sabato 21 luglio 2012

I remoti orizzonti di Milano


di Franco Sarbia

Il codice generatore della città di Milano è riconducibile alle remote basi linguistiche dei nomi attribuiti al suo territorio da chi per primo ne comprese ed animò lo spirito. Ne “le Origini della cultura Europea” il filologo Giovanni Semerano svela i principali caratteri dell’incontro tra quella cultura e quell’ambiente naturale. E vi scopre la testimonianza di antichi popoli che qui giunsero, vagarono e vissero agli albori della civiltà urbana. È tanto più significativo il risultato della sua indagine perché riesce ad esplicitare, solo attraverso la ricerca filologica, le relazioni organiche dei luoghi e dei fiumi con il loro contesto senza averne potuto approfondire le caratteristiche morfologiche originarie. Questo scritto si propone di condividere una riflessione che vuole evidenziare e sviluppare le implicazioni di quelle intuizioni.

Milano emergente

Secondo Giovanni Semerano il nome latino di Milano, «Mediolanum, è riconducibile ad Accadico mešlu (in mezzo, greco μέσος, latinizzato a medius) ed elānum (sopra). Già A. Solmi sostenne che Mediolanum doveva assumersi come forma aggettivale gallica nel senso di Medianum “luogo emergente in mezzo a corsi d’acqua, fiumi, canali, paludi”. Ma fu rifiutata tale intuizione perché non (ancora) “sufficientemente sorretta da prove linguistiche”». Sulla stessa base troviamo l’accadico Mišlānū con il significato di metà o mediana. Dopo la latinizzazione in “medius” la radice mešlu riemerge nei nomi moderni di alcune delle numerose Mediolanum francesi: Meslan, Meslain, Meslin, Moislains, Moëslain, Moslins. Presso i parlanti lingue native, artiche, americane, cinesi, australiane, come presso le popolazioni semitiche, originarie delle terre mesopotamiche, ai luoghi, come alle persone, sono usualmente assegnati nomi composti e aggettivati corrispondenti al carattere e al contesto ad essi attribuiti dalla comunità dei parlanti.
Accade così, come già visto per altri diversi toponimi (Majella), che il carattere di un luogo possa essere associato ad altri nomi assonanti che ne definiscono compiutamente le caratteristiche. Sicché la connotazione delle terre di mezzo (Mešlu, Mišlānū) può essere completata, insieme o singolarmente, con l’occorrenza di un rilievo, Mēlû, protetto dalle alluvioni, in prossimità di corsi d’acqua o sorgenti, Ēnu, o di aree di esondazione, Mīlu, fecondate dal limo. Così appare, dalla lettura del suo accoppiamento strutturale con il territorio, la Milano originaria, situata su una motta alluvionale, nel mezzo di una fascia di risorgive, tra Olona e Lambro a scala locale, tra Ticino e Adda a scala regionale, e all’incrocio di grandi vie di comunicazione continentali.
