di Franco Sarbia
Il
codice generatore della città di Milano è riconducibile alle remote
basi linguistiche dei nomi
attribuiti al suo territorio da chi per primo ne comprese ed animò
lo spirito. Ne “le Origini della cultura Europea” il filologo
Giovanni Semerano svela i principali caratteri dell’incontro tra
quella cultura e quell’ambiente naturale. E vi scopre la
testimonianza di antichi popoli che qui giunsero, vagarono e vissero
agli albori della civiltà urbana. È tanto più significativo il
risultato della sua indagine perché riesce ad esplicitare, solo
attraverso la ricerca filologica, le relazioni organiche dei luoghi e
dei fiumi con il loro contesto senza averne potuto approfondire le
caratteristiche morfologiche originarie. Questo scritto si propone di
condividere una riflessione che vuole evidenziare e sviluppare le
implicazioni di quelle intuizioni.
Milano
emergente
Secondo
Giovanni Semerano il nome latino di Milano, «Mediolanum, è
riconducibile ad Accadico
mešlu (in mezzo, greco μέσος, latinizzato a medius) ed elānum
(sopra). Già A. Solmi sostenne che Mediolanum doveva assumersi come
forma aggettivale gallica nel senso di Medianum “luogo emergente in
mezzo a corsi d’acqua, fiumi, canali, paludi”. Ma fu rifiutata
tale intuizione perché non (ancora) “sufficientemente sorretta da
prove linguistiche”». Sulla stessa base troviamo l’accadico
Mišlānū con il significato di metà o mediana. Dopo la
latinizzazione in “medius” la radice mešlu riemerge nei nomi
moderni di alcune delle numerose Mediolanum francesi: Meslan,
Meslain, Meslin, Moislains, Moëslain, Moslins. Presso i parlanti
lingue native, artiche, americane, cinesi, australiane, come presso
le popolazioni semitiche, originarie delle terre mesopotamiche, ai
luoghi, come alle persone, sono usualmente assegnati nomi composti e
aggettivati corrispondenti al carattere e al contesto ad essi
attribuiti dalla comunità dei parlanti.
Accade
così, come già visto per altri diversi toponimi (Majella), che il
carattere di un luogo possa essere associato ad altri nomi assonanti
che ne definiscono compiutamente le caratteristiche. Sicché la
connotazione delle terre di mezzo (Mešlu, Mišlānū) può essere
completata, insieme o singolarmente, con l’occorrenza di un
rilievo, Mēlû, protetto dalle alluvioni, in prossimità di corsi
d’acqua o sorgenti, Ēnu, o di aree di esondazione, Mīlu,
fecondate dal limo. Così appare, dalla lettura del suo accoppiamento
strutturale con il territorio, la Milano originaria, situata su una
motta alluvionale, nel mezzo di una fascia di risorgive, tra Olona e
Lambro a scala locale, tra Ticino e Adda a scala regionale, e
all’incrocio di grandi vie di comunicazione continentali.
Nell’uso
delle popolazioni locali sembra essere prevalsa, con Milan, la forma
verbale incrociata con Mēlû (o Mīlu) ed ēnu (ain). Ritroviamo
queste radici, talvolta con la consonante raddoppiata del celtico
“Mello”, collina, di diretta derivazione accadica, sia in siti
come Mellani e Mellana o Mele, sia nella regressione
dall’indifferenziato toponimo, sovrapposto dalla latinizzazione a
nomi similmente assonanti per altre Mediolanum, cosiddette
gallo-celtiche, quali: Melay, Melin, Melian, Malain, Malaincourt,
Millan.
Per
proseguire il racconto delle speciali relazioni della Milano
emergente con il territorio bisogna tornare alla riflessione di
Giovanni Semerano sui due fiumi più vicini tra i quali è situata:
Olona e Lambro.
«Olona:
ālu-ēnu (come Olio) Accadico agû
- eliu (acqua alta) incrociato con ālu che condivide la radice di
Alemanni: (insediamento, paese, villaggio, stanziamento elevato,
city; estate, manor); al plurale ālū, ālānu ālāni lo ritroviamo
in Mediolanum come ēnu (ain, fiume o fonte) nel senso di fiume del
paese, acqua del territorio». L’Olona scorre sul piano
terrazzato, dei depositi glaciali di Wurm, che degrada dai laghi
alpini fino al risorgere delle acque della falda superficiale attorno
a Milano. Il “pellegrino d’oriente” proveniente dalla Milano
dei monti Martani, lungo la “retta via” del Decumano massimo, che
allinea la Sila alle Cassiteridi attraverso il guado di Piacenza sul
Po, la può risalire sicuro fino al bosco delle Groane. Riecheggia in
quel nome un gorgoglìo d’acque serpeggianti: similmente a Garonne,
da Accadico garāru (correre, serpeggiare, errare) incrociato con
gerru (strada) e hurranu (sentiero nella foresta). E quel sentiero a
Nord Ovest accompagnerà il nomade quasi in cielo: fino agli
orizzonti Europei dischiusi dal Sempione.
