di unirne altre, come negli altri isolati.
Tuttavia, a favore della prima visione stanno le insule di S'Arcu 'e Is Forros (di cui parlerò più avanti), che si sono rivelate essere delle officine per la fusione e la forgiatura, e la cui somiglianza architettonica con questi isolati così singolari fanno supporre non solo coevità ma anche una stessa semantica funzionale.
160 A. MORAVETTI, Serra Orrios e i monumenti archeologici di Dorgali... op. cit. p. 61.
161 Ibidem
162 Ibidem, p. 65.
163 Ibidem
164 v. supra, p. 48; G. LILLÎU, Dorgali (Nuoro): Villaggio Nuragico di Serra Orrios... op. cit. p. 242.
165Durante i lavori del 1986 gli fu aggiunto un artistico architrave ricurvo. Si veda in proposito A. MORAVETTI, Serra Orrios e i monumenti archeologici di Dorgali... op. cit. pp. 63-65.
166 “(...) che mostra un’opera muraria di tipo più arcaico.”; in Ibidem, p. 69.
167 Ibidem
168 Ibidem, p. 65; e G. LILLÎU, Dorgali (Nuoro): Villaggio Nuragico di Serra Orrios... op. cit. p. 241.
169I dati esposti da Maria Ausilia Fadda, in quest’ottica, contribuiscono più a confondere che a risolvere i quesiti in questione; Id., Dorgali (NU) – Villaggio nuragico di “Serra Orrios”, in AA.VV. ... op. cit. pp. 85-89, e specialmente p. 87, dal momento che le informazioni ivi contenute, del tutto incomplete, non sono accompagnate da nessun dato archeologico oggettivo e verificabile.
170 Fatti salvi i diritti di uno studioso di avanzare qualunque ipotesi ritenga corretta.
171 v. supra
172 A. MORAVETTI, Serra Orrios e i monumenti archeologici di Dorgali... op. cit. p. 69.
173Considerare alcune capanne come considerevolmente più antiche della fase complessiva villaggio-aree sacre, non cambia il quadro, dal momento che sono state ben inglobate nell’abitato successivo; così come non lo cambiano eventuali fasi precedenti di alcune altre strutture come, ad esempio, il vano B1 dentro il tèmenos B v. ibidem, per le stesse ragioni. Ambienti particolarmente anteriori al villaggio così come appare, con la sua coerenza urbanistica, potrebbero, al limite, rendere merito di elementi materiali relativi a fasi molto antiche della cultura nuragica, come le ceramiche Bonnanaro segnalate da Fadda, o quelle del BM non meglio spiegate dalla stessa. Ma nulla più. Sempre che non abbiano provenienza esterna all’abitato. Probabilmente l’intuizione più corretta fu quella di Maria Luisa Ferrarese Ceruti, quando considerava non vi fosse una “rilevante articolazione cronologica” tra le parti dell’abitato, tra gli isolati; la stessa considerazione è da farsi, a mio avviso, anche per l’area sacra B in relazione al resto del villaggio, o quanto meno della sua parte maggiore.
174Una certa irregolarità ed asimmetria delle forme e dunque dell’estetica, può indurre ad errori d'interpretazione noi osservatori odierni, abituati all’ossessione della simmetria e dell’aspetto. Questa irregolarità può apparire, pertanto, come un chiaro indizio di primitivismo delle forme, mentre probabilmente appartiene ad una visione (anche qui non senza un qualche grado di ossessione opposta), prettamente utilitaristica delle stesse. Nel disordine formale di certe strutture nuragiche, a ben guardare, non si coglie un solo elemento che non abbia crismi di funzionalità; per questo, probabilmente, le due ante dei megara (in opistodomo specialmente, ma anche in pronao – S’Arcu ‘e Is Forros, Gremanu), hanno faticato a trovare un loro spazio nel razionalismo costruttivo dei nuragici e, nel caso del tempio B di Serra Òrrios, sembra sia stato interpretato ed usato, implementandolo di materiale (e formando un elemento curvilineo, concavo), come elemento di maggiore stabilità ed equilibrio statico. Il caso di Domu de Orgìa a sua volta riflette, nel suo sincretismo architettonico, l'evoluzione di questa forma allogena: un elaborato aggetto in lastre di scisto, sulla pianta del megaron.