Nell’uso delle popolazioni locali sembra essere prevalsa, con Milan, la forma verbale incrociata con Mēlû (o Mīlu) ed ēnu (ain). Ritroviamo queste radici, talvolta con la consonante raddoppiata del celtico “Mello”, collina, di diretta derivazione accadica, sia in siti come Mellani e Mellana o Mele, sia nella regressione dall’indifferenziato toponimo, sovrapposto dalla latinizzazione a nomi similmente assonanti per altre Mediolanum, cosiddette gallo-celtiche, quali: Melay, Melin, Melian, Malain, Malaincourt, Millan.
Per proseguire il racconto delle speciali relazioni della Milano emergente con il territorio bisogna tornare alla riflessione di Giovanni Semerano sui due fiumi più vicini tra i quali è situata: Olona e Lambro.
«Olona: ālu-ēnu (come Olio) Accadico agû - eliu (acqua alta) incrociato con ālu che condivide la radice di Alemanni: (insediamento, paese, villaggio, stanziamento elevato, city; estate, manor); al plurale ālū, ālānu ālāni lo ritroviamo in Mediolanum come ēnu (ain, fiume o fonte) nel senso di fiume del paese, acqua del territorio». L’Olona scorre sul piano terrazzato, dei depositi glaciali di Wurm, che degrada dai laghi alpini fino al risorgere delle acque della falda superficiale attorno a Milano. Il “pellegrino d’oriente” proveniente dalla Milano dei monti Martani, lungo la “retta via” del Decumano massimo, che allinea la Sila alle Cassiteridi attraverso il guado di Piacenza sul Po, la può risalire sicuro fino al bosco delle Groane. Riecheggia in quel nome un gorgoglìo d’acque serpeggianti: similmente a Garonne, da Accadico garāru (correre, serpeggiare, errare) incrociato con gerru (strada) e hurranu (sentiero nella foresta). E quel sentiero a Nord Ovest accompagnerà il nomade quasi in cielo: fino agli orizzonti Europei dischiusi dal Sempione.
«Lambro, Accadico Luhmû (pantano) e Ambar (palude). La radice Ambar è comune a Lambrus ed ai fiumi che danno luogo a larghe stagnazioni come, Ambra, Ombrone, Sam-bra, con il significato di Fiume che dilaga in palude». Con un elegante intervento d’ingegneria idraulica i romani deviarono il corso dell’Olona e del Seveso nel fossato della città augustea. Resero così navigabile l’accesso al Po attraverso il tratto terminale del Lambro: convogliando le acque di deflusso nella roggia detta Vettabbia (Vectabilis); separando e adducendo i reflui della cloaca nel Lamber meridionalis, rinominato Lamber merdarius, ancor oggi destinato a concimare le residue marcite. Secondo la tecnica romana di costruzione dei canali il materiale di scavo era posto sull’argine a formare l’alzaia, ovvero una via di comunicazione carrabile sopraelevata e difesa dalle esondazioni, mentre il canale stesso drenava le acque stagnanti bonificando il terreno paludoso. 