«Lambro,
Accadico Luhmû (pantano) e Ambar (palude). La radice Ambar è comune
a Lambrus ed ai fiumi che danno luogo a larghe stagnazioni come,
Ambra, Ombrone, Sam-bra, con il significato di Fiume che dilaga in
palude». Con un elegante intervento d’ingegneria idraulica i
romani deviarono il corso dell’Olona e del Seveso nel fossato della
città augustea. Resero così navigabile l’accesso al Po attraverso
il tratto terminale del Lambro: convogliando le acque di deflusso
nella roggia detta Vettabbia (Vectabilis); separando e adducendo i
reflui della cloaca nel Lamber meridionalis, rinominato Lamber
merdarius, ancor oggi destinato a concimare le residue marcite.
Secondo la tecnica romana di costruzione dei canali il materiale di
scavo era posto sull’argine a formare l’alzaia, ovvero una via di
comunicazione carrabile sopraelevata e difesa dalle esondazioni,
mentre il canale stesso drenava le acque stagnanti bonificando il
terreno paludoso.
“Occhio”,
testa di fontanile
Così
dovette avvenire per la deviazione del Seveso nel tratto terminale
d’accesso al fossato,
a nord est, in corrispondenza del Cardo Massimo. Ma la funzione del
Seveso, di confinamento e drenaggio delle paludi del Lambro, doveva
già essere nota ai primi coloni perché zāʾibu è il nome di un
fiume accadico (Zāb) che scorre su un terreno intriso d’acqua;
zâbu, significa disciogliere defluire, far scorrere, mentre bêšu
significa andare via, ritirare, ed ebēru vale per attraversare,
andare oltre. Sicché Seveso sulle basi Zāʾibu e bêšu doveva
risuonare come fiume che fa defluire (andar via, ritirare) le acque
attraverso un terreno intriso d’acqua. Allora, ancorché il Cardo
Massimo della Mediolanum preromana fosse esattamente orientato dal
Tenda al Brennero, collocandosi a metà tra i due, il dilagare delle
acque del Lambro e il difficile guado dell’Adda imponevano di
risalire fino ai contrafforti delle prealpi bergamasche per
raggiungere a nord est la futura Brixia.
Verso
sud – ovest, invece, il terreno disseminato di fontanili doveva
aprirsi in ampie radure dalle quali emergevano bassi colli generati
da depositi alluvionali. In quella zona ancor oggi antiche cascine,
come Montecucco o Monterobbio, assumono il nome dal rilievo sul quale
furono edificate. Il nome di questo territorio identifica un odierno
quartiere periferico incuneato tra i due Navigli: la “Barona”. La
sua origine sembra essere un paradigma dell’assunto secondo il
quale toponimi e idronimi frequentemente rappresentino, nell’incrocio
delle loro radici, “un insieme di tratti distintivi concomitanti”:
quasi un’applicazione estensiva delle proprietà che Ferdinand de
Saussure e Roman Jakobson attribuivano ai fonemi. Barona pare
costituito, infatti, sulla base dell’accadico Barû, guardare
lontano, attentamente, osservare, sovrintendere, annunciare, ed ēnu
che riassume il doppio significato di sorgente e di occhio. Chi ha
veduto la consueta configurazione ad occhio della testa di un
fontanile assottigliata, come palpebra, dalla sua coda di deflusso
non troverà singolare questa omonimia. Tale considerazione
indurrebbe a risolvere il senso del toponimo quale luogo emergente di
osservazione e gestione di una vasta distesa pianeggiante, a pascolo
o coltura, disseminata di risorgive.