175A. MORAVETTI, Serra Orrios e i monumenti archeologici di Dorgali... op. cit. pp. 26-28. v. supra
176A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. p. 147. v. supra
177Altri giacimenti di questi metalli sono presenti nell'arco di meno di una decina di km dall'area sacra.
178M. A. FADDA, Villagrande Strisaili, il villaggio santuario di S'Arcu 'e Is Forros... op. cit. pp. 23-25.
179Relativo all'importazione del piombo dall'Iglesiente. v. supra
180 M. A. FADDA, Villagrande Strisaili, il villaggio santuario di S'Arcu 'e Is Forros... op. cit. pp. 6-8.
181Ibidem, p. 11-14.
182Ibidem, p. 14.
183Ibidem, p. 16.
184Ibidem, pp. 23-25.
185Ibidem, pp. 26-36.
186In attesa dei dati di scavo, che chiariranno certamente meglio l'attribuzione dell'altare a questa seconda fase, è lecito prendersi la libertà di contestare questa sequenza di lunghe fasi per un'abside ed un altare che pare si sia fatto attendere a lungo dalla prima, e considerare non tanto la semplice coincidenza delle fasi edilizie per l'altare e lo spazio nel quale ha trovato posto, ma la contemporanea progettazione di questo piccolo complesso, integrante struttura architettonica e cultuale-votiva. Cfr. Ibidem, pp. 26-35.
187Ibidem, pp. 26-35; Id., Antichi Sardi purificati... op. cit. pp. 63-64.
188Una descrizione dettagliata di quest'insula e dei reperti ivi rinvenuti, nonché della sua strutturazione architettonica, la si può trovare in M. A. FADDA, Villagrande Strisaili, il villaggio santuario di S'Arcu 'e Is Forros... op. cit. pp. 36-49.
189L'insula è stata interpretata anche come luogo d'abitazione, segnatamente per un gruppo familiare, probabilmente in base al fatto che una struttura così chiusa potesse essere pertinente solo ad un gruppo legato da stretti legami di parentela; in M. A. FADDA, Villagrande Strisaili... op. cit. p. 37, personalmente però ritengo improbabile questa attribuzione abitativa dell'insula, in quanto non è coerente con l'assenza di un villaggio abitato all'epoca delle attività cultuali dei templi, nonché per il fatto che i materiali rinvenuti al suo interno rimandano ad un'attività incompatibile con una vita domestica.
190Studiata da Giovanni Garbini; G. GARBINI, I Filistei, gli antagonisti di Israele, Brescia 2012, p. 296, in M. A. FADDA, Villagrande Strisaili, il villaggio santuario di S'Arcu 'e Is Forros... op. cit. pp. 54, 103. L'anfora è classificata come cananea in Ibidem, ma la sua tipologia, considerando l'assenza del collo con il solo bordo, riporta ad orizzonti fenici, e dunque più tardi.