Occhio”, testa di fontanile

Così dovette avvenire per la deviazione del Seveso nel tratto terminale d’accesso al fossato, a nord est, in corrispondenza del Cardo Massimo. Ma la funzione del Seveso, di confinamento e drenaggio delle paludi del Lambro, doveva già essere nota ai primi coloni perché zāʾibu è il nome di un fiume accadico (Zāb) che scorre su un terreno intriso d’acqua; zâbu, significa disciogliere defluire, far scorrere, mentre bêšu significa andare via, ritirare, ed ebēru vale per attraversare, andare oltre. Sicché Seveso sulle basi Zāʾibu e bêšu doveva risuonare come fiume che fa defluire (andar via, ritirare) le acque attraverso un terreno intriso d’acqua. Allora, ancorché il Cardo Massimo della Mediolanum preromana fosse esattamente orientato dal Tenda al Brennero, collocandosi a metà tra i due, il dilagare delle acque del Lambro e il difficile guado dell’Adda imponevano di risalire fino ai contrafforti delle prealpi bergamasche per raggiungere a nord est la futura Brixia.
Verso sud – ovest, invece, il terreno disseminato di fontanili doveva aprirsi in ampie radure dalle quali emergevano bassi colli generati da depositi alluvionali. In quella zona ancor oggi antiche cascine, come Montecucco o Monterobbio, assumono il nome dal rilievo sul quale furono edificate. Il nome di questo territorio identifica un odierno quartiere periferico incuneato tra i due Navigli: la “Barona”. La sua origine sembra essere un paradigma dell’assunto secondo il quale toponimi e idronimi frequentemente rappresentino, nell’incrocio delle loro radici, “un insieme di tratti distintivi concomitanti”: quasi un’applicazione estensiva delle proprietà che Ferdinand de Saussure e Roman Jakobson attribuivano ai fonemi. Barona pare costituito, infatti, sulla base dell’accadico Barû, guardare lontano, attentamente, osservare, sovrintendere, annunciare, ed ēnu che riassume il doppio significato di sorgente e di occhio. Chi ha veduto la consueta configurazione ad occhio della testa di un fontanile assottigliata, come palpebra, dalla sua coda di deflusso non troverà singolare questa omonimia. Tale considerazione indurrebbe a risolvere il senso del toponimo quale luogo emergente di osservazione e gestione di una vasta distesa pianeggiante, a pascolo o coltura, disseminata di risorgive.
Le risorgive sono una risorsa strategica della macchina naturale sulla quale è insediata Milano: come lo furono per Eridu e Mileto all’origine della stessa civiltà urbana. Presidiarle significa difendere i margini di sopravvivenza della città. Ancor oggi la Barona, a sud, è parte del fertile parco agricolo di Milano. Con una temperatura che oscilla tra i 14 gradi d’estate e gli 11 gradi d’inverno le acque che sgorgano dai fontanili, costituiscono un sistema naturale di termoregolazione per tutta la città. Impediscono di gelare ai campi allagati a marcita. Oggi esistono solo alcune marcite come testimonianze del passato ma nel medioevo erano diffuse e consentivano fino a dieci abbondanti raccolti di foraggio nell’anno solare. La desinenza femminile del nome moderno della Barona lascia intendere, tuttavia, il riemergere da un lontano passato della forma femminile duale di ēnu: īnā (gli occhi). In questo caso con il significato inequivocabile di occhi che guardano lontano. La collocazione della Barona sul prolungamento a sud ovest del Cardo Massino, a meno di tre miglia romane dal nucleo dell’insediamento originario, combina quindi sia una funzione di presidio delle risorse alimentari sia di controllo dell’accesso alla città. L’osservazione da un rilievo naturale, e da una probabile torre di segnalazione, nei giorni di aria tersa lasciava spaziare lo sguardo dal pizzo Arera all’Argentera, dal Monte Leone fino a rare apparizioni del Monte Cimone, appena rilevato sull’estremo orizzonte di sud est. Analogo significato, di punto di vista privilegiato su ampi orizzonti, dovettero generare i nomi dei due monti “Barone” del Varesino e del Biellese.
Ma la “luce di antiche stelle ormai spente” continua ad illuminare pure il senso che assumono, in quelle antiche lingue morte, i torrenti che convergono a ventaglio su Milano: quali il Pudiga, il Nirone e il Molia. Già confluivano nel fossato prima che vi fosse deviato l’Olona come via d’acqua per trasportare i massi di fondazione delle mura Augustee di documentata provenienza dalla sua valle. Vi giungevano per via d’acqua su tronchi legati a zattera, poi utilizzati come materiali da costruzione, assieme all’abbondante argilla del sito. Il torrente Nirone ha continuato a svolgere negli ultimi seicento anni la sua funzione difensiva confluendo successivamente nel fossato del castello sforzesco, a dispetto del suo nome: da Accadico Nārum, fiume, incrociato con Niqrum, abbattere le rive, devastare.