Le
risorgive sono una risorsa strategica della macchina naturale sulla
quale è insediata Milano: come lo furono per Eridu e Mileto
all’origine della stessa civiltà urbana. Presidiarle significa
difendere i margini di sopravvivenza della città. Ancor oggi la
Barona, a sud, è parte del fertile parco agricolo di Milano. Con una
temperatura che oscilla tra i 14 gradi d’estate e gli 11 gradi
d’inverno le acque che sgorgano dai fontanili, costituiscono un
sistema naturale di termoregolazione per tutta la città. Impediscono
di gelare ai campi allagati a marcita. Oggi esistono solo alcune
marcite come testimonianze del passato ma nel medioevo erano diffuse
e consentivano fino a dieci abbondanti raccolti di foraggio nell’anno
solare. La desinenza femminile del nome moderno della Barona lascia
intendere, tuttavia, il riemergere da un lontano passato della forma
femminile duale di ēnu: īnā (gli occhi). In questo caso con il
significato inequivocabile di occhi che guardano lontano. La
collocazione della Barona sul prolungamento a sud ovest del Cardo
Massino, a meno di tre miglia romane dal nucleo dell’insediamento
originario, combina quindi sia una funzione di presidio delle risorse
alimentari sia di controllo dell’accesso alla città.
L’osservazione da un rilievo naturale, e da una probabile torre di
segnalazione, nei giorni di aria tersa lasciava spaziare lo sguardo
dal pizzo Arera all’Argentera, dal Monte Leone fino a rare
apparizioni del Monte Cimone, appena rilevato sull’estremo
orizzonte di sud est. Analogo significato, di punto di vista
privilegiato su ampi orizzonti, dovettero generare i nomi dei due
monti “Barone” del Varesino e del Biellese.
Ma
la “luce di antiche stelle ormai spente” continua ad illuminare
pure il senso che assumono, in quelle antiche lingue morte, i
torrenti che convergono a ventaglio su Milano: quali il Pudiga, il
Nirone e il Molia. Già confluivano nel fossato prima che vi fosse
deviato l’Olona come via d’acqua per trasportare i massi di
fondazione delle mura Augustee di documentata provenienza dalla sua
valle. Vi giungevano per via d’acqua su tronchi legati a zattera,
poi utilizzati come materiali da costruzione, assieme all’abbondante
argilla del sito. Il torrente Nirone ha continuato a svolgere negli
ultimi seicento anni la sua funzione difensiva confluendo
successivamente nel fossato del castello sforzesco, a dispetto del
suo nome: da Accadico Nārum, fiume, incrociato con Niqrum, abbattere
le rive, devastare.
L’etimo
del Pudiga sembra riconducibile alla stessa radice del nome ligure
del Po, Bodincus, βόδεγχος corrispondente ad Accadico Butiqtu
(inondazione, fiume) incrociato con Badāqu (rompere gli argini). Dal
punto di vista delle ovvie difficoltà, per le popolazioni
neolitiche, a dissodare le terre aride e a costruire canali con
aratri di legno, osso o pietra, non si deve immaginare l’azione di
rompere gli argini come sinonimo d’infausto e incontrollato
devastare. Era piuttosto una pratica consolidata d’intervento sugli
argini «dove scorrono torrenti a portare per concime il limo»
(Virgilio, 31 e 29 a.c. Georgiche). Quelle popolazioni educate da sei
millenni di diluvio nelle loro terre d’origine, sapevano volgere a
proprio favore la furia distruttiva della natura. Rinforzavano gli
argini dove necessario riportandovi con ceste il materiale umido e
sabbioso in eccesso, asportato con fatica - secondo il destino che
gli Dei avevano assegnato agli uomini - ma senza difficoltà dai
tratti in prossimità di radure di facile accesso e coltivazione:
rompendo gli argini dove serviva “regolare” ed indirizzare
l’esondazione, in modo che il limo vi dilagasse per rinnovare la
fertilità dei campi. Similmente a Μολόεις, fiumiciattolo
presso Platea, il Molia deve il suo toponimo all’Accadico malā’um
(essere pieno) da mēlu, mīlu (piena), da intendere anche in questo
caso come opportunità più che come minaccia. Nessun’altra cultura
poteva disporre, tra sei e quattromila anni da oggi, delle basi di
conoscenza necessarie ad interpretare con una tale varietà di
idronimi e di toponimi, e in modo così sistematico, la natura di
quel territorio ricco di acque.
Le
caratteristiche fertilizzatrici delle acque di superficie e le
straordinarie proprietà della falda superficiale risorgente, in
corrispondenza di un nodo di comunicazione continentale, furono la
ragion d’essere della Milano emergente. La sua collocazione
strategica su una Ziggurat naturale, generata dal caos e attorniata
da terre naturalmente fertilizzate dall’acqua, doveva apparire ai
coloni simile a quella dei villaggi della cultura di Obeid nelle
vaste pianure degradanti dalle montagne dell’Anatolia, prima che
una progressiva siccità, dal sesto al quarto millennio aC, inducesse
a concentrare le terre agricole in prossimità dei corsi dell’Eufrate
e del Tigri, dove ormai solo grandi collettività umane asserragliate
nelle prime città potevano compiere gli imponenti lavori idraulici
necessari ad irrigarle, costrette a difendere stabilmente il frutto
del loro lavoro per sopravvivere.