191Ibidem
192È stata ipotizzata, per l'intera isola, e per un'epoca non precisata (in merito alla descrizione del santuario di Gremanu), una situazione di siccità, che avrebbe portato gli abitanti dei varî villaggi a cercare acque ipogeiche ed a costruire santuarî legati al culto di un liquido che vedevano via via sparire dalla loro vista. In M. A. FADDA – F. POSI, Il complesso nuragico di Gremanu... op. cit. p. 39. Un simile scenario contrasta fortemente non solo con l'ipotesi, documentata da dati paleobotanici, della messa a coltura intensiva anche di terreni precedentemente non interessati da questa attività, si veda A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna... op. cit. p. 148, laddove la carenza delle precipitazioni difficilmente avrebbe potuto permettere queste nuove attività agricole, ma contrasta anche, e principalmente, con l'esistenza stessa di un insediamento complesso e ricco come Gremanu (e non solo di Gremanu). Il culto delle acque, anziché essere indice di carenza d'acqua appare, al contrario, come indicatore di abbondanza di questa. Un sito come S'Arcu 'e Is Forros lo conferma; a meno di vene sotterranee, l'acqua era usata, negli offici cultuali e nella fortemente documentata attività della lavorazione dei metalli, in un contesto nel quale erano presenti dei corsi d'acqua che, evidentemente e per lungo tempo, dovevano essere ben carichi. In M. A. FADDA, Villagrande Strisaili, il villaggio santuario di S'Arcu 'e Is Forros... op. cit., non è presente nessun accenno a questa precedente considerazione.
193Per l'insula 2 cfr. Ibidem, pp. 49-54.
194Benché proprio l'attività delle insule, testimoniata dalla ricchezza dei reperti che hanno restituito, lasciano aperta la porta ad ipotesi di una presenza costante ed assidua, se non addirittura quotidiana, di lavoratori del metallo, di fabbri fusori e forgiatori, magari adibiti a questo scopo e per questo “pagati” e ricompensati, anche se, stando così le cose, questi fabbri-sacerdoti, a meno di non ipotizzare una sorta di celibato sacro, è verosimile che vivessero lì con le loro famiglie e non da soli, o che, infine, una presenza costante avesse finito per creare un nucleo abitativo, forse non del tutto da escludere ma che non pare documentato dai resti archeologici. Comunque stessero le cose, l'attività testimoniata dalle insule, oltre che dai megara e dai tèmenoi, denunciano una frequentazione quantitativamente importante. Personalmente propendo per la frequentazione assidua ma non continua; un nucleo familiare avrebbe finito per creare necessità che in breve avrebbero portato ad un popolamento, e dunque ad un insediamento a tutti gli effetti. Cosa che non si è venuta a creare.
195v. supra
196Ma pur sempre coperti. v. ibid.
197P. BERNARDINI, Le torri, i metalli, il mare. Storie antiche di un'isola mediterranea, in Sardegna Archeologica – Scavi e Ricerche, Sassari 2010, pp. 16-17.
198Ibidem, p. 14.
199Ibidem, p. 13.
200E. LANZILLOTTA, tavole cronologiche... op. cit. pp. 2-4.
201M. CULTRARO, I Micenei, Archeologia, Storia, Società dei Greci prima di Omero, Roma 2006, p. 18.
202F. LO SCHIAVO – L. VAGNETTI, Alabastron miceneo dal nuraghe Arrubiu di Orroli (Nuoro)... op. cit. p. 137.
203Ibidem, pp. 126-129.
204Ibidem, p. 129.
205Ibidem, p. 135. In merito alla ceramica micenea del nuraghe Antigòri di Sarroch si veda P. BERNARDINI, Le torri, i metalli, il mare... op. cit. pp. 13 ss., il quale interpreta la presenza nella costa occidentale del Golfo degli Angeli, dei mercanti levantini, in funzione di attività commerciali legate ai metalli dell'Iglesiente.
206E. LANZILLOTTA, tavole cronologiche... op. cit. pp. 2-4. Cultraro in Id., I Micenei... op. cit. p. 18, propone la stessa cronologia per l'ambito miceneo.
207F. LO SCHIAVO – L. VAGNETTI, Alabastron miceneo dal nuraghe Arrubiu di Orroli (Nuoro)... op. cit. p. 135.
208Ibidem, pp. 137-138.
209Cfr. A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. pp. 123-150.
210Cfr. A. DEPALMAS R. T. MELIS, The Nuragic People... op. cit. p. 169.