L’etimo del Pudiga sembra riconducibile alla stessa radice del nome ligure del Po, Bodincus, βόδεγχος corrispondente ad Accadico Butiqtu (inondazione, fiume) incrociato con Badāqu (rompere gli argini). Dal punto di vista delle ovvie difficoltà, per le popolazioni neolitiche, a dissodare le terre aride e a costruire canali con aratri di legno, osso o pietra, non si deve immaginare l’azione di rompere gli argini come sinonimo d’infausto e incontrollato devastare. Era piuttosto una pratica consolidata d’intervento sugli argini «dove scorrono torrenti a portare per concime il limo» (Virgilio, 31 e 29 a.c. Georgiche). Quelle popolazioni educate da sei millenni di diluvio nelle loro terre d’origine, sapevano volgere a proprio favore la furia distruttiva della natura. Rinforzavano gli argini dove necessario riportandovi con ceste il materiale umido e sabbioso in eccesso, asportato con fatica - secondo il destino che gli Dei avevano assegnato agli uomini - ma senza difficoltà dai tratti in prossimità di radure di facile accesso e coltivazione: rompendo gli argini dove serviva “regolare” ed indirizzare l’esondazione, in modo che il limo vi dilagasse per rinnovare la fertilità dei campi. Similmente a Μολόεις, fiumiciattolo presso Platea, il Molia deve il suo toponimo all’Accadico malā’um (essere pieno) da mēlu, mīlu (piena), da intendere anche in questo caso come opportunità più che come minaccia. Nessun’altra cultura poteva disporre, tra sei e quattromila anni da oggi, delle basi di conoscenza necessarie ad interpretare con una tale varietà di idronimi e di toponimi, e in modo così sistematico, la natura di quel territorio ricco di acque.
Le caratteristiche fertilizzatrici delle acque di superficie e le straordinarie proprietà della falda superficiale risorgente, in corrispondenza di un nodo di comunicazione continentale, furono la ragion d’essere della Milano emergente. La sua collocazione strategica su una Ziggurat naturale, generata dal caos e attorniata da terre naturalmente fertilizzate dall’acqua, doveva apparire ai coloni simile a quella dei villaggi della cultura di Obeid nelle vaste pianure degradanti dalle montagne dell’Anatolia, prima che una progressiva siccità, dal sesto al quarto millennio aC, inducesse a concentrare le terre agricole in prossimità dei corsi dell’Eufrate e del Tigri, dove ormai solo grandi collettività umane asserragliate nelle prime città potevano compiere gli imponenti lavori idraulici necessari ad irrigarle, costrette a difendere stabilmente il frutto del loro lavoro per sopravvivere.
Là per la prima volta nel ciclo di vita dell’umanità un solo chilometro quadrato di terra inondata dal limo aveva potuto nutrire 4000 persone. Un solo uomo lavorando la sua terra per pochi mesi era riuscito a mantenere agiatamente una famiglia di otto persone. Ma dal quarto millennio prima di Cristo, con la siccità, i figli innumerevoli di quella civiltà dovevano cercare lontano le terre fertili per le loro future famiglie.
Dapprima furono i pascoli, fino ad allora in simbiosi con l’agricoltura, a divenire incompatibili con il ridursi della terra fertile. E ad alimentare un nuovo nomadismo fu la necessità di abbandonare l’avara steppa desertica, arsa dal sole e dalla pratica del debbio, e muoversi verso l’ignoto, a Nord e a Occidente, alla ricerca di nuove praterie verdi. Capre e asini costituivano una riserva logistica per chi doveva spingersi, in avanscoperta sempre più lontano, alla ricerca di risorse minerarie affioranti e non presidiate: di vitale importanza per i primi insediamenti urbani, nati dal fango e perciò totalmente privi dei materiali duri necessari per costruire utensili e armi appropriate. E il nomadismo a scala continentale, veicolo di comunicazione e di congiunzione tra diverse culture, avviò il processo di fondazione della koiné linguistica della cultura europea. L’arricchimento culturale e tecnologico, nato dall’incontro delle differenze, assieme al rapido accrescimento delle popolazioni su territori sconfinati, rendevano i reami nomadi capaci di assumere ciclicamente il predominio anche sulle nascenti città stato. Così avvenne per le popolazioni accadiche prima e poi, tra altri, per gli Achei, agli albori della nostra civiltà.
Sulle alte vie d’Europa li guidavano gli astri e i monti. Costellavano il loro percorso di steli dove il piede astrale delle stelle più luminose che indicavano le vie del cielo segnava i sacri crocevia dei percorsi terrestri. 