Là
per la prima volta nel ciclo di vita dell’umanità un solo
chilometro quadrato di terra inondata dal limo aveva potuto nutrire
4000 persone. Un solo uomo lavorando la sua terra per pochi mesi era
riuscito a mantenere agiatamente una famiglia di otto persone. Ma dal
quarto millennio prima di Cristo, con la siccità, i figli
innumerevoli di quella civiltà dovevano cercare lontano le terre
fertili per le loro future famiglie.
Dapprima
furono i pascoli, fino ad allora in simbiosi con l’agricoltura, a
divenire incompatibili con il ridursi della terra fertile. E ad
alimentare un nuovo nomadismo fu la necessità di abbandonare l’avara
steppa desertica, arsa dal sole e dalla pratica del debbio, e
muoversi verso l’ignoto, a Nord e a Occidente, alla ricerca di
nuove praterie verdi. Capre e asini costituivano una riserva
logistica per chi doveva spingersi, in avanscoperta sempre più
lontano, alla ricerca di risorse minerarie affioranti e non
presidiate: di vitale importanza per i primi insediamenti urbani,
nati dal fango e perciò totalmente privi dei materiali duri
necessari per costruire utensili e armi appropriate. E il nomadismo a
scala continentale, veicolo di comunicazione e di congiunzione tra
diverse culture, avviò il processo di fondazione della koiné
linguistica della cultura europea. L’arricchimento culturale e
tecnologico, nato dall’incontro delle differenze, assieme al rapido
accrescimento delle popolazioni su territori sconfinati, rendevano i
reami nomadi capaci di assumere ciclicamente il predominio anche
sulle nascenti città stato. Così avvenne per le popolazioni
accadiche prima e poi, tra altri, per gli Achei, agli albori della
nostra civiltà.
Sulle
alte vie d’Europa li guidavano gli astri e i monti. Costellavano il
loro percorso di steli dove il piede astrale delle stelle più
luminose che indicavano le vie del cielo segnava i sacri crocevia dei
percorsi terrestri.
Mešlu
Anno
4041 aC., 21 Giugno, ore 01:01:12: il prolungamento della linea che
congiunge le
due stelle più luminose del cielo estivo, Vega e Arturo, si trova
allo zenit di Milano e indica la retta via delle terre di mezzo.
Giunta sulla Sila da Crotone una comunità nomade guidata da una
sciamana ne seguirà il percorso per una intera stagione. Scenderà
ad Aieta e Sapri, poi incontrerà in perfetto allineamento con le più
alte vette della dorsale appenninica: Moiano di Benevento, Marruvium
e Magliano de’ Marsi, Milano (Mediolana) di Spoleto, Pieve a Maiano
di Arezzo, le cave di Maiano di Fiesole, Migliana PO, Miano e
Medesano di Parma, Melegnano, Milano lombarda, Murten delle Berner
Mitteland, Mesandans, Melin, Melay, Moslins, Amiens Caesar (una delle
Mediolanum francesi) in prossimità di Moislains, Mayfields nel regno
unito, Midland terrace, Millan, Maidenhead, Middletown presso Oxford,
sfiorerà Stradford Upon Avon, poi ancora una Middletown, Menai
Bridge, Middletown di Armagh in Irlanda e infine Middleton Co.
Donegal e Middletown, presso il Kilclooney dolmen all’estrema
propaggine di nord Ovest delle Cassiteridi, in vista dell’oceano.
Con la precessione degli equinozi lo zenit di Vega scenderà verso
Murten e a metà del quarto millennio si troverà sopra Milano,
trasformandola in crocevia celeste. È curioso notare che il
logogramma cuneiforme di Mešlu è costituito da una semplice croce,
come l’attuale cristiana bandiera di Milano.
Oggi
Milano è il piede astrale di Deneb. Invocando i poteri magici di
Medea, possiamo ancora immaginare che in una notte di mezza estate la
costellazione dei falò delle montagne incatenerà Homan sulle ali di
Pegaso, Deneb allo zenit, e Alkaid, ai confini dell'aurora e del
tramonto. Solo in quell'attimo la poesia indicherà la retta via del
cielo per Stratford. E Prospero, duca di Milano nella Tempesta di
Shakespeare, potrà nuovamente ammonire: «Con la mia preveggenza
trovo il mio zenit dipendere da una stella, la più propizia. Se la
sua influenza non colgo ora, ma tralascio, le mie fortune
declineranno per sempre».
Valdengo
20 luglio 2012