211Nella ricerca di luoghi nei quali poteva ubicarsi un porto, in ambito protostorico e non solo, non bisogna dimenticare che qualunque costa che avesse una spiaggia, ovvero un fondale controllabile, era adatto all'approdo. Le spiagge fluviali, come se ne trovano poco a S di Tertenia, ben prima della foce del Flumendosa (formate dal Flumini Durci a N e dal Flumini Pisale a S, senza dimenticare che il profilo della costa, e per tanto anche gli sbocchi a mare di corsi d'acqua a carattere torrentizio, come sono questi due rìi, poteva essere, allora, molto diverso), o nei pressi di Orosèi dove si trova un lungo arenile formato dal Cedrino, o in altre latitudini dello stesso Golfo di Orosèi e a S dello stesso, rappresentavano dei punti d'arrivo sicuri, nei quali era comodo arrivare, sbarcare, eventualmente ricoverare le barche a riva e poi ripartire al momento di farlo. Questa condizione è clamorosamente documentata nel medioevo, quando Barcellona era una potenza mercantile senza porto, senza nessuna struttura d'approdo, il “porto” di Barcellona, tra XIV e XV secolo, era la ribera, la spiaggia. Si veda: P. F. SIMBULA, I porti del Mediterraneo in età medievale, Milano 2009, pp. 74-78.
212Rispettivamente il Flumendosa e il Cedrino.
213A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. p. 125.
214F. LO SCHIAVO – L. VAGNETTI, Alabastron miceneo dal nuraghe Arrubiu di Orroli (Nuoro)... op. cit. p. 131.
215A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. p. 128.
216Ibidem, p. 127.
217E. LANZILLOTTA, tavole cronologiche... op. cit. pp. 2-4.
218M. CULTRARO, I Micenei, … op. cit., p. 18.
219Ibidem
220v. supra. Questa cronologia è adottata anche da Massimo Cultraro; v. Id., I Micenei... op. cit. p. 229.
221P. BERNARDINI, Le torri, i metalli, il mare... op. cit. p. 13.
222Statuine bronzee, tripodi; v. Ibidem, pp. 15 ss.
223 Cfr. anche A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. p. 133.
224Ibidem, p. 13.
225E. LANZILLOTTA, tavole cronologiche... op. cit. pp. 2-4.
226M. CULTRARO, I Micenei... op. cit., p. 18. Per la cronologia nuragica: una fase già addentro al BR, Nuragico III (1350-1200), fino alle ultime fasi del BF, Protogeometrico (1200-1000); A. DEPALMAS R. T. MELIS, The Nuragic People... op. cit. p. 169.
227Il TEIIIb:1, compreso tra 1340 e 1250, vede l'inizio di una situazione di instabilità, con le prime distruzioni, in Grecia, seguite da ricostruzioni. Il TEIIIb:2, 1270/1180; esattamente l'epoca della distruzione definitiva dei palazzi e del sistema palatino. Il TEIIIc:1, 1180/1140, che vede una ripresa economica ma non la ricostruzione dei palazzi, e dunque secondo altri sistemi. TEIIIc:2, fino al 1100, epoca caratterizzata dalle conseguenze di eventi sismici. Ed infine il TEIIIc (o d?), fino al 1060/50, epoca sub-micenea e già dentro il Protogeometrico. v. M. CULTRARO, I Micenei... op. cit. pp. 18, 57-64.
228La letteratura in merito è vastissima; continuiamo a segnalare qui Ibidem, p. 229: “(…) l'articolata sequenza stratigrafica [del nuraghe Antigòri] permette di elaborare una griglia di cronologia relativa nella quale fissare lo sviluppo della ceramica locale in rapporto alle importazione egeo-micenee. Le produzioni micenee si collocano nell'ambito del TEIIIb-IIIc:1 e comprende due differenti classi: una di importazione e l'altra di produzione locale, come è stato confermato dalle analisi archeometriche. La ceramica d'importazione include prodotti provenienti da officine del Peloponneso (Argolide?), ma la percentuale più alta è quella delle fabbriche egeo-levantine e cretesi del TMIIIb (…)”; e P. BERNARDINI, Le torri, i metalli, il mare... op. cit. pp. 15 ss.
229A. MORAVETTI, Serra Orrios e i monumenti archeologici di Dorgali... op. cit. p. 23; il quale attribuisce la provenienza di resti ceramici di fase Bonnanaro (2300-1700 a.C.), alla vicina tomba dei giganti. Si tratta di una “tazzina d'impasto e di un vaso carenato d'impasto”, cfr. D. COCCO, Il villaggio nuragico di Serra Orrios... op. cit. pp.119, 122.
230M. A. FADDA, Gli architetti nuragici... op. cit. p. 75; Id., Località Gremanu... op. cit. pp. 169-170; Id., Operazione... op. cit. p. 79; e M. A. FADDA - F. POSI, Il complesso nuragico di Gremanu... op. cit. pp. 9 ss. Le interpretazioni delle ceramiche contenute in questa bibliografia, in relazione alla loro cronologia, non coincidono esattamente con quelle proposte da Anna Depalmas nelle opere citate, v. supra, e sono per tanto da prendersi con salutare margine di dubbio; sono tuttavia relative, grosso modo, al quadro cronologico che è emerso per il presente studio. Risulta invece molto più chiara la documentazione relativa a S'Arcu 'e Is Forros.
231M. A. FADDA, Gli architetti nuragici... op. cit. p. 75.
232A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. pp. 131 ss., ma Ibidem, p. 144.
233L'uso delle spade votive perdura infatti nel BF3 e nel Fe:1; cfr Ibidem, p. 149.
234DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. pp. 141-147.
235M. A. FADDA – F. POSI, Il complesso nuragico di Gremanu... op. cit. pp. 44-47.
236Le ciotole carenate rimandano fino ad orizzonti del BR; A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. pp. 133 ss.
237Ibidem, pp. 142-147.
238D. COCCO, Il villaggio nuragico di Serra Orrios... op. cit. p.115. L'Autrice dell'articolo considera questa classe ceramica come appartenente ad un arco cronologico amplissimo, sulla base delle datazioni al C14 dello stesso materiale rinvenuto nel nuraghe Albucciu di Arzachena, e sui limiti fissati da Contu, fra il 1400 e l'800 a.C., Ibidem; Anna Depalmas in Id,. La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. pp. 131 ss., 144, considera la ceramica “a pettine” come pertinente all'ambito delle due ultime fasi del BR, pur con persistenze nel BF1.
239Ascrivibili già ad un orizzonte relativo al BF1; A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. p. 143.
240Fermo restando un ampio margine di dubbio in considerazione dei numerosi e scriteriati rifacimenti delle strutture delle capanne, effettuati all'epoca della scoperta dell'abitato di Serra Òrrios, negli anni '30 del secolo scorso. v. supra.
241D. COCCO, Il villaggio nuragico di Serra Orrios... op. cit. p.117.
242F. LO SCHIAVO, Il villaggio nuragico di Serra Orrios... op. cit. pp. 145-154.
243Oltre a quelle descritte, unite in isolati, v. supra, se ne trovano diverse altre non ancora indagate.
244A. MORAVETTI, Serra Orrios e i monumenti archeologici di Dorgali... op. cit. pp. 26-28.
245A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. pp. 131 ss.
246v. supra
247Cfr. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. p. 144.
248F. LO SCHIAVO – L. VAGNETTI, Alabastron miceneo dal nuraghe Arrubiu di Orroli (Nuoro)... op. cit. p. 124. Depalmas, in Id., La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. pp. 132-133, 142, segnalano una presenza relativa al BF, in una sua fase iniziale, in una capanna ne pressi del nuraghe Gasoru-Orròli, nello stesso ambito territoriale. Nello stesso territorio sono segnalate altre presenze riferibili a questo orizzonte, Ibidem.
249M. A. FADDA, I templi a megaron della Sardegna... op. cit. p. 158.
250Benché l'ambito del sacro fosse spesso il luogo di operazioni che richiedevano l'uso di svariati strumenti, anche coincidenti con l'ambiente domestico e lavorativo. Questi materiali e strumenti sono stati comunque riportati a cronologie ampie, dal BR al BF, cioè, secondo l'Autrice dell'articolo (Ibidem), dal XIV al X sec. a.C., che, a volerle considerare così come vengono riportate, rendono una volta ancora merito di una lunga frequentazione, la quale però contrasta con la sovrapposizione delle strutture del santuario sull'insediamento sottostante.
251M. A. FADDA, Esterzili: La sacerdotessa... op. cit. pp. 65-66; Id., I templi a megaron della Sardegna... op. cit. p. 158.
252Ibidem
253P. BERNARDINI, Le torri, i metalli, il mare... op. cit. p. 21; A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. p. 149; Id., R. T. MELIS, The Nuragic People... op. cit. p. 171. G. LILLIU, Società e Cultura in Sardegna nei periodi Orientalizzante e Arcaico. Rapporti tra Sardegna, Fenici, Etruschi e Greci, in Atti del I Convegno di Studi “Un millennio di relazioni fra la Sardegna ed i Paesi del Mediterraneo, Selargius CA, 29/30 Nov. '85, Cagliari 1985, pp. 81-82.
254Cfr. A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. p. 143.
255M. A. FADDA, S'Arcu 'e Is Forros... op. cit. pp. 79-80.
256La definizione conferita a questi vasi è “a forma aperta”; M. A. FADDA, Villagrande Strisaili... op. cit. p. 18, datate al XIII-IX sec. a.C., Id., S'Arcu 'e Is Forros... op. cit. p. 81.
257M. A. FADDA, Villagrande Strisaili... op. cit. pp. 16-19; e Id., S'Arcu 'e Is Forros... op. cit. p. 81.
258A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. p. 149.
259M. A. FADDA, S'Arcu 'e Is Forros... op. cit. p. 81.
260Si veda in P. BERNARDINI, Le torri, i metalli, il mare... op. cit. pp. 17-19.
2611535° C, contro i 1084° C del rame e i 1020° C del bronzo.
262Non risultano dati di avvenuta indagine della capanna.
263M. A. FADDA, Villagrande Strisaili... op. cit. pp. 41-43; Per le brocche piriformi v. supra; se queste sono cronologicamente da associare alle brocche askoidi con decorazioni geometriche non meglio specificate (dipinte o incise?), allora anche quella del vano A del megaron principale è da ascriversi all'orizzonte cronologico espresso dalla brocca piriforme, cioè il Fe:1.
264Ibidem, pp. 45-49.
265A. DEPALMAS, La Preistoria e la Protostoria della Sardegna ... op. cit. p. 147.
266La statuina fu recuperata presso il canale di scolo che parte dal vano B del Megaron principale. M. A. FADDA, Villagrande Strisaili... op. cit. pp. 19-22.
267Ibidem, p. 22.
268G. LILLIU, Società e Cultura in Sardegna... op. cit. p. 81.
269Non evinte o semplicemente non documentate. M. A. FADDA, Villagrande Strisaili... op. cit. pp. 37-49.
270Tripodi e armi in ferro, un martello da calderaio in bronzo, riferito all'VIII sec. a.C., una navicella bronzea con protome bovina, brocche bronzee con anse decorate e orlo estroflesso riferite al VII, un'oinochoe in bronzo con ansa ad incastro, bacini ed altri vasi in bronzo. Un amuleto in forma di Tanit, un'ascia in ferro, fibule a sanguisuga, uno scarabeo in faïence egitizzante riferito all'VIII sec. a.C. Matrici in pietra per lance e per falcetti, un elemento in bronzo, ricurvo, a sezione quadrata con lettere fenice incise, frammentario, un'ascia a lama semilunata, grandi quantità di frammenti di bronzo e di piombo, probabilmente tesaurizzazioni finalizzate alla rifusione. Nonché un ariete bronzeo. Senza dimenticare i frammenti d'anfora interpretata come cananea (probabilmente fenicia), con iscrizioni filistee, ma proveniente dal vano 2 dell'insula 2. M. A. FADDA, Villagrande Strisaili... op. cit. pp. 49-83.
271Si veda P. BERNARDINI, Le torri, i metalli, il mare... op. cit.; Id., Micenei e Fenici. Considerazioni sull'età precoloniale in Sardegna, Orientis Antiqui Collectio – XIX, Roma 1991; Id., Considerazioni sui rapporti tra la Sardegna, Cipro e l'area egeo-orientale nell'età del Bronzo, Quaderni. Ministero per i BB CC e AA, Soprintendenza Archeologica di SS e CA, Cagliari 1993, pp. 29 ss.
272Concordo con Bernardini in P. BERNARDINI, Le torri, i metalli, il mare... op. cit. pp. 21 ss., nella sua diatriba su una certa stantìa mentalità antica e moderna, o sub-moderna, improntata alla visione del buon selvaggio (o anche del cattivo selvaggio), sardo, che incontra i civilissimi egei, ma non concordo con le sue spiegazioni e i suoi scenarî, fatti di incontri tra capi (o tra capi mandatarî, lontani, e capi locali), nei quali lo scambio era posto in essere fra uguali. Una visione come questa (e della quale Lillìu fu primo portavoce; G. LILLIU, Società e Cultura in Sardegna... op. cit. p. 81.), finisce per confermare quella mentalità dalla quale si cerca giustamente di fuggire, perché si sforza di vedere un'analogìa, quella di una società verticale nell'isola, che si contrapponga alle società gerarchiche egee e levantine di sicura attestazione. Nelle righe citate è evidente lo sforzo di raggiungere il risultato della visione di una società gerarchica nel mondo nuragico, ma è evidente anche il fallimento di questo sforzo. Non si evince nulla, nelle società nuragiche, che abbia anche solo una minima somiglianza con strutture verticali fatte di capi ed aristocrazìe. Anzi, mi pare emerga esattamente l'opposto. Ma comunque sia, non è da questo che deriva la dignitas dei nuragici di fronte agli egei o i levantini, bensì da una natura di rapporti nei quali lo scopo era il raggiungimento di un guadagno e di una convenienza, la cui natura di reciprocità era la base della riuscita; cosa che, evidentemente, i mercanti viaggiatori stranieri e i sardi avevano ben inteso. Addirittura lo intesero altrettanto bene i viaggiatori nel loro reciproco rapporto, se, come afferma lo stesso Bernardini, ben coadiuvato in questo da altri studiosi; S. BAFICO, Lo scavo, in AA.VV. Il villaggio nuragico di Sant'Imbernia ad Alghero (SS) nota preliminare, in Actes du IIIe Congrès International des Études Phéniciennes et Puniques, vol. I, Tunis 1995, p. 89, nota n° 5, fenici ed euboici si accompagnavano senza entrare in conflitti, evidentemente visti come inutili e dannosi. Questi, i conflitti, sarebbero poi arrivati, ma in una situazione ed in una temperie ormai matura per il salto di qualità; dal commercio all'occupazione. Nel frattempo la pratica dello scambio-dono, vista come simbolo della sanzione del prestigio trasmesso, continuava senza che nessuna rigidità verticale dovesse determinare la condizione di base per la buona riuscita della transazione.
273M. CULTRARO, I Micenei... op. cit. pp. 18, 57-64.
274 Evito, in questa sede, di entrare nell'affascinante e fumoso tema delle navigazioni dei nuragici.