Mešlu 

Anno 4041 aC., 21 Giugno, ore 01:01:12: il prolungamento della linea che congiunge le due stelle più luminose del cielo estivo, Vega e Arturo, si trova allo zenit di Milano e indica la retta via delle terre di mezzo. Giunta sulla Sila da Crotone una comunità nomade guidata da una sciamana ne seguirà il percorso per una intera stagione. Scenderà ad Aieta e Sapri, poi incontrerà in perfetto allineamento con le più alte vette della dorsale appenninica: Moiano di Benevento, Marruvium e Magliano de’ Marsi, Milano (Mediolana) di Spoleto, Pieve a Maiano di Arezzo, le cave di Maiano di Fiesole, Migliana PO, Miano e Medesano di Parma, Melegnano, Milano lombarda, Murten delle Berner Mitteland, Mesandans, Melin, Melay, Moslins, Amiens Caesar (una delle Mediolanum francesi) in prossimità di Moislains, Mayfields nel regno unito, Midland terrace, Millan, Maidenhead, Middletown presso Oxford, sfiorerà Stradford Upon Avon, poi ancora una Middletown, Menai Bridge, Middletown di Armagh in Irlanda e infine Middleton Co. Donegal e Middletown, presso il Kilclooney dolmen all’estrema propaggine di nord Ovest delle Cassiteridi, in vista dell’oceano. Con la precessione degli equinozi lo zenit di Vega scenderà verso Murten e a metà del quarto millennio si troverà sopra Milano, trasformandola in crocevia celeste. È curioso notare che il logogramma cuneiforme di Mešlu è costituito da una semplice croce, come l’attuale cristiana bandiera di Milano.
Oggi Milano è il piede astrale di Deneb. Invocando i poteri magici di Medea, possiamo ancora immaginare che in una notte di mezza estate la costellazione dei falò delle montagne incatenerà Homan sulle ali di Pegaso, Deneb allo zenit, e Alkaid, ai confini dell'aurora e del tramonto. Solo in quell'attimo la poesia indicherà la retta via del cielo per Stratford. E Prospero, duca di Milano nella Tempesta di Shakespeare, potrà nuovamente ammonire: «Con la mia preveggenza trovo il mio zenit dipendere da una stella, la più propizia. Se la sua influenza non colgo ora, ma tralascio, le mie fortune declineranno per sempre».
Valdengo 20 luglio 2012







3 commenti:

  1. I rimandi culturali (dei quali la linguistica non è che un aspetto) di Semerano sono sempre sorprendenti per la loro completezza concettuale.

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  2. Nell'articolo ho cercato di combinare in modo organico tre diversi "rimandi culturali":
    - La ricerca etimologica di Giovanni Semerano su Milano, Olona e Lambro;
    - un mio studio sull'accoppiamento strutturale tra l'insedimento milanese ed il suo ecosistema basato sulla cartografia storica dal XVII al XIX secolo, associato alla ricerca , con il supporto dell'Akkadian dictionary, sul significato di idronimi e toponimi, non direttamente indagati da Semerano, quali "Seveso", "Pudiga", "Nirone", "Molia", "Groane", "Barona";
    - Una mia ricerca sulle metodologie e gli strumenti di referenziazione geoastronomica dei luoghi applicata fondatamente, ma in modo giocoso, al perfetto allineamento delle "terre di mezzo" da Botricello in Calabria a Marameelan in Donegal, passando per le due "Milano" Italiane, numerose Mediolanum francesi e tutte le Middletonws dell'arcipelago britannico.
    Di quest'ultimo argomento, per altri aspetti indagato dal prof. Yves Vadé nel suo "Pensée celtique et mythologie française
    Recherches en cours sur la géographie sacrée de la Gaule (problème des Mediolanum)" avevo discusso con un gruppo di interessatissimi geografi, storici, archeologi e archeoastronomi milanesi. Ma mi piacerebbe trovare altre sedi di confronto e contradittorio sulle mie conclusioni.

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  3. Dovrei informarmi e conoscere meglio l'area geografica in questione. Principalmente, tuttavia, e data la completezza delle sue analisi, più che entrare nel loro merito vorrei capire meglio le direttrici d'arrivo e diffusione dell'apporto culturale akkadico-mesopotamico in Europa (e non solo), e i suoi tempi. Credo che questo sia il punto meno sviluppato degli studi di Semerano, ma è (o io credo che sia), il punto chiave per affermare definitivamente l'autorevolezza dei suoi studi.